Surgelati

Ci sfioriamo i gomiti al supermercato, di fronte al banco surgelati, e subito la riconosco. Lei ha lo sguardo sui minestroni, si scusa e si allontana. Non credo ai miei occhi, la chiamo per nome. Le serve qualche secondo per riconoscermi.
«Dio mio!» esclama.
«Non ci credo!»
«Quanto tempo?!»
«Dalla festa di laurea…»
«Sì! La laurea di… come si chiamava?!»
«La festa di Giacomo!»
«Esatto! Giacomo»
«Assurdo! cosa fai qua?»
«Mah niente, la spesa!»
Ride. Ride come dodici anni fa. Agita una confezione di minestrone surgelato. Porta i capelli lunghi ora. Ha il viso spigoloso, ma il sorriso non è cambiato. Le dico che la vedo bene.
«Grazie! Dici? Non è vero, il lavoro mi uccide!»
«Cosa fai adesso?»
«Insegno»
«Sul serio?!»
«Sì, ma non sono di ruolo, è dura.»
«Senti ma perché…»
«Cosa?»
«Perché non ci prendiamo un caffè qua fuori?»
Prima di andare prendo due birre. Lo scaffale è specchiato e mi guardo la pancia. Sono grasso, penso. Ho rughe vistose attorno agli occhi, i denti ingialliti dal fumo. Mi ero ripromesso di smettere con le sigarette arrivato ai trenta. Adesso aspetto i quaranta.
Rimetto le birre al loro posto. Mi chiedo se sono presentabile, non m’aspettavo d’incontrare qualcuno. Mi annuso i vestiti camminando verso il reparto cosmetici. Prendo un deodorante e me lo spruzzo mentre nessuno guarda, poi lo rimetto al suo posto. Cammino circospetto nelle corsie semideserte, cerco un pettine nel reparto accanto. Lo trovo e provo a sistemarmi alla cieca. Ho paura d’aver esagerato e mi scompiglio un po’ i capelli. Forse troppo, allora mi pettino di nuovo. Dopo un po’ mi arrendo.
Vado alle casse, lei sta già pagando. Fa ondeggiare la lunga chioma bruna. Sorride alla cassiera. Ha i denti bianchissimi, furono la prima cosa che notai di lei. Strizza gli occhi ogni tanto; non ricordavo fosse miope.
Prende le buste e si gira verso l’uscita.

«Non ti lascerò mai» dice.
Mi specchio con indosso solo i calzini. Sono troppo magro, penso. Lei è sul letto, si rigira tra le coperte. Ha le guance rosse e gli occhi stanchi.
«Hai capito?»
«Cosa?»
«Ho detto che non ti lascerò mai».
Mi giro e le sorrido.
Torno sotto le lenzuola e l’abbraccio. È calda e morbida. Mi mette la testa sul petto. Sussurra che sono vanitoso. È notte e parliamo piano.
«Sto cominciando a invecchiare»
«Sei bello»
«Vado per i trenta ormai»
«Be’, gli uomini diventano affascinanti»
«E le donne?»
«Le donne diventano vecchie e basta».
Ci rigiriamo sotto le lenzuola. La finestra è socchiusa, assieme alla luce della strada entra aria gelida. La stringo forte per riscaldarci. Lei chiude gli occhi.
«Hai dimenticato la finestra aperta» dice.
«Se facessimo un figlio saresti obbligata a stare con me»
Sembra assopita, ma sgrana gli occhi verdi e ride. Rido assieme a lei.
«È l’ultima cosa che vorrei, un figlio»
Alza le lenzuola e si guarda il corpo esile, il seno grazioso. Si mette una mano in mezzo alle cosce.
«Ci pensi che dovrebbe uscire da qui?»
«Sarebbe peggio se dovesse entrare»
«Si potrà scopare?! Non sopporterei nove mesi senza.»
«Certo»
«Non gli faresti male?»
Scoppio a ridere.
«No, ho visto dei porno con attrici incinte»
«Dai!»
Ridiamo ancora e ci baciamo.
«Per ora chiudi la finestra…»
Parla lentamente, si sta addormentando. Le accarezzo i capelli. Le chiedo se pensa mai al futuro.
«Certo…»
«E ci vedi assieme?»
«Sì… Non riesco a immaginarmi senza di te».
Dopo poco il suo respiro si fa pesante. L’abbraccio e chiudo gli occhi. In quel momento, non avrei voluto essere da nessun’altra parte.

Racconta che ha preso una specializzazione a Torino, poi ha lavorato come cameriera. Per fortuna ha conosciuto Giorgio. Si sono sposati in chiesa, dice, chi l’avrebbe mai detto? Da giovane era una mangiapreti. Mentre parla non mi guarda. Il caffè si è seccato sul bordo della tazzina, lo gratta via. Indossa una felpa scolorita, jeans strappati e scarpe da ginnastica. Ogni tanto sbadiglia.
«Stanca?»
«Sì scusa, il bambino mi tiene sveglia la notte»
«Hai un bambino?»
«Due»
Le faccio i complimenti. Poi le chiedo come sia essere genitore. Ci pensa un po’, fa un cenno con la testa. Stancante, dice. Si passa una mano sulla felpa. Non ricorda l’ultima volta che ha messo qualcosa d’elegante.
Di colpo realizzo che non parlavamo dal giorno della rottura.

Ci siamo lasciati improvvisamente, come c’eravamo presi. Non ricordo perché, eravamo infelici. In fondo, lo sono sempre stato. Da giovane perché ero giovane, adesso perché non lo sono più.

Mentre parla mi accorgo che la maglietta mi veste corta, per poco mi si vede la pancia. Mi siedo composto e faccio un gran sorriso per non tradire il disagio.
«Tu invece che fai?»
Sto traslocando perché la mia compagna mi ha lasciato. Però a lei dico che volevo cambiare aria, che forse vado all’estero.
«Beato te! Il lavoro te lo permette?»
«Sto cercano di pubblicare un romanzo mentre lavoro qua e là»
«Scrivi ancora? Oddio, adoravo leggerti».
Al momento di salutare non sappiamo se abbracciarci o stringerci la mano. Dopo un paio di tentativi mi dà una pacca sulla spalla. Una volta conoscevo ogni centimetro del suo corpo, ogni neo, odore e ruga. Ora fatichiamo a toccarci.
Quando si allontana rientro al supermercato senza farmi vedere. Torno allo scaffale delle birre. Questa volta prendo una confezione da sei. Prendo anche un pacco di patatine gigante.
Sulla strada di casa ripenso a lei. Quando stavamo assieme ci credevamo una coppia speciale. Adesso lei è una madre qualsiasi e io sono padre solo dei miei errori. Il mondo è andato avanti senza di noi.
Arrivato a casa mi butto sul divano. Il bilocale è buio, ci sono scatoloni ovunque. La mobilia è rimasta tutta in soggiorno dove l’ho scaricata. Fa eccezione il divano che ho spinto vicino all’angolo cottura. Da qui raggiungo il frigo senza alzarmi. È una grande consolazione.
Metto le birre al fresco e aspetto.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae la mano di un uomo e di una donna che si sfiorano prendendo un pacco di minestrone”