Una verginità

Il titolare della cattedra di catechesi sarebbe stato il parroco, Don Corrado. Trovandosi però spesso impicciato (e con preavviso relativo), si limitava a sporadiche visite presidenziali lasciando la maggioranza delle ore di formazione settimanale alla supplente, Suor Gabriella. 

Sebbene destinata a non diventare mai di ruolo, Gabriella si occupava comunque con fervore della nostra istruzione, vestita di un abito bianco e di un abbandono alla bontà che non conquistò mai la mia fiducia perché performato bulimicamente: Gabriella si lasciava andare con agio a grandi e scomposte abbuffate di gentilezze e premure, alle quali seguivano (alle spalle dei bambini) silenzi cattivi, che le stringevano le labbra, la mandibola, i denti.

A Gabriella il velo stava benissimo, le guance acquisivano rossore palesemente, senza il rifugio dei capelli, accendendo, insieme alla carne, gli occhi, il taglio languido della commissura palpebrale che pinzava, nell’ultima onda di ciglia di volpe, i carezzevoli castani di una densa iride bruna.

A catechismo andavo per obbligo, ma senza livore, non avendo per dio nessun sentimento, né positivo, né negativo, né più, né meno di quello che avrei provato per uno zio lontano, tramandato come benevolo, saltuariamente nominato alle feste comandate.

La bibliografia del corso consisteva di un solo testo, Io sono con voi, opera dedicata all’iniziazione cristiana dei bambini dai sei agli otto anni, che andava per la maggiore e aveva una distribuzione trasversale tra le parrocchie del paese.

Gabriella teneva particolarmente che le unità didattiche del libro fossero seguite secondo la sequenza disposta dalla Conferenza episcopale italiana, seppure, all’interno del volume, non fossero state ordinate propedeuticamente. Non c’era insomma un crescendo tematico di difficoltà tra la terza unità “Viene Gesù” e, per esempio, l’ottava “Andiamo alla cena del Signore”. La separazione, più che altro determinata dalla direzione del verbo, veniva comunque risolta a fine libro, il cui capitolo di chiusura titolava “Andiamo incontro a Gesù che viene”. 

Gabriella, nonostante ricoprisse da anni la medesima mansione, sembrava scoprire insieme a noi una pagina alla volta, rallentando nella lettura, enfatizzando di pause proprie la narrazione e poggiando l’audio su un diaframma sicuro, nello sfarfallio falenico delle sue mani eccitate dalla luce del cristo.

Le ragioni per cui non mi fidavo di Gabriella erano le stesse per cui ne ero affascinata: coltivava un numero stimolante di maschere, anche molto diverse tra loro, che sapeva scegliere e utilizzare a seconda del contesto, senza mai contraddirsi. Gabriella entusiasta e rumorosa nella nostra classe del sabato, Gabriella compita e sussiegosa sul coro della messa, Gabriella competente ed educata con i genitori, Gabriella cattiva e serrata nei silenzi segreti, Gabriella mansueta e leziosa con “gli ultimi” alla cena di Capodanno, Gabriella spietata e altissima con ogni richiedente carità fuori dai contesti stabiliti, Gabriella scarmigliata e ridente alle partite di pallavolo del campeggio estivo. 

A non rendere queste versioni sfaccettature di un’unica personalità, ma maschere integralmente sostitutive della stessa, era la pervasività. Ogni maschera occupava di Gabriella tutto: i movimenti del corpo, la mimica facciale, il tono di voce, i pensieri, le convinzioni.

Le contavo di nascosto, le sue maschere, ma nessuna desideravo rivedere di più di quella cattiva, forse perché tenuta nascosta, perché solo intravista, perché nulla come la crudeltà è prerogativa dei bambini.

Per desiderio, arrivata ai miei otto anni, cominciai ad adoperarmi per stimolarla. Iniziai a provocarla. Entrare in classe in ritardo, dimenticare i materiali, fare i capricci e saltare qualche celebrazione, chiacchierare fino al rimprovero, erano ingenuità che non la toccavano. Potevo fare di meglio, lo sapevo, ma non avevo intuizioni di realizzazione. Fu l’istinto, non la strategia, a premiarmi, ad appiccare il fuoco, sabato 19 febbraio del 2000. 

Quel giorno, quando Gabriella entra in aula e ci saluta, la classe si alza e obbediente ripete la sequenza di apertura: volge i palmi al soffitto, chiude gli occhi e comincia a recitare, padre… Fiammella, poi fiamma, lascio le braccia lungo il corpo, la bocca chiusa, insieme rigida e vibrante per l’effervescenza e la paura della mia rivoluzione. Guardo Gabriella, con tutta la fissità che mi è possibile e cerco con il mio silenzio il suo. Mi sembra di gridare. La suora mi sente, sente il mio sguardo, riapre il suo, cerca la fonte del silenzio nella stanza, mi vede, mi trova. 

Mima con le labbra un comando. Non mi scompongo, penso ai piedi, alle ginocchia, a non tremare per paura o per euforia, penso a quello che sto facendo. Gabriella ripete il comando, sgualcendo le sillabe in un’esagerazione offensiva della pronuncia muta.

Resto, resisto, alzo percettibilmente il mento. Per la terza volta, ecolalia della sua rabbia che cresce, reitera il comando. Per la terza volta, disobbedisco. E la maschera cattiva viene, le prende subito tutto ingerendole le pupille intere come pastiglie amare.

Percorre l’aula pregante, mi viene addosso, forza le mie braccia a piegarsi, i miei palmi ad aprirsi. 

La vittoria mi esalta e perdo fermezza per l’eccitazione, così, mentre mi riassesta come una bambola, deflagro in una risata densa, di stomaco e viscere. 

E finalmente in un sussurro, sfuggito dallo stesso posto della mia risata, parimenti luminoso negli occhi, finalmente!, Gabriella ciglia fitte, Gabriella l’argilla delle iridi a un passo dal petricore, viso contro viso, in un fiato contro il mio naso, Gabriella che sfugge a sé stessa, Gabriella finalmente piegata, bisbiglia: «Puttana». 

La prima volta se l’assicurò una donna.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae una suora vestita di bianco con la faccia furba e dietro di lei un fascio di luce”