Editoriale
Un giorno abbiamo pensato: ma perché queste cose che ci diciamo non le pubblichiamo a beneficio di tutti? Con “abbiamo” intendiamo noi del collettivo di Spaghetti Writers insieme alla redazione di Topsy Kretts, e con “queste cose” intendiamo gli argomenti intorno a cui nascono discussioni, confronti, lamentele, che facciano parte del mondo della letteratura o meno.
Chiaro è che, trattandosi di due riviste della lit-web, le tematiche su cui dibattiamo sono per lo più di tipo letterario: libri che leggiamo, che ci piacciono e non ci piacciono, la salute e lo stato del racconto come genere narrativo in Italia, il modo in cui arrivano proposte quando lanciamo le nostre call, le esperienze che viviamo da autori e autrici quando abbiamo la fortuna di pubblicare un romanzo, i rapporti con “gli addetti del settore”, le collaborazioni con altre riviste amiche.
Spesso nelle chat di gruppo che condividiamo emergono correnti di pensiero condivise e interessanti: abbiamo, ad esempio, notato una certa insofferenza delle persone a partecipare alle fiere e ai festival, come anche una tendenza spiccata alla scrittura di racconti che sono autobiografici o ispirati (per non dire copiati) da autori/autrici famosi; commentiamo il fastidio che proviamo quando sui social si scatenano lotte da tastiera inutili e controproducenti, da cui teniamo accuratamente le distanze; siamo partecipi della stessa preoccupazione quando ci chiediamo cosa vuol dire fare editoria in modo appassionato al giorno d’oggi; ci aggiorniamo sugli esordi che sono passati per le nostre riviste coi loro racconti; mettiamo a confronto i nostri approcci all’editing.
Spesso saltano fuori bestemmie e parolacce. Ovviamente anche cazzate senza senso, com’è giusto che sia in chat. Ma, proprio per questo motivo, perché crediamo fortemente che i circoli chiusi e ristretti, spesso, siano quelli dove i fermenti più interessanti nascono, abbiamo deciso di dialogare in una serie di interviste reciproche in cui parliamo senza peli sulla lingua: Spaghetti Writers intervista Topsy Kretts e viceversa, in una serie di dialoghi che usciranno a cadenza mensile, pubblicati su ciascuna rivista a partire da dicembre 2024.
Il principio è divertirci, recuperare un po’ di leggerezza. Ma questo non vuol dire che quello che diciamo non sia serio. Buona lettura!
Interviste
La prima delle interviste scorrette vede intervistate Deborah D’Addetta e Nicole Trevisan, due esponenti di spicco del collettivo Spaghetti Writers, nonché future voci del cartaceo di Topsy Kretts, “Sei in un paese Meraviglioso”. A porre le domande Federico Riccardo e Simone Sciamè.
Federico: Nicole, quando hai mandato il tuo racconto, Quanto manca? alla redazione di Topsy Kretts ho urlato di gioia e screenshottato il corpo della mail agli altri componenti della banda. Ti ho sempre letto con molto ardore ma non ti ho mai contattato per ricevere un racconto. Tutto è nato da sé. Mi auguro che questa rivista non sia stata una delle tante scelte possibili nel mare magnum della litweb.
N: Nell’ultimo anno ho scritto meno racconti e cercato la pubblicazione su rivista ancora più di rado. Topsy era una realtà che conoscevo poco, ma l’interesse cresceva mano a mano che proseguivate con le pubblicazioni. Mi avete comprato con Contro la performance, ospitando tra gli altri autori come Mira e Grigolo, che conosco e stimo tantissimo. Ho sentito che avevamo qualcosa da dirci, che c’era una convergenza di interessi e temi. Quindi, è arrivato Quanto manca? che è un racconto sul tempo e la nostalgia, molto compassionevole. Serviva un luogo sicuro dove poter essere buoni e raccontare buone storie.
Federico: Con Deborah invece l’innamoramento è stato travolgente. Non ci conoscevamo, poi ho visto quel Maleuforia in uscita nel 2024, ho scoperto chi fossi, ho ricordato di aver letto tuoi racconti in giro. Ti ho contattata, abbiamo parlato, mi hai detto subito sì. Come ti senti a essere così generosa in un mondo di stronzi editoriali?
D: ti rispondo citando il primo pezzo non narrativo che ho scritto per Topsy, che ricorderai molto bene, Perché scriviamo se tutto sembra rovina?.
“Scrivi perché non ti senti più solo. Lo fai perché vuoi essere amato, lodato, desiderato, perché ogni tanto ti illudi (e il piacere sta tutto in quell’illusione) che la tua storia sia diversa, sia ben fatta – o meglio ancora, mai fatta – e tu, per la prima volta nella vita, sarai sul podio di qualcosa, anche se non sai ancora cosa”.
Credo che la risposta alla tua domanda sia nell’umiltà. Perché avrei dovuto dire no a una persona che mi ha dato un certo credito e ha creduto fortemente in quello che ho scritto? Il favore l’hai fatto tu a me, non il contrario. Dare la possibilità a qualcuno di essere letti è l’atto più generoso che si possa fare in questo ambiente. Per questo motivo non dico mai no a nessuno. Ricordo benissimo come mi sentivo quando provavo con le unghie e i denti a emergere, tutti i no che ho beccato in faccia (a volte in modo giustificato, altre meno), ed essere generosi in questo senso non ha tanto a che fare con la generosità in sé (anche se è innegabile che io abbia questa indole), ma con l’occasione di conoscere persone per bene, che credono nella letteratura e nel suo valore. Se ti avessi snobbato, non avremmo stretto amicizia e non avrei conosciuto Topsy e persone che la pensano come me. Chiaro è che, se una persona mi chiede di collaborare e mi accorgo successivamente che non le interessa la mia scrittura ma altro, non avrò più voglia di averci a che fare. Io sono una cazzara assoluta, ma quando si tratta di scrittura non mi devono rompere le palle. Voglio serietà incondizionata, la stessa che do io.
Simone: Sembra che ci siano due tipi di editoria: quella che idealizziamo e quella reale. Quella che idealizziamo pensiamo sia popolata da persone di cultura – immaginiamo dunque come persone a modo, che sappiano stare al mondo – dotate di una certa sensibilità. Persone coscienti che un libro venda meno di un film, e che quindi siano mossi da una spinta spirituale, ascetica, che cerchi di elevare l’essere umano attraverso l’arte, persino scendendo a patti con il fatto che scrolling batte libro, che Netflix batte libro, eccetera. Sono proiezioni che tendono a romanticizzare l’editoria, che portano qualunque novizio a ridimensionare le proprie aspettative – abbattere il castello del mito letterario – scontrandosi inevitabilmente con la realtà. Cos’è, secondo voi, l’editoria reale?
N: Quando cominciamo a frequentare fiere ed eventi letterari, leggiamo le riviste o gli inserti culturali dei quotidiani, immaginiamo un mondo fragrante di carta e belle lettere che crediamo abitato da figure quasi ascetiche, illuminate e animate dagli influssi dei grandi letterati della storia – almeno, questa era la mia fantasia iniziale. Vorrei dire che è durata una decina di minuti, ma ci sono voluti mesi a ridimensionare e ad abbozzare un’idea della realtà: l’editoria è un settore economico. Ci sono i margini, gli stipendi, le spese. Regole interne, dinamiche di distribuzione, i vizi di sistema. Le persone che ci lavorano, inoltre, sono persone con difetti e impicci ordinari e sì, alcune conservano una visione ampia della situazione sociale, politica, culturale, e una certa sensibilità. Possono essere persino oneste. Non diversamente da altri comparti economici, è un settore che sta affrontando delle criticità e in cui si spera sopravvivano, residui o più marcati, obiettivi di ricerca, cura e passione per la letteratura. Credo sia complesso, ma ho fiducia nel lavoro di alcune realtà che si strutturano con atteggiamento critico rispetto al presente e non temono di mettersi in discussione, di pubblicare meno, meglio, di darsi un’identità forte.
D: Credo che l’illusione e la disillusione siano un percorso quasi obbligato per chiunque abbia a che fare con mestieri creativi e artistici. E non è un tranello giovane o recente, ma sappiamo di artisti di vario genere che, anche centinaia di anni fa, lamentavano le stesse problematiche (penso a Zweig, ad esempio, o ad altri scrittori e pittori che per mettere a tacere la frustrazione si autopubblicavano o cercavano costantemente filantropi). Non esiste, di fatto, un’editoria reale. L’editoria odierna è inevitabilmente influenzata dall’idealismo alla base del sistema: se gli scrittori o le scrittrici non credessero a quello che fanno, non ci sarebbe libri da pubblicare. Che poi la passione venga svilita in nome di regole di mercato questo è indubbio. Molte persone, dopo l’esordio, si fermano, rifiutandosi di pubblicare altro. Come ha giustamente puntualizzato Nicole, l’editoria non è una favola, ma un settore in cui girano soldi (pochi, nella maggior parte dei casi, se escludiamo i grandi marchi) e quando girano soldi c’è di mezzo una transazione economica che, per forza di cose, si scontra con l’idealismo. E quando i soldi sono pochi, si chiede a tutti gli interessati uno sforzo che fa leva sull’unica cosa gratuita dell’intera baracca, ovvero la passione di chi scrive e quella di chi pubblica. Fatta la pace con questo assunto, chi decide di proseguire in questa carriera, salvo casi eccezionali, sa che deve rimboccarsi le maniche, ingoiare rospi e smettere di pensare di essere l’eletto. In Italia si pubblicano 80 mila libri l’anno. Pensare di riuscire a invertire il sistema con un proprio testo è presuntuoso nonché folle. Si scrive perché non se ne può fare a meno, non perché siamo eroi. Non dobbiamo salvare niente.
Simone: In Alieno (Squallor, 2015), Fabri Fibra dice “Il 99% della scena rap italiana è finzione”. Al contempo, un termine che ha guadagnato terreno in questo ultimo decennio è “amichettismo”, neologismo coniato da Abbate che esprime però un concetto nonpiùgiovane, che parte dalla politica ma che riversa nel settore artistico, in questo caso letterario. Parola che spiega quella dinamica secondo la quale per pubblicare un libro, per farselo recensire, per farselo sponsorizzare, per farlo premiare, bisogna essere amico di qualcuno. Di fatto, è una visione che distrugge il senso di meritocrazia e che rafforza l’immagine dell’editoria come bolla letteraria, all’interno della quale è impossibile entrare se non si hanno contatti.
Quanto c’è di vero in queste due visioni?
N: Nell’attuale sistema editoriale, pubblicare è “facile” (si pubblicano sempre più libri, ogni anno); semmai, è difficile pubblicare ricevendo l’adeguato sostegno dalla casa editrice, in termini di visibilità, diritti, compensi e cura per il proprio lavoro.
Ancora più difficile, ammesso di aver piazzato il libro in una realtà editoriale affidabile, sopravvivere nell’ambiente. In questo senso l’amichettismo offre grandi opportunità. Non nego l’esistenza del fenomeno, è evidente che, ad esempio, frequentare grandi scuole di scrittura garantisca una rete di contatti – è anche un valido motivo per pagarne la retta – e che portino allo sviluppo di relazioni privilegiate; allo stesso modo, essere figlio, nipote o amico di, garantisce vie di accesso estranee a noi comuni mammiferi, che rosichiamo senza i grandi nomi in rubrica. Tuttavia, è inappropriato piangere la solitudine: l’attività di scrittura è un’attività di relazione con editor, autrici e autori, redazioni e librai e dal confronto con gli altri, si creano dei legami. Certo, sarà complicato fare amicizia con i nipoti di Umberto Eco, ma si parla con persone del nostro stesso settore, che possono offrire supporto e consiglio. Possiamo avere i nostri amichetti? Sì. È questo a sua volta amichettismo? Ora la responsabilità è nostra e sta a noi decidere cosa vogliamo essere da grandi, i raccomandati o i raccomandatori; oppure, persone che restano lucide e sincere (e si intervistano a vicenda). C’è anche questa possibilità. In ogni caso, credo che le logiche dietro alla vittoria di un premio o alla visibilità di un libro siano più complesse di una parola buona messa dalla persona “giusta”. Il libro vale ancora qualcosa. Ma valgono molto anche le dinamiche di mercato, il tempismo, la ricezione del pubblico. E su questi fattori l’amichettismo interviene limitatamente.
D: Quando si ha a che fare con i circuiti chiusi, come nel caso della bolla editoriale, stringere contatti è questione di sopravvivenza. Senza contatti, non solo non pubblichi, ma non esisti. Inutile girarci intorno. Ora, il problema non è cercare le persone giuste che possano aiutare a raggiungere uno scopo, ma il modo in cui le si cerca e il modo in cui ci si muove una volta individuato il canale giusto. Il mio caso è un esempio emblematico: quando ho deciso di voler pubblicare, non ho mandato manoscritti ad alcuna casa editrice. Sapevo di dover fare gavetta, prima. Così ho cominciato a pubblicare racconti su riviste della lit-web. Uno di questi racconti pubblicato su Spaghetti Writers è stato notato da due o tre editor, tra cui Antonio Esposito che ha curato l’editing di Maleuforia, e così ho potuto, anello dopo anello, conoscere persone che potevano aiutarmi. Si può dire senza dubbio che io sia stata fortunata. Cosa avrei fatto nel caso in cui quel racconto non fosse stato notato? Avrei cercato altre reti. Se per amichettismo intendiamo “l’amico che aiuta l’amico”, allora io non ci vedo niente di male, purché il lavoro alla base sia di qualità. Se per amichettismo intendiamo “vengo a letto con te perché così mi pubblichi” allora mi fai schifo perché stai insultando non solo te stessa/stesso, ma anche le persone serie che si fanno il culo per i propri scritti. Che poi, amici, non è una novità che il mondo sia un posto ingiusto. C’è chi ha fortuna e chi no. Ma Nicole ha detto una cosa corretta: è relativamente facile pubblicare oggi in Italia, bastano “solo” parecchia pazienza e testardaggine nonché l’intelligenza di capire che, essendo in un circuito chiuso, se usi mezzucci per arrivare a un obiettivo lo sapranno praticamente tutti. A queste condizioni, io preferirei non pubblicare. Vorrei sottolineare che la cosa irrinunciabile è scrivere, non pubblicare.
Simone: Credo sia innegabile una tendenza alla pubblicazione di libri scritti da attivisti. Ciò che nasce con buoni propositi, non è detto che si sviluppi con la stessa coerenza. Un attivista potrebbe cominciare a parlare sui social per sensibilizzare le persone sui diritti civili, portando un nobile contributo di divulgazione, magari cercando di raggiungere qualcuno che, fino a ieri, non sapeva niente di diritti delle minoranze, ad esempio. Però, brutto doverlo ammettere, ci sono elementi che ci portano a pensare che l’attivismo non sia solo una nobile spinta altruistica, ma un’opportunità lavorativa e di promozione. Ecco perché ad alcune autrici, oggi, viene chiesto se, oltre a scrivere un bel raccontino, si dilettino a portare avanti battaglie femministe o blastino qualche coglioncello maschio bianco etero cis sulla propria personale vetrina social, se frequenti qualche festival, magari con qualche contatto – perché senza queste cose, il raccontino rimane solo un raccontino.
Vi è mai stato chiesto di essere simboli, di essere qualcosa che non eravate, o di diventarlo, per migliorare la vostra immagine pubblica – e quindi dell’editore -, potendo così aumentare le vendite con la scusa delle “buone intenzioni, l’educazione”?
N: Nessuno che ha mai creduto che propormi qualcosa di simile potesse avere un senso, ho avuto a che fare con persone intelligenti. C’è sempre stata molta limpidezza tra me e le persone con cui ho lavorato, non da ultima la mia casa editrice, che accetta che io sia riservata e non posti quasi niente di personale. Di certo, sarebbe stato comodo a livello di visibilità, dunque di futura promozione e vendite, se avessi avuto un profilo da attivista, ma non è quello che sono e aderire a un simbolo per finalità promozionali mi appare a dir poco insincero. L’incoerenza, per fortuna, è un tratto che ancora viene notato dal pubblico. Certo, il rischio è che il mio raccontino resti solo un raccontino, nonostante possa contenere temi forti, in linea con battaglie sociali che sostengo e su cui non mi espongo direttamente. È importante che escano a modo mio – riservato, sommesso, non meno duro, talvolta.
D: a differenza di Nicole, io sui miei canali social sono fin troppo presente (sia per esigenze lavorative che per divertimento personale). Detto ciò, non sono un attivista e nemmeno voglio esserlo, non ne ho le capacità e, sinceramente, neanche mi interessa perché esistono profili molto più informati e capaci del mio. Ad esempio, io evito completamente di parlare di politica, di femminismo, di diritti delle persone transgender, nonostante la tematica del mio romanzo sia piena di queste urgenze. Si tratta di una scelta accuratamente ponderata: il mio interesse per la comunità LGBT e il femminismo – quello costruttivo, non quello da tastiera – passa attraverso la mia scrittura, non la mia partecipazione al Gay Pride (manifestazione più che necessaria, lo sottolineo). Ho detto tutto quello che dovevo dire a proposito di quello che penso nel mio libro: il dolore, le ingiustizie, la necessità di essere empatici e di cambiare modo di pensare all’altro. All’altro in generale, come esseri umani. C’è però da essere onesti: se Maleuforia avesse avuto come tematica la produzione di pomodori Vernino nell’entroterra del Gargano, è molto probabile che non avrebbe attirato l’attenzione. La spinta iniziale, proprio grazie a quel racconto notato che aveva come protagonista una donna trans, è stata determinante. Il romanzo parla di femminielli, parla di transizione di genere, una tematica caldissima in questi ultimi anni. Sono stata fortunata perché l’interesse pubblico per la questione ha coinciso con quello che avevo scritto, ma questo non vuol dire che io mi sia piegata alle logiche del mercato. La mia storia nasce moltissimi anni fa, nei primi anni del 2000, quando ancora non si pubblicavano libri di questo tipo. Ecco perché dico di essere stata fortunata.
Simone: Un editore che sta meditando di pubblicarvi, tra le altre cose, darà un’occhiata ai vostri canali social. Interessante, Deborah è seguita, è molto attiva, scrive parecchio, pubblica post (anche il contenuto è importante, no?), storie, interagisce con i suoi follower. Nicole sembra più riservata, meno attiva, forse più spettatrice che protagonista. O forse assente, cioè preferisce vivere la vita fuori dallo schermo. Quanto il vostro numero di follower, il vostro modo di comunicare sui social, pensate influenzi la vostra carriera di scrittrici?
N: Per anni non ho avuto i social e fatico a individuare la giusta misura tra l’esposizione della mia persona e quella del mio lavoro – che non coincidono. Ho scelto di prediligere la seconda. Se mostrassi come mi vesto ogni mattina o commentassi le notizie del giorno in tono ironico e brillante forse avrei più follower e sarei comunque coerente con me stessa, ma non mi sentirei a mio agio. I social sono uno spazio pubblico ed è una dimensione che affronto con cautela. Se posto una foto scattata in viaggio, per strada o durante una serata è sempre decontestualizzata – sono suggestioni di momenti cari, non do spiegazioni. È importante che i miei social mi rappresentino. Di certo pago la scelta di riservatezza a livello di popolarità, decidendo di non mostrarmi, non tanto fisicamente, ma nelle mie opinioni e convinzioni personali. Punto su quello che so fare – scrivere, in questo caso – sperando basti a compensare quello che non so fare – espormi con sicurezza sui social. Comunque, ho un’eccezione alla regola: i selfie nei bagni dei ristoranti. Quello è un contenuto a cui tengo moltissimo.
D: Penso di aver risposto prima, ma grazie per questa domanda perché, come vedi, io e Nicole, nonostante usiamo i social in modo diverso, siamo arrivate allo stesso identico obiettivo. Nel mio caso, se non avessi adoperato i social come li uso, è molto probabile che non avrei avuto l’occasione di agganciare le persone che poi mi sono state indispensabili. Il racconto fortunato è stato notato perché ne ho parlato per giorni nelle mie stories su Instagram e perché il link era lì a disposizione di chiunque. Se io l’avessi scritto per puro esercizio di stile, senza pubblicizzarlo, non l’avrebbe letto nessuno e, ripeto, non essere letti significa non esistere. Inoltre io ho un altro “problema”: le mie fotografie. Spesso mi è stato rimproverato che una “vera scrittrice” non posta foto in déshabillé e non nego, prima di pubblicare il romanzo, di aver riflettuto a lungo sul caso o meno di smettere. Mi sono domandata quanto la mia autorevolezza come autrice sarebbe stata minata dall’idea che una foto provocante sia un demerito a livello intellettuale. Poi ho deciso di fregarmene: io sono così, scrivo e scatto fotografie, ed entrambe le discipline mi rappresentano appieno. Nel momento in cui un editore, o chi per lui, guarda il mio profilo e mi chiede uno scritto perché ha visto una mia foto con le tette di fuori, sta a me fargli capire chi sono. Non è negare la propria natura che solleva lo spirito, ma il modo in cui la si comunica. Io non posto quelle foto per acchiappare consensi, le posto perché piacciono a me e tanto basta. Una donna che scrive ha tutto il diritto anche di far vedere il culo, se preferisce, questo non toglie e non aggiunge nulla a livello di intelligenza o di talento.
Federico: Nic, sai cosa ti aspetta nel pubblicare il tuo primo romanzo?
N: Sono convinta di sì. Sono stata preparata, ma la realtà è che no, non lo so e sono molto in ansia. I miei colleghi di redazione, i miei familiari e gli amici sono pronti con camomille e coperte calde. Spero che il romanzo (La malefica) abbia una sua storia, che venga letto e conosciuto, se possibile amato. Ho scelto di raccontare una protagonista irritante, divisiva quando non odiosa, che ha introiettato le insicurezze della sua generazione e le rigetta facendo malissimo a sé stessa, ma anche a tutti gli altri – non meno provati dal contesto. L’obiettivo è mostrare la dimensione sociale e politica in cui queste insicurezze sono maturate, magari rifletterci. Magari capirle.
Federico: Deb, mi dici la verità su quello che hai incontrato negli ultimi mesi di promozione in giro per l’Italia? C’è qualcosa che ti ha fatto schifo nel modo di fare di alcuni addetti ai lavori?
D: conoscendo le dinamiche dell’ambiente da molti anni, sapevo ciò a cui andavo incontro. Niente però ti prepara a quello che succede: nella maggior parte dei casi è un vero e proprio lavoro che devi sobbarcarti tu, sia in termini economici che di tempo. È un lavoro faticosissimo che non ti viene pagato, ma anzi, sei tu che devi pagare. Inoltre, nonostante esistano luoghi come librerie e festival che davvero tengono a quello che fanno (e io ne ho sperimentati molti quest’anno), esistono anche luoghi e persone che ti invitano perché devi vendere. La mercificazione e lo svilimento del mio lavoro di autrice sono state le cose peggiori. L’abbiamo detto prima: l’editoria non campa di ideali. Pubblicare un libro ha un costo e la casa editrice, che è un’azienda a tutti gli effetti, deve rientrare di quell’investimento, come anche la libreria che ti ospita. Fin qui, nulla in contrario. Ma girare l’Italia, a mie spese, per incontrare persone che non sono interessate a me e a quello che ho scritto, non ha senso. In questo, le case editrici dovrebbero supportare maggiormente l’autore o l’autrice, se non in termini economici, quantomeno in termini di selezione. Non si butta un esordio nel mucchio perché sì. Ci sono posti in cui sono stata che non mi vedranno più neanche col binocolo. Ce ne sono altri in cui, già da subito, ho dato adesione per il prossimo anno. È una scelta che sta a chi scrive: capire chi valorizza l’essere umano – non l’autore o l’autrice – perché ha una vera passione e chi lo fa solo per puro interesse economico. Che poi, di che interesse economico parliamo? Se ti va bene, a una presentazione, vendi dieci copie. Di sicuro né io né loro possiamo farci un viaggio a Tokyo.
Federico: Vi va se boicottiamo assieme il prossimo Salone del Libro di Torino? Per favore basta! *Ok, mi è stato suggerito di non inserire questa domanda perché “non si sa mai poi in futuro, metti che vai al Salone a promuovere un altro libro” e poi perché, ora che ci penso, boicottare coi manifesti non fa per me. Però è vero che l’ultima edizione, che per Maleuforia è stato un trionfo, ma anche per gli stessi Spaghetti che si sono ritrovati tutti insieme, ma anche per lo stesso mio Tender, ci ha lasciato un po’ di sassolini, vuoi per la vastità da affrontare camminando e consumando le suole, vuoi perché sembra davvero che “ci vediamo al Salone” o “ne parliamo dopo il Salone”, quasi si debba fermare il mondo intero per una manifestazione di questo tipo. Io per esempio sono tornato a casa con un po’ di disillusione per questo prestigio che in fondo, a pensarci bene, si può anche evitare e non se ne accorge nessuno. A voi cosa ne è parso?
N: Ho una collezione di momenti incredibili dello scorso Salone, da Via del campo suonata in osteria (poi ci hanno cacciato), i drink al popcorn e l’Eurovision sul divano letto. Tutti ricordi che, a parte la straordinaria presentazione di Maleuforia alla libreria Libra, non hanno niente a che fare con il SalTo e l’editoria, ma col gruppo di Spaghetti Writers. Certo, quando passo in fiera – corro, perché è sempre più grande – incrocio qualche collega che ho piacere di salutare o persone con cui ho parlato solo via mail, riesco a prendere qualche libro di case editrici indipendenti, qualche usato che si rivela una mezza truffa, le solite cose. Ma è faticoso. Ogni anno capisco sempre di più Elena Ferrante e ho già pronto uno pseudonimo per quando esaurirò del tutto le batterie sociali. Soffro una richiesta di performatività, in questi eventi, che mi schiaccia. A che festa vai, fino a che ora resti, con chi sei, con chi parli, quanti inviti a cena da case editrici/agenti/scrittori encomiabili ricevi: non mi interessa questo gioco, non so giocare. Lasciatemi l’Eurovision con gli Spaghetti. Comunque, se proprio, la prossima volta vi facciamo spazio. Giulione racconta storie della buonanotte davvero da brivido.
D: nel mio caso, sono stata al Salone 2024 perché Maleuforia è stato presentato lì con una settimana d’anticipo alla sua data di pubblicazione. Quindi, per i miei stessi interessi, esserci era d’obbligo. In qualsiasi caso, fatta eccezione per un’intervista all’interno del Salone stesso, la mia presentazione io l’ho fatta fuori Salone, in una libreria indipendente, la Libreria Libra (tra l’altro, una delle presentazioni più belle del mio tour, insieme ai ragazzi di Spaghetti Writers quasi al completo, seguita da una cena assurda che rievocava poco fa Nicole). Come ho già detto in varie occasioni, manifestazioni come queste mi interessano poco. Io sono un pesce piccolo, che io ci sia o meno non fa alcuna differenza. Vero è che Maleuforia ha fatto il sold out in un giorno, ma non è stato dovuto alla mia presenza, l’avrebbe fatto a prescindere perché prima è stato fatto un gran lavoro di promozione, sia da parte mia che da parte del mio editor, dei ragazzi della casa editrice e della casa editrice stessa. Quando il mio editor mi ha chiamata per dirmi che allo stand avevano venduto tutte le copie io ero a ubriacarmi nel centro di Torino a vermut. Questo per dire che il risultato, anche nel caso io non ci fossi stata, sarebbe stato lo stesso. Finito il mio tour ho rifiutato di partecipare ad altre fiere e festival: non sarò a Più Libri Più Liberi, non sarò a Testo e probabilmente non sarò neanche al Salone 2025. Queste manifestazioni mi stancano e io voglio solo scrivere. E fare foto nuda. E mangiare. Parlare di libri nei miei spazi, a modo mio e con persone selezionate. Sarò snob? È possibile, ma come dicevo prima, si tratta di sopravvivenza e di benessere mentale di cui ho bisogno per continuare a scrivere in tutta serenità.
Federico: Un’ultima domanda. Semplice semplice. Siete contente di far parte del progetto “Sei in un paese meraviglioso”: il secondo cartaceo di Topsy Kretts?
N: Quando hai rivelato il tema del progetto mi è venuto da ridere. Ero contentissima e pensavo “che cazzo scrivo di meraviglioso su questo paese”? Mi sono accorta di non saper rispondere, di avere solo argomenti contraddittori e molto rancore verso questo paese. Serviva cambiare prospettiva e indagare, così ho deciso di sottoporre la questione durante gli aperitivi, collezionando una serie di spunti tematici: il turismo, il cibo, la famiglia, l’evasione fiscale, il calcio, i paesaggi, il filler alle labbra, temptation island, per concludere con i partigiani e il traffico. È stato incredibile conoscere la ragione di ciascuno di questi suggerimenti, avrei voluto scrivere un racconto per ciascuno, ma dovevo scegliere. E non potevo che scegliere mangiando una pizza.
D: L’hai detto prima, sono una persona generosa (pat pat) e ancora prima che mi rivelassi il tema ti avevo già detto sì. Quando poi Topsy ha rivelato cosa avremmo dovuto affrontare, ho scritto subito a Nicole e le ho chiesto “E mo? Che scriviamo?”. Ma le sfide mi divertono e quindi mi sono scervellata per settimane. Proprio in quei giorni mi sono imbattuta nella lettura di un testo di Georges Perec, un romanzo interamente scritto, in lingua originale, senza la vocale “e”. Si tratta di un lipogramma, come si dice in gergo, il cui titolo è La disparition. Mi sono illuminata: com’è stato possibile scrivere 300 pagine senza la “e”? Così ho pensato di cimentarmi e ho scritto un racconto senza “i”, cercando di abbinare alla sfida quello che so fare meglio, ovvero parlare di erotismo criticando la religione. Nel rispetto del tema del secondo cartaceo di Topsy, mi sembrava coerente criticare un sistema che svilisce il sesso in nome di uno stato tutto “nostrano”, il Vaticano, che sul sesso e sul modo in cui le persone lo fanno dovrebbe farsi i cazzi suoi. Ovviamente sono contenta di far parte del secondo cartaceo: d’altra parte Topsy e Spaghetti sono le due riviste migliori della lit-web.