Storia di confine

Pato Spontini va per le strade di Inculandia con uno zuccotto di lana calato fino alle sopracciglia. È inverno ma questo zuccotto marrone, con un solo corno di renna superstite che pende di lato, lo indossa anche d’estate tirandolo su fino all’attaccatura dei lunghi capelli per scoprire almeno la fronte. Assomiglia a Er Monnezza – e in comune hanno pure la barba, nera come i capelli nonostante l’età; ed è una coincidenza strana, perché con la monnezza Pato ci campa.

Gira per il quartiere frugando nei cassonetti, “ché qualcosa di buono da rivendere al mercato rionale si trova sempre” dice lui. E lo fa di notte, quando la città dorme e i topi no, aiutato nella ricerca da una lucina per biciclette che lega intorno alla testa con uno spago. Altro inseparabile compagno è un lercio ma resistente trolley per la spesa, trovato anch’esso accanto a un cassonetto.

È tanto che fa ‘sto mestiere, perché non gli è mai piaciuto lavorare e quando gli è capitato è finita male per il padrone; una volta davvero molto male, ma allora era un ragazzo e non gli dovevi cagare il cazzo, mentre oggi che ha superato gli anta da un pezzo s’è fatto più pacato, almeno finché non beve.

Stanotte non c’è luna ma la città non ne ha bisogno: con tutti i suoi lampioni accesi e le luminarie di Natale pare un luna park, e illumina Pato che rovista tra i rifiuti con in faccia la stessa espressione del bambino impegnato a farsi piacere regali poco graditi. 

«Magro bottino per ora, amico mio» pensa ad alta voce, perché non è insolito che nei suoi giri solitari parli al trolley.

«Non vedo l’ora che sia Capodanno. Quello sì che è un bel periodo per noi, con tutta la roba bella e ancora buona che butta la gente… ma aspetta aspetta, forse ho parlato troppo presto» e dal cassonetto pesca un peluche ancora in ottimo stato. È uno scimmiotto. E tirandolo su ne trova un altro: un piccolo coniglio con gli incisivi modificati in canini appuntiti – per quanto si possano definire appuntiti due denti di stoffa.

«Un coniglio mannaro!» dice al trolley. «Quasi quasi me lo tengo».

Lo infila nella tasca del suo montone rattoppato e poi recupera anche lo scimmiotto che aveva posato a terra.

«Questo, grande com’è, lo rivendiamo a cinque euro» e ha giusto il tempo di dirlo che dal portone del palazzo di fronte esce una ragazza in ciabatte, avvolta da un grosso scialle che serra in petto con entrambe le mani. Si ferma a squadrare Pato. A dire il vero fissa lo scimmiotto di peluche che tiene per la zampa posteriore. Sembra che stia per dire qualcosa, come “Quello è mio”, e se così fosse Pato saprebbe risponderle a tono, perché non se ne parla nemmeno di perdere cinque euro, ma la bocca della tipa si apre e resta così per un po’, senza che ne fuoriesca parola o rivendicazione; si stringe ancor più nello scialle e torna dentro. Girandosi per chiudere il portone rimane dietro la vetrata, appannandola col fiato della bocca che invece non è riuscita a chiudere. Poi alza la mano in un saluto e Pato, anche se sa bene che quel gesto non è per lui, lo ricambia muovendo la zampa anteriore dello scimmiotto prima di riporlo nel trolley. 

«Ripensamenti tardivi» commenta mentre la ragazza si allontana verso un caldo appartamento.



«Poverina, mi sa che le è mancato il coraggio di riprenderselo; è che sembri un pazzo con quello zuccotto con un corno solo».

Pato si volta, riconoscendo la voce rauca che arriva dall’altra parte della strada.

«Goliarda!»

E non si riferisce alla predisposizione d’animo, bensì al nome della donna che sta aprendo il cassonetto dell’organico posto davanti al discount del quartiere.

«Che fine hai fatto, vecchia strega? Era da un po’ che non ci si incontrava. Credevo fossi morta!» 

«Tié!» fa lei indirizzando a Pato una scaramantica mano cornuta, mentre lui attraversa la strada per raggiungerla.

«Mi sono presa una pausa dal lavoro»

«Ah sì, e come mai? Hai vinto al gratta e vinci?»

«Sì, certo, un bel soggiorno in ospedale»

Gli occhi di lui si inclinano verso il dispiacere.

«Che ti è capitato? Il fegato?»

«No, quello sta bene. Ho incontrato un lupo, anzi un branco» e nel dirlo alza il mento a mostrargli la linea rosea di una cicatrice recente.

«Mi dispiace» fa Pato. «Li conoscevi?»

«Sono ragazzi di zona ma alla pula non ho fatto nomi. Non voglio altre rogne»

«Lo capisco, ma così non escludo che torneranno a spaccarti il muso. Dillo a me chi sono, che ci penso io a sistemarli» «Tu?» sghignazza lei. «E come?» chiede aprendo il ghigno a una stramba risata. Goliarda lo vede infilare la mano in tasca e teme che ne tiri fuori la pistola che le aveva mostrato settimane fa, trovata in un cassonetto della periferia sud, e che aveva detto di voler tenere per difesa personale. «Con questo coniglio mannaro» fa lui piazzandole il piccolo peluche sul naso per farle ammirare i temibili incisivi. La sdentata risata di Goliarda è così sincera che Pato può solo trarne piacere. «Te lo regalo, amica mia. Di questi tempi a una signora può tornare molto utile avere un coniglio mannaro pronto a difenderla.»

«Sei il solito cavaliere» dice prendendo il coniglio. E aggiunge: «Sai chi mi ricorda questo peluche?»

«Posso immaginarlo; l’ha ricordata anche a me» ammette con un sorriso prima di proporle: «Visto che sei qui, che ne dici se i cassonetti ce li facciamo insieme?»

«Posso dirti di no?»

«Ovviamente non puoi».

Ridono insieme adesso, riandando entrambi indietro di un paio di anni, a quando un identico scambio di battute aveva dato il là alla loro amicizia davanti a una fila di sacchi neri. Poi Pato le porge il braccio e l’accompagna con sé al prossimo cassonetto, dove non trovano niente di interessante. La magra pesca continua fino in fondo alla strada che sbocca sull’ampio corso antistante il Parco Bellagioia.

«Guarda un po’ chi c’è là» indica Pato all’amica, puntando il dito verso l’angolo di strada successivo.

«Parli del diavolo e spuntano le corna».



Due figure stanno fumando; quella più alta batte i piedi per il freddo, quella bassa e tracagnotta sta col culo poggiato sul muretto di una cancellata e si guarda intorno. Pato e Goliarda gli vanno incontro accompagnati dalle traballanti ruote dei loro trolley.

Attento com’è, Scooby Dux li sente subito arrivare e alzandosi dal muretto dà di gomito alla sua Dragcula.

«Ma buonasera amici, come state?»

«Al freddo» taglia corto Dux.

«Ostentare quella tua pelata all’aria non ti farà bene, e quelle enormi orecchie che hai non serviranno a proteggerla, ti ci vorrebbe uno zuccotto come il mio» dice Pato abbracciandolo.

«Goli, ti prego dimmi che c’hai un grappino lì dentro» fa Dragcula mordendosi il labbro inferiore con uno dei suoi lunghi e lucenti canini.

«Grappa no, ma stasera ho trovato qualche mignon di San Simone e Vecchia Romagna. L’alcool non scade, ma valli a capire quelli che lo buttano via».

Dall’alto del suo metro e ottanta più tacco dodici, Dragcula scende in picchiata sul trolley di Goliarda in attesa che ne esca il prezioso balsamo.

«Come girano le cose?» chiede Pato a Dux.

«Male, gli affari sotto Natale vanno da schifo; stanno tutti in famiglia a fare i bravi ragazzi per convincersi di meritare davvero quei regali del cazzo che riceveranno e pochissimi vanno a puttane. Fanculo al Natale» proclama lui toccandosi il mento volitivo. «E fanculo pure ai regali!»

«Che poi lo sanno bene che non c’è regalo migliore di questo» aggiunge Dragcula sollevando la mini a mostrare le chiappe. Goliarda se la ride di gusto passandole una mignon di Vecchia Romagna, e la sua risata è così contagiosa che Dragcula la segue a ruota. Le mostra poi il coniglio mannaro che Pato le ha regalato: «Mi ha subito ricordato te»

«In effetti abbiamo gli stessi canini» commenta guardandolo bene, «però io sono una coniglietta molto più slanciata» tiene a precisarle accarezzandosi un fianco.

«Dai Scooby, che poi passa, è solo un periodo» Pato sente di provarci, a rincuorare il suo vecchio amico.

«Passerà presto» fa eco Dragcula con la voce ancora più calda per il liquore che ha mandato giù. «E finalmente arriverà Capodanno»

«Lì sì che gira alla grande» pregusta Dux.

«A chi lo dici» ammette Pato, dimenando il suo trolley come uno strumento a fiato che suona Il Silenzio, perché in fondo il morbidoso scimmiotto quanto vuoi che pesi? E dopo un’attenta riflessione, che partendo dal Big Bang segue la rotta dell’asteroide che estinse i dinosauri, si tuffa nel diluvio universale, emerge per assistere alla nascita e alla morte degli imperi, si insudicia nella rivoluzione industriale, si smacchia nel sangue delle guerre mondiali e infine si polverizza nell’esplosione atomica, propone a tutti: «Ma se ci butta così male stanotte, perché non ce ne andiamo in stazione?»

«Questa è una bella idea» dice Dux, «così prendiamo il primo treno per andare tutti affanculo»

«Naaa simpaticone,» fa Pato, grattandosi la barba «partire è facile, che ci vuole. È arrivare la cosa più difficile e di solito si è troppo stanchi per apprezzarne la bellezza».

Su questa risposta il suo amico Scooby Dux solleva un sopracciglio così in alto che pare fargli da riportino alla pelata. Pato non fa in tempo a dirgli che li porterebbe in stazione a fare un gioco inventato da Goliarda, il loro gioco preferito, ché trova in Dragcula una sponda.

«Io sono a pezzi, non resisto più a stare al freddo co’ sti stivali tacco dodici per niente. Fanculo il lavoro, Scooby… per una volta» dichiara con tanto di occhioni dolci al suo uomo.

Dux allarga le braccia, perché quando Dragcula tira fuori quello sguardo non riesce a dirle no.

«E va be’, come vuoi tu, amorino alato, però non ci fare l’abitudine»

«Grazie ciccino» dice stampandogli un veloce bacio sulla bocca. «Si va?» aggiunge all’indirizzo di Pato.

«Prima le signore» risponde lui aprendo la via con un ampio gesto della mano. Poi porge ancora il braccio a Goliarda, e mentre lei lo cinge al suo con riconoscenza le nasce spontanea una richiesta.

«Posso essere la prima a desiderare chi voglio che scenda dal treno?»

«Certamente» fa Pato sorridendole. «Ma non me lo dire ora o mi rovinerai la sorpresa»

«Oh beh, adesso non saprei nemmeno cosa dirti. Mi piacerebbe che scendesse Dora, ma…» e si interrompe lì Goliarda, che non ha più parole per raccontare la lunga assenza della figlia dalla propria vita.

«Facciamo così» dice lui. «Il desiderio che sia tua figlia ad arrivare col primo treno lo esprimo io. A te lascio qualcosa di più improbabile come la pace nel mondo».

Goliarda si ferma, e batte la mano sul dorso di quella di Pato. Una, due, tre volte, poi torna a impugnare il suo trolley e a guardare la strada davanti.

I due pulotti nella volante che gravita lungo il perimetro del Parco Bellagioia osservano con curiosità i quattro soggetti che si dirigono in direzione della stazione ferroviaria. Quello seduto sul sedile del passeggero nota un braccio peloso uscire da uno dei loro trolley; sembra agitarsi in un saluto mentre dondola per il rollio sul marciapiede dissestato. Sono quasi le quattro, della notte o del mattino nessuno lo ha mai capito; questo è sempre stato un orario di confine.



«Oi bro, guardate un po’ chi si rivede!»

Tre ragazzi sbucati da una via laterale riconoscono Goliarda. Sono tutti vestiti con piumino nero aperto su tuta sportiva e scarpe da ginnastica. Ognuno di loro stringe in mano una bottiglietta di Sprite con un liquido rosa e dalle labbra di uno pende stanca una canna spenta.

«Oh-oh vecchia barbona, dove te ne vai di bello con i tuoi amichetti?»

Pato dice: «Ignorali» e le fa segno di proseguire.

«Oi, diciamo a te, stracciona, che fai te ne scappi senza neanche fare le presentazioni? Non si fa così, no no», sbraita il ragazzo con la canna spenta mentre accelera il passo tirandosi dietro gli altri.

È Goliarda a parlare per prima quando la raggiungono: «Che cazzo volete ancora?!»

«Boh, non lo so, fare due chiacchiere, magari darti un po’ di attenzioni come l’altra volta. Ricordi?»

«Se lo ricorda sì la vecchia» fa quello con la scritta Ti vedo tatuata sulla fronte.

«Andate a nanna ragazzini» dice Dux.

Il tipo si riaccende la canna e fissa Dux negli occhi, avvicinandosi quel tanto per sbuffargli il fumo in faccia.

«C’è qualche problema zio? Perché non ti rilassi» e detto ciò gli soffia ancora sul viso una nuvola di fumo denso.

«Il problema c’è l’ho di fronte» ribatte Dux.

Pato lascia il braccio di Goliarda e libera il suo, pronto a ogni evenienza.

«Quindi io sarei un problema?» replica il tipo con stupore teatrale.

Dux risponde piantandogli gli occhi nelle pupille; gli sembrano l’ultimo lembo di terreno stabile prima di un baratro.

«Oi zio, rispondi: sarei io il problema!»

«Pensala come vuoi basta che ti togli dal cazzo»

«Se no cosa fai?» lo sfida a muso duro il ragazzo.

«Ti tolgo di mezzo io» si fa più avanti Dux.

Il ragazzo non indietreggia, resta fermo dov’è, faccia a faccia con Dux, getta la canna a terra e con la mano che ha appena disimpegnato lo afferra alla gola.

Dux stringe i denti sgambettandolo e quello piomba a terra stile mela marcia, mentre gli altri due si agitano come scimmie che berciano porcoddio! minchiafai! cazzituoizio!

«Io ti apro la faccia e poi me la scopo!» grida quello tirandosi su e slamando dalla tasca del piumino un coltello a serramanico.

Dragcula porta una mano alla bocca e con l’altra prova a tirar via il suo uomo.

«Attento che con quello ti fai male e poi piangi» Dux scandisce le parole con calma e allarga le braccia, facendo segno a Dragcula e agli altri di indietreggiare.

«Succhiami il cazzo, frocio dimmerda, adesso ti faccio vedere chi si fa male!» minaccia il tipo flettendosi nella posa bassa di chi è pronto a saltarti addosso.

«Se muovi un muscolo ti buco».

Il braccio di Pato è teso e punta la pistola sul ragazzino.

Tutto è immobile. Finanche i respiri, i destini e le stelle.

«Non c’hai le palle di farlo»

«E tu ce l’hai per scoprirlo?»

«Schinniamo via fra’» gli fa l’amico col tatuaggio in fronte.

Il ragazzo pare non l’abbia nemmeno sentito, continua a sfidare Pato con uno sguardo al veleno mentre quello di Pato sembra annoiato, tanto le palpebre sono strette per tenerlo a fuoco.

«Prima o poi vi ribbecco» dice il ragazzino indietreggiando. «Tutti e quattro. Fate occhio» promette passandosi l’indice della mano sul sopracciglio.

Solo quando si sono allontanati e hanno girato l’angolo, Pato abbassa il braccio pur tenendo l’arma ancora in pugno. Il silenzio è tornato a dominare la strada. È Goliarda a spezzarlo: «Giri ancora con quella?» «Sì, perché dalla monnezza non escono solo cose buone da rivendere, ma anche cose da tenere oltre a cose da eliminare, come quei tre» fa Pato rimettendola in tasca.

Una finestra si apre cigolando sui cardini: spunta una testa che si guarda attorno e poi li squadra con attenzione.

«Andiamo via» suggerisce Dux, che prende per mano Dragcula e si avvia in direzione opposta a quella presa dai tre ragazzi. Pato e Goliarda li seguono trascinando i propri trolley; lui le porge il braccio, lei finge di non averlo visto.

«Lo sai che non mi piacciono le armi» gli dice dopo qualche metro.

Lui non risponde, e anche se conosce bene il motivo per cui lei le detesta non riesce a dirle mi dispiace, come invece vorrebbe poter fare.

«Dopo questa avventura ho necessità di farmi un goccio» dice Dux, «Vi porto in un bar aperto tutta la notte e sia chiaro che non accetto rifiuti, offro io»

«Non si va più in stazione?» chiede Goliarda con una punta di delusione.

«Forse dopo» risponde Dux. «La stazione può aspettare».

Goliarda conosce la sete e l’attesa. A volte le due cose si sfiorano perché l’una segue l’altra, altre volte, come in questa notte, sembrano destinate a non incontrarsi allo stesso tavolo; anche se ciò che lei attende non è contenibile in un bicchiere, non perde la speranza perché rovistando nella spazzatura ha imparato che le cose belle arrivano all’improvviso. E d’improvviso un blackout spegne la città e tutte le luminarie delle feste.

«Guardate il cielo» fa Dragcula indicandone una porzione sopra le loro teste, «stelle cadenti. Esprimiamo un desiderio».

Hanno tutti il naso all’insù tranne Pato, che accende la sua luce da bicicletta legata sulla fronte e torna indietro verso un cassonetto che avevano appena superato. Mette la mano in tasca mentre con l’altra lo apre. Dalla tasca fa uscire la pistola, che disarma; estrae il caricatore e lo svuota dei proiettili per gettarli nella spazzatura. Si gratta la barba e poi richiude il contenitore dei rifiuti.

Sono le quattro e mezza della notte, o del mattino; nessuno lo ha mai capito. Come Goliarda non ha mai capito perché i desideri che si esprimono guardando una stella cadente non si debbano dire: ci sono confini che vanno superati se si vuole che qualcosa cambi, pensa ammirando la Via Lattea.

«Il treno» sussurra Goliarda a una stella che cade. «Quel treno…»

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un clochard che vaga nella notte portando un trolley, attorno a lui i palazzi sono addobbati con luci di natale”