
TRE DI SPADE
La ragazza ha visitato altre due case prima di questa, due in città, là dov’era. Non andavano bene, per qualche motivo. Sentiva che c’era qualcosa di storto, già dalla porta, senza bisogno di entrare, e si era dilungata a controllare che ogni finestra avesse la zanzariera. Una non aveva la lavatrice, nell’altra l’ingresso del bagno era troppo stretto, fatto sta che ha pensato di venire qui. Le è andata bene: un piano rialzato col pavimento in cotto, un bell’armadio su misura in corridoio, un letto alto e una libreria piena di vecchie edizioni di Thomas Mann. Il clima è fresco, almeno per lei che è abituata alle temperature della città. Nella piazzetta c’è giusto lo spazio per un piccolo discount, un piccolo bar, una piccola banca e la farmacia, è talmente piccola che se si mette al centro sente le voci di tutti, se si mette al centro da destra e da sinistra sente le voci dei vecchi dire che è caldo, che non è normale raggiungere certe temperature qua, ma lei è ignorante su certe cose, su quanti gradi dovrebbero esserci a una certa altitudine. Sa che lì di fianco c’è la foresta, e ha sempre pensato alla foresta come a una presenza rinfrescante. Ha pensato di venire qui anche per farsi qualche escursione, che le fa bene. Al discount della piazzetta compra il latte fresco e se ne torna a casa, lo beve a canna in piedi davanti all’armadietto aperto della cucina, contempla il magnesio per il rilassamento muscolare e l’acido lipoico per il normale funzionamento del sistema nervoso, in opercoli riempiti da una strana polvere gialla, granulosa. Melatonina e valeriana per conciliare il sonno, S-Adenosil-L-Metionina contro la depressione, l’acqua di melissa dei frati carmelitani con cui bagnare il fazzoletto e da inspirare in caso di ansia, i Fiori di Bach in un flaconcino spagnolo, Complejo Relajación Antiestrés, 2 pulverizaciones bajo la lengua o en un vaso de agua. Appoggia il latte e prima di coricarsi sul letto, dà due spruzzate sotto la lingua. Sanno di alcol.
La gatta era nata da una cucciolata di selvatici abbandonati a se stessi dopo lo svezzamento, dal momento in cui la mamma era tornata dalla caccia con una biscia in bocca, dal momento in cui aveva assaggiato la carne, la sua vita non era stata più quella di prima. Voleva altre bisce, e orbettini e topi e colombacci, si avventurava nella foresta mattina e sera, guidata dall’olfatto, avida del prossimo pasto. Per proteggersi dal sole che batteva ovunque a una certa ora del giorno, si era trovata un bel buco alla fine del sentiero, una bocca nera tappezzata di muschio che metteva fifa solo a guardarla, l’aveva annusata fuori e dentro, e ci aveva pisciato per farla sua. Ma era così grande per lei sola, non si poteva dire che ci dormisse tranquilla, impennava le orecchie a ogni fruscio. Se fosse entrato un predatore, non avrebbe avuto via di fuga.
Sonnecchiava nella radura, all’ombra dei faggi. Un profumo delizioso l’aveva guidata un pomeriggio fino a una casetta sul limitare del bosco, una casetta silenziosa, ferma nel tempo e nella vegetazione. In mezzo all’erba alta che la circondava spiccavano certi fiorellini bianchi e non aveva potuto fare a meno di avvicinarsi e di strusciarsi contro i gambi lunghi, di strusciarci i fianchi e le guanciotte e inebriarsi, quando: Ti piace la valeriana? Alla finestra stava affacciata una vecchia. Si era immobilizzata, la fissava con gli occhi grandi, la coda bassa, non respirava neanche, era scappata via, e quella notte l’aveva passata nel buco. Non aveva potuto resistere però alla tentazione di tornare a rotolarsi contro i lunghi gambi della valeriana, e la vecchia furba, quatta quatta, era apparsa sulla soglia, aveva fatto scattare la linguetta di una scatoletta di tonno, si muoveva lenta, passi lenti, gesti lenti, aveva appoggiato la scatoletta per terra ed era rientrata. Nella latta, una squisitezza che non aveva mai assaggiato, roba da leccarsi i baffi, forse valeva la pena tenersela buona, non soffiare. Aveva iniziato a gravitare lì intorno, a fare zig zag tra le arnie sul retro, e un’altra volta il tonno lo aveva trovato presentato su un piattino di plastica, nessuna umana in vista. Un vero lusso, tanto che il giorno in cui la vecchia aveva allungato una mano per accarezzarla, si era incurvata tutta a terra e si era detta, resisti resisti, pensa al pesce. In casa della vecchia non si stava poi così male. Era una garanzia, la trovava sempre lì quando tornava dai suoi giri, seduta a tavola, le finestre spalancate, guardava alla televisione gente in tonaca bianca pregare con le mani al cielo, diceva amen, e lasciava cadere sul pavimento di pietra un boccone di manzo, un pezzetto di trota salmonata. Era una garanzia il suo muoversi pacata, la sua chiacchiera continua, gatta dove sei, eccoti qua, sei bella magrella, sarà sto caldo eh, cosa mangiamo oggi?, cominciava a farci il callo, alla sua presenza, e dopo la pappa addirittura si tratteneva a farsi il bidet e pulirsi la pelliccia. Ma un mattino era arrivata e la sedia era vuota. La gente in tonaca bianca pregava da sola in cucina, si era spinta in un’altra stanza e aveva trovato la vecchia sul divano, aveva gli occhi chiusi, sembrava che dormisse. Si era avvicinata per annusarla perché il suo odore non era quello di sempre, era saltata sul divano e le aveva annusato un braccio, sullo schienale le aveva annusato la testa, non le era mai stata così vicina, ma la vecchia non si emozionava, non reagiva, c’era qualcosa che non andava. Si era acciambellata al suo fianco per sorvegliarla, per aspettare che ritornasse.
L’aveva svegliata la porta che si apriva, una voce che gridava: Mamma?, passi veloci, aveva tirato su il muso di scatto e un giovane era comparso sulla porta, aveva cambiato faccia. Aveva annusato l’aria pure lui, aveva tirato fuori il telefono dalla tasca ma gli era scivolato, aveva sbattuto per terra, lei si era drizzata, pronta a scattare, quello si era portato il telefono all’orecchio, si agitava come un matto, le aveva fatto sciò, un gestaccio con il braccio libero, via dal corpo di mamma, via!, aveva fatto per darle una pedata. Aveva sentito dietro di sé, mentre si allontanava, le finestre richiudersi una a una, la voce pronunciare le parole malore, caldo, inferno, è un inferno. Aveva vagato per la foresta, per qualche motivo non la sopportava, sentiva che c’era qualcosa di storto, e aveva una fame, oh, era stordita dalla fame che aveva, e stordita e accecata si era spinta là dove non aveva mai osato.
Nel borgo spia la vita degli umani dalle finestre, impara delle cose, tipo che prendi i calci se agguanti una lisca fuori dal ristorante sbagliato, e che nella vita siamo soli, sempre soli e fine della storia. Ci siamo solo noi con noi stessi, finché esistiamo e sempre. Dobbiamo nutrirci da soli, leccarci le ferite nei vicoli da soli.
La ragazza non è andata a passeggiare nella foresta. Ha letto le vecchie edizioni de I Buddenbrook, La montagna incantata, La morte a Venezia, il Tonio Kröger e il Tristano, cammina scalza sul pavimento in cotto. Ingurgita acido lipoico e S-Adenosil-L-Metionina la mattina, magnesio melatonina valeriana la sera, qualche pomeriggio ha bagnato il fazzoletto di acqua di melissa, se l’è premuto sul naso, ha inspirato per placare il respiro affannato. Per lo più rimane coricata. Tira le tende, spalanca le finestre e si corica sul letto o sul divano a seconda della posizione del sole, perché anche la vitamina D ha un’azione positiva sull’umore. È vero quello che c’era scritto nell’annuncio – molto luminosa! Tripla esposizione: est, sud e ovest – il sole gira intorno alla casa e illumina le stanze una alla volta, fino al crepuscolo entra così tanta luce che anche se sei dentro ti puoi illudere di essere fuori. Durante la prima visita si era fermata a guardare degli album fotografici su uno scaffale, i loro dorsi marroni con intarsi dorati brillanti sotto la luce di ovest, le piccole etichette con su scritto Uzbekistan, Egitto, Oman. Aveva chiesto al proprietario se fossero suoi, così aveva capito che la casa era l’eredità di qualcuno che il proprietario preferiva non nominare, ma comunque qualcuno che gli era morto, si capiva dalla faccia che aveva fatto. Anche per questo aveva deciso di prenderla.
A mezzogiorno il sole picchia a sud, mette un filetto di pollo a scongelare sul davanzale della cucina. Va a coricarsi sul divano nell’attesa, e suo malgrado ripensa a quel giorno che l’avevano chiamata per dirle che l’avevano trovato, per dirle cosa era successo. Era ancora in città. Quel giorno aveva messo giù, aveva appoggiato il telefono sul tavolo e da un cassetto in bagno aveva preso l’occorrente per farsi la manicure. Si era seduta, aveva tolto lo smalto vecchio, aveva limato una a una le unghie, affusolato i lati e appiattito la cima per creare una forma squadrata, si era assicurata che fossero tutte della stessa lunghezza, aveva steso una nuova passata di rinforzante trasparente, aveva aspettato che si asciugasse. Aveva fatto la doccia, aveva lavato i capelli. Pensava di dover essere presentabile, per fare il riconoscimento. Ma uscita dalla doccia si era infilata l’accappatoio, si era coricata sul divano ed era rimasta lì, gocciolante, avevano dovuto telefonarle un’altra volta.
Quando si rialza, il pollo è sparito. Si affaccia per controllare che non sia caduto, ma il pollo non si vede da nessuna parte. Era l’ultimo filetto sepolto nel freezer da settimane, le tocca andare al piccolo discount se vuole pranzare, ma sì, deve, apre l’armadietto, si dà due spruzzate di Fiori di Bach sotto la lingua prima di uscire. È al ritorno che lo vede: il sacchetto gelo ancora annodato, squarciato, vuoto, sull’angolo del marciapiede. Lo raccoglie, lo ispeziona. A casa, in cucina, riempie una ciotola di plastica con il latte fresco e la lascia sul davanzale. Ogni giorno controlla se è diminuito.
La gatta ha girato tutto il borgo, soprattutto la notte quando non c’è un’anima in giro. Ha guardato le vetrine spente di certi negozi strani, Tutto per l’operaio, uno di sole cravatte, uno di vasi e tappeti, ha incrociato suoi simili che passeggiavano sui marciapiedi, o dormicchiavano sugli zerbini, col collarino al collo, toelettati, le avevano fatto salire il disprezzo.
Qualcuno un po’ più spettinato le ha raccontato com’è non appartenere a nessuno. Ma lei oltre a non appartenere a nessuno, non appartiene a quel posto, che ha esaurito quello che aveva da darle, cibo compreso, per il momento. Ha sete e le fontanelle non stanno sempre accese, per risparmiare acqua, che già c’è scarsità, così, come può capitare, ritorna la nostalgia delle origini, la gatta si incammina verso la foresta, la riscopre con occhi vergini, le sembra una manna il fresco dei faggi e il cantare della cinciallegra le fa venire l’acquolina, lo scroscio dell’acqua si fa sempre più intenso, sempre più vicino, una salamandra pezzata sgattaiola via terrorizzata.
Sull’altra sponda del torrente c’è un orso che si lava. Come se niente fosse, con le zampone si getta l’acqua sotto le ascelle, non ha mai visto una bestia così grossa. Si acquatta raso terra, si pietrifica, spera di diventare uno di quei sassi levigati, di mimetizzarsi nei marroni e nei verdi…
Che hai da guardare? Al giorno d’oggi bisogna sapersi adattare.
Ha i sensi spalancati, i muscoli tesi pronti alla corsa, i baffi ricettivi di ogni variazione di energia, gli fissa gli occhi piccoli e vicini, gli artigli micidiali, capaci di squarciarla con leggerezza.
Qui una volta c’erano le trote, adesso non ci sono più. L’acqua non è abbastanza fresca, dice l’orso con una certa sconsolatezza e si lascia cadere a quattro zampe, sollevando spruzzi, avanza, lei retrocede.
Non preoccuparti, non mordo. Sono praticamente vegetariano, continua, e arrivato alla riva, si mette a pascolare muso nell’erba.
Nei giorni successivi non fa altro che pascolare muso nell’erba, ruminare, ogni tanto ci finiscono di mezzo le formiche, piccole ma nutrienti. Non fa altro che mangiare continuamente, mirtilli, lamponi, mele, pupe, larve e uova che scova sotto i sassi ribaltati, mentre lei salta dietro ai coleotteri in volo. Ce ne mette ad affezionarsi all’orso perché pensa alla vecchia e alla valeriana e al pesce, ma il giorno che prende coraggio e lo annusa tutto, è tentata di pisciargli sopra per farlo suo. Nel suo bel buco ricoperto di muschio può finalmente dormire tranquilla e anche lui ne è contento, una tana che farà proprio al caso suo, per svernare nel letargo. Si piazza lì dentro e si lamenta della magra e lancia certi versi di frustrazione battendosi la pancia, e lei decide di fargli un regalo. Senza la vecchia l’erba alta si è disidratata, le api nelle arnie invece se ne fregano alla grande, continuano il loro ciclo di vita, rimodellano il miele nel caldo mortale, lui non ci capisce più niente, quando le vede, dà una zampata al coperchio, un’altra, lecca il melario divelto, le api libere ronzano, in massa gli aggrediscono il muso, lui lo scuote, se ne sbatte. Paura di niente.
Passa agosto, passa settembre e a lui piace sempre di più la sua coda grossa con gli anelli neri e a lei piace che se si mette in piedi copre l’ingresso della tana, che con quella stazza può cacciare chiunque voglia farle del male, le piace anche che con lei è morbido, romantico da cliché, le infila le zampe dentro, le lecca e le dice che è buona e dolce come il miele. Le piace che è caldo, quando gli si acciambella contro la pancia la notte, come gli orsacchiotti che dalle finestre sulla strada vedeva nelle camerette dei bambini, e che non doveva, come certi suoi simili, cercare riparo in un vano caldaia, sotto una macchina appena spenta. Celebrano le nozze nella tana. La decorano di fiori e promettono di non lasciarsi mai, neanche in caso di vermi e di pulci, lui le regala un bracciale per suggellare il voto: la cassa toracica di un passerotto.
Da quel giorno tutto scorre come dovrebbe, la gatta passa ore a pulirsi minuziosamente, a sonnecchiare stravaccata e serena il pomeriggio, mentre lui percorre i suoi tragitti e mangia e mangia, le porta prede, dividono i pasti, anche se ogni tanto le lancia un’occhiata scorbutica, la rimprovera di avergli rovinato la dieta. Lei lo ignora, continua a lavare la zampetta. Ma più si indurisce l’autunno, più l’orso si spegne e lei sbuffa e va a farsi i suoi giri, a papparsi i suoi orbettini. Prima di partire, sfila il bracciale dalla zampa sinistra. Di questo lui la rimprovera a ogni ritorno, dell’assenza e della noncuranza per il suo dono speciale, per il sigillo d’amore, poi si appisola. Arriva la pioggia, l’erba sferzata dal vento, le foglie imbruniscono, e l’orso dorme sempre di più, non vuole essere disturbato. La ghiandaia grida, la gatta dimagrisce.
Tu mi vuoi qui, mi vuoi addomesticata e mi dai per scontata!, gli soffia. E lui ringhia, colpisce i muri della tana, crolla la terra, con una di quelle zampate potrebbe ammazzare un asino, un vitello, una capra, figurarsi lei. Tutta inarcata si allontana, gli dice: Mai più, gli dice: Va’ via, via dalla mia tana, questa tana è mia. È solo mia! Lui cade sulle zampe. Se tu mi mandi via io vagherò per la foresta, niente avrà più senso, mi farò ammazzare da un cacciatore, mi farò riempire di pallottole, lascerò che facciano di me un tappeto. Guardami! Guardami adesso! Mi vedrai appeso in una vetrina, scuoiato, eviscerato, la bocca aperta in un ultimo lamento e al posto degli occhi due palle di vetro. Guardami! Guardami adesso perché è l’ultima volta.
È lei ad andarsene per prima, a scrollarsi via il bracciale che cade, spezzando un osso della cassa toracica. Trascorre due giorni all’aperto, torna nei posti dove è stata bene, guarda malinconica l’altra sponda del torrente, le arnie scoperchiate sul retro della casetta. Quando rientra la grotta è vuota. Si paralizza. Annusa. Lo aspetta, lui non arriva. Se ne frega, me ne frego! Potrò sopravvivere senza di lui, sono sempre sopravvissuta. Si rintana in un angolo e si sforza di farsi una dormita ma con l’orecchio teso aspetta, il tonfo sordo dei passi, gli artigli che raspano il terreno, l’odore selvatico che si avvicina, rinfila il bracciale, mogia mogia. Gli sarà mica successo qualcosa, dovrebbe andare a cercarlo? Arriva l’alba, arriva il tramonto, non risuona nessuno sparo. Le sue orme si disperdono, lo cerca in ogni anfratto, alla cieca, e ancora una volta, stordita e accecata, si spinge in città, ignora la fame, ignora la sete. Mi lascerò morire. Disidratata, scruta con apprensione la vetrina del negozio di tappeti, sta lì davanti giorno e notte, per essere sicura che non ne espongano uno nuovo.
Finché l’istinto ha il sopravvento, torna a quel davanzale da cui ha rubato il pollo, lo scruta dal basso e con cautela, attenta alla costoletta rotta del bracciale di nozze, salta su. Si blocca. Seduta sul pavimento della cucina, una ragazza singhiozza piegata su un’urna di ceneri. Al dito ha una fede dorata che al sole luccica, e il tatuaggio sulla schiena di un cuore con tre spade piantate dentro.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un gatto e un orso che si guardano a bordo di un lago in una foresta”