Wonderboi

“hey Pic-Man! I like you camera”

anonimo regista indipendente londinese

GIORNO UNO

Il copione è quello. Regionali in transito, voci, odori, paranoie. Un cambio a Verona di soli sei minuti. Movimenti ittici fra scale, sottopassi, marmi scivolosi. Il rettangolo rosso malattia del KFC che morde nella luce stantia della piazza.
«Ci ho litigato finora. Di nuovo»
«Porcodio»
«Lascia stare»
«Andiamo a casa dai»

«Però questa volta ho detto quello che pensavo…»

A casa. L’hai detto con tanta naturalezza da farmelo credere reale. È come mi ci sento, in effetti, lì, in quell’appartamento spazioso e isolato. Mi rendo conto con chiarezza di quanto ne avessi bisogno.

Giugno è appena iniziato e tutto quello che esiste di confortante nella primavera sta precipitando pericolosamente nel grande gorgo informe dell’estate. Non ho riparo dalla sua vastità, non da quando estate significa mancanza. Camminiamo fianco a fianco lungo la ciclabile, tu porti la bici a mano, io trascino il mio trolley, e entrambi siamo costantemente inseguiti dai tagli di luce che i lampioni incidono nella sera.
«Domani andiamo a giocare a basket. Così ti passa tutto»
«Daje, ci sta»
«Je famo il culo a Kawhi e gli altri»
«E certo!»
Mimo un crossover, allargo il braccio destro e mi sposto a sinistra. Step-back. Tiro. Il trolley ribaltato a terra come un avversario battuto. Dentro, i miei vestiti scelti a casaccio e il libro del poeta ungherese di cui ti ho parlato.
«Non so zi, mi sento totalmente esposto… ogni cosa è appuntita, sento che tutto potrebbe ferirmi»
«È normale zi, la ferita è ancora aperta, ancora sanguina»

«Spero che questo weekend mi farà bene. Sono contento di essere qui»
«Sono contento anche io»
«Grazie zi, davvero»
«Macchè, grazie a te. Vedrai che un paio di scelte sbagliate ti rimettono al mondo!»
«Solo Scelte Sbagliate»
«Solo Scelte Sbagliate, mon ami. E la prima potrebbe essere stasera» sorrido, mentre costeggiamo il Parco della Musica. Ripenso a Londra, a quella vacanza così stridula e buffa. Alla casa di Whitechapel, che aveva stanze luminose e fredde, dipinte ciascuna a colori diversi. Al fatto singolare che ci fosse un impianto stereo in ogni stanza e ovunque straripava di mensole, oggetti curiosi e soprattutto di vinili. La mattina sceglievamo un vinile a caso e lo mettevamo su mentre aspettavamo bollisse l’acqua per fare il tè e la musica si diffondeva nello spazio minimo della cucina. Le note diventavano una cosa fisica e come insetti battevano contro i vetri della finestra per uscirsene fuori. Eravamo simili a loro, in fondo. Fermi in quella cucina gelida, gli occhi rapiti dalla luce lattea della mattina, a invidiare i moti acquatici della pioggia battente.
«When you’re in love with a beautiful womaaaaaan»
«Domani mattina ce la spariamo»
«Palese».

La notte mi sveglio di continuo. È inusuale per me, perfino in questo periodo. Mi giro verso il muro, prendo il telefono per guardare l’ora. Le 3.30. Mi alzo, stando attento a non fare rumore, ed esco dalla stanza. Mi verso un bicchiere d’acqua e bevo a sorsi lenti, lo riempio di nuovo altre due volte. Sul divano scorro le chat a ritroso.

Finisco sui messaggi importanti, rileggo nella luce tenue dello schermo, accesa nel buio quasi totale della stanza. Le parole mi raggiungono ma non si trattengono. Scivolano via senza depositarsi. Qualcuna mi resta impressa nella retina, un solo istante, poi svanisce. Giro il telefono a schermo in giù, appoggio la testa allo schienale. La notte mi è sempre stata ostile, penso.

 C’è qualcosa in me che la respinge. Le parole di prima sono rimaste a velo d’acqua, come insetti minuti e fragili. Le ho tenute a distanza perché la notte moltiplica le profondità d’accesso a ogni cosa. Una virgola di sonno si sta aggrappando alle mie palpebre. Prima di cedere, rileggo il mio stato di Whatsapp: “tu dai un senso a tutta la mia vita / ai miei passati anni milanesi / a questa primavera tempestiva” poi più niente.

 

GIORNO DUE: pomeriggio

Pedaliamo sul lungomare di Padova, siamo leggeri come monetine che sfilano via da una tasca bucata. La città a quest’ora è esotica: può fingere quello che non è, e quindi c’è il mare, un lenzuolo grigio appeso che si vede a scaglie dalla grata del cavalcavia. Su questo ponte non si capisce se a tagliarci a metà sia la linea retta del sole o la ferrovia che al di sotto si muove sbilenca come un oggetto rotto.
«Una lungaaaa serieeee di colazioni sotto un mandorlo-ooooo».
Le nostre bici scrivono i contorni delle loro ombre sull’asfalto della ciclabile. Cantiamo perché è primavera, l’aria è sottile e pulita e ancora si trattiene nascosto il dramma pulsante dell’estate. Perché Padova a quest’ora è equatoriale, oltre la sua linea cambia verso la rotazione dell’acqua e i suoi edifici prendono le forme vegetali e grasse delle piante tropicali
«Il vero amore è negli occhi di un cane vagabondo»
«COME STAI? BLA BLA BLA! CHE SENSO C’È»
«A unire parole con le altreeee».
Non cantiamo le battaglie di Federico Fiumani e neanche le nostre, quelle sono rimaste dall’altro lato, quello in cui lo sfondo è Milano, trangugiata dal suo cielo grigio fossile. Quello in cui Rovereto è una volpe insanguinata che lascia tracce sulla neve. Da questa parte della linea c’è solo Padova, balearica e tremenda. E ci sono le nostre bici che hanno valicato i binari e adesso si immettono nelle branchie selvatiche del parco Milcovich.

Al lato del campo c’è l’albero sotto cui Andre leggeva I racconti dell’età del jazz. Ora lui non c’è, le radici ingrossate emergono dal terreno, varicose. Soffia un vento sottile e giocoso. Il sole, ridotto a mezzaluna, sta limando la linea tirata del cielo. A ben guardarlo, ha l’aspetto di un raviolo cinese da cui la luce fuoriesce come brodo di carne.
«Quella ragazza laggiù ci sta guardando».

Mi giro, butto uno sguardo alle mie spalle, dove stai indicando.
«Sta guardando te zi… wonderboi!» mi fulmini con gli occhi, ma sorridi. Per un attimo impercettibile le tue pupille hanno brillato.
«Sei tu il wonderboi»
«Eh no, io sono Mr Ciotto, non scordarlo»
«Nah, non sei più così ciotto ora»
«Wonderboooooi»

«Ciottobooooi! Sei Ciottoboi ora»
«Wonderboi e Ciottoboi»
«Daje va, andiamo di là che stanno facendo le squadre».





GIORNO DUE: sera

 

Padova ha un sapore agrodolce. Ha spazi in cui è facile sentirsi soli e pieni allo stesso tempo. C’è una linea fragile che divide la città, la spacca in due lati asimmetrici e la trasforma. Il mio lato è stato quasi sempre quello livido e aguzzo. Quello fatto di spigoli accesi su cui è fin troppo semplice che si riapra una ferita. La Padova di qua è stata un boccone lungo e indigesto, che lascia in bocca il sapore clinico dell’acidità. Nel suo insieme, questa città spinge così docilmente a movimenti di festa e carnevale da trasformare qualsiasi altro moto in scarto, materiale in eccesso destinato allo smaltimento. E io sono stato in quel rivolo di scolo che si muoveva lentissimo verso un punto di crollo, il buio di un tombino o il cerchio stantio di una pozzanghera. Poi c’è l’altro lato, quello illuminato. Quello a cui apparteniamo adesso, in questa sera abbondante e gravida come una galassia.

Respiriamo a fondo, i polmoni distesi in un gesto euforico. Accanto a noi, oltre ai tavoli e alle luci appese, l’abbraccio materno dell’Arcella si appoggia su ogni cosa. Sulle nostre birre economiche, sulle parole che pronunciamo. Sulle dita oblique della sera che sfiorano la città e ricamano i suoi orli lontani. Ci guardiamo, è un istante, e so che lo sai, come lo so io. Stasera ci siamo davvero.

Non attraversiamo le cose come riflessi striati. Non manca quel maledetto millimetro, c’è aderenza completa. Stasera siamo le cose.


GIORNO TRE

È mattina, sole diffuso. Con questa luce, Padova trasforma in oro tutto ciò che tocca. O è l’oro che cola direttamente dalle nostre mani, troppo grandi per sfiorare e basta. Nell’ombra raccolta della piazza aspettiamo che la salvezza arrivi così vicina da poterla guardare. Mangiamo fette di millefoglie esondanti di crema. Tu non bevi caffè, io invece ne ho già presi due.


«Prende a male tornare»
«Lo so, zi.. puoi restare qualche altro giorno, se vuoi»
«No zi, devo tornare. Devo lavorare…»
«Puoi lavorare da qui»
«Potrei, sì. Ma poi sarebbe come oggi: a un certo punto dovrei comunque tornare. Devo farcela, devo riuscire»
«Riuscire a fare che?»
«A riassemblarli sti pezzi sparsi».

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae due ragazzi che pedalano su un ponte”