
Paternità
And if I show you my dark side
Will you still hold me tonight?
And if I open my heart to you
And show you my weak side
What would you do?
The final cut, Pink Floyd
Sei nata il ventuno gennaio di venticinque anni fa, e la bambina che eri risiede ancora in te, in parti ormai inaccessibili. Sei nata schiacciata da due occhi enormi, lucidi come specchi, già pieni di lacrime. Ne hai versate un po’ alla volta, regalandole equamente agli anni che passavano.
Adesso ti giri verso di me; sei magra, sei pallida. Mi guardi amorevolmente, anche se con un po’ di rabbia, come se ti desse fastidio vedermi steso su questo letto. Mi aspetto che tu, da un momento all’altro, mi spinga e mi ordini di alzarmi. Ma non lo fai neanche stavolta, ricominci a leggere un libro di cui non ho mai sentito parlare, di una scrittrice francese che parla di come far l’amore con un morto. È un libro di poche pagine, forse lo hai già letto e questa, ironicamente, ti sembrava l’occasione buona per tirarlo fuori di nuovo.
Devo fare respiri profondi per sentire i polmoni pieni almeno la metà, e quando espiro l’aria esce con un fischio. Sei costretta a controllare che la mia testa non si pieghi troppo. Sei costretta a veder morire tuo padre.
Ma sei pronta, io lo so. Te lo leggo in quella faccia corrucciata. Ti concentri su ciò che leggi, ma anche su ciò che stai abbandonando, e questo è un bene, è un abituarsi all’evidenza, all’addio. Sei sempre stata previdente.
Quello che sto per dirti forse ti colpirà, o forse te lo sarai già immaginato. Non voglio pensarci troppo, voglio solo che tu lo sappia.
C’è stato un uomo prima di te, Vera, e quell’uomo ero io un tempo lontano in cui non ero padre, non ti conoscevo e non pensavo nemmeno al nome che avresti portato.
Vivevo una vita senza amori profondi, senza dare un significato preciso ai motivi per cui facevo le cose. Ma è normale, è un’età in cui un vero scopo non serve. Ci si alza lo stesso, si conoscono le persone, si parla con chiunque e a chiunque sembra di riuscire a voler bene. Tutte le amicizie dureranno per sempre, i genitori non moriranno mai, coi fratelli si litigherà sempre per gli stessi motivi e la propria fine appare lontana e poco credibile.
Tu, è vero, l’adolescenza l’hai vissuta in modo diverso. Più radicato, forse… più intenso. E ora che sei un’adulta ti sei portata tante cose dietro, di quegli anni. So di non conoscerle tutte. So che non me le dirai mai.
In sostanza, però, Vera, io non avevo paura di niente.
So cosa risponderai: eri un maschio. Forse le ragazze vicine a me avevano paura, non lo so. Io non me ne rendevo conto. La verità è che non mi è importato molto della paura delle donne, finché non sei nata tu, e anche dopo la sentivo distante, perché l’unica paura che mi preoccupava era la tua. Tu non eri “le donne” in generale; tu eri mia figlia.
A diciassette anni potevo dormire ovunque, con chiunque, anche senza mangiare. Potevo anche non dormire; il giorno dopo avrei trovato un modo per tornare a casa, per andare a lavorare, per trovarmi la sera con gli amici. Tutto aveva una soluzione.
Vera, le cose tenute nascoste sembrano alberi invisibili, ma mettono radici reali, potenti, dure, metalliche e insondabili come l’amore. Si diramano fino ad arrivare a toccare, ad attorcigliare, a stritolare ciò che incontrano, e poi tutto soffoca in silenzio.
Nei tuoi occhi mi riflettevo, trovavo me, trovavo ciò che ero stato e che mi sembrava di dimenticare quando ti giravi a guardare qualcos’altro. Ma ero padre di una figlia femmina, un buon padre, e tu mi volevi bene. Amarmi non ti è mai costato nessuno sforzo. E mi sento cattivo a dirti il contrario, di me. Che per me amarti non è stato sempre facile, che ci sono stati momenti in cui mi sono dovuto obbligare.
Nel 1981 compivo diciassette anni. C’è un motivo per cui non hai conosciuto il mio migliore amico di quegli anni, Vera. Dirtelo mi soffoca.
Domenico era nato un mese prima di me e abitava in una casa di cemento a cento metri dalla mia. Tutto era predisposto per farci diventare amici, e noi non abbiamo sviato dai programmi del destino. Ci interessavano le stesse cose, capivamo a che ora uscire insieme anche se eravamo ognuno a casa propria, e ci incontravamo a metà strada guardandoci come se quell’incontro fosse scontato. Non ci siamo mai chiariti a riguardo. È sempre stato così, e la strada di ghiaia è diventata nostra, l’abbiamo ribattezzata “Via Manico”, mescolando i nostri nomi nell’unico modo che appariva sensato. Eravamo bambini buoni, forse un po’ insensibili, a volte – e sicuramente lo siamo stati se messi sotto la lente dei tuoi principi.
Abitavamo in un piccolo posto, e ci bastava perché sapevamo che fuori, più o meno, le cose erano sempre le stesse. Anche a qualche chilometro di distanza esistevano famiglie come noi, lavori come quelli dei nostri genitori e madri che cucinavano le cose che mangiavamo. Cambiare famiglia sarebbe stato meno grave di cambiare amico.
Non ci rubavamo le cose a vicenda, e se una bambina piaceva a Domenico non piaceva a me, e viceversa. Non abbiamo mai dovuto dividere niente, se non le cose che pensavamo appartenere a entrambi. Non avevamo molto, non fraintendermi; non devi pensare a giocattoli o a pasticcini, parlo più che altro delle attenzioni dei nostri familiari o delle pigne più grosse che trovavamo per strada.
Quando rubavamo i fichi dagli alberi, non guardavamo chi ne aveva presi di più e chi di meno, li dividevamo in quella che ci sembrava l’esatta metà del bottino completo.
Ora, dopo averti conosciuta, non so se Domenico ti sarebbe piaciuto. Più ti conosco, meno so cosa aspettarmi. Di lui ho ricordi così belli e nitidi che mi sembra assurdo non ti abbia incontrata. Anche quando abbiamo smesso di parlarci, la sua presenza è stata forte, il nostro legame così saldo che lo sento addirittura qui, nel mio letto di morte, e questo mi fa pensare che forse nello stesso momento stia morendo anche lui.
Ma Domenico ha avuto due figli maschi, e forse tutto questo gli è pesato meno. Gli auguro di morire in pace, senza la tagliola che ho avuto io a mordermi i piedi a ogni passo, per tutto questo tempo.
Non ti sto parlando così tanto di Domenico per non arrivare al punto, non devi pensarlo. Tu mi conosci, a volte ho bisogno di spiegarti anche quando già immagini, anche quando i tuoi occhi sembrano dirmi di andare veloce. È proprio perché non mi guardi che riesco a parlarti.
Ti alzi, dai un po’ d’acqua alla pianta che hai comprato e messo in un angolo per migliorare la qualità del mio sonno. Ma non voglio dormire, Vera, non voglio; anzi, voglio parlare. I miei occhi prima o poi si chiuderanno e io non avrò più la forza di continuare, quindi ti prego, la pianta lasciala morire.
A diciassette anni ero una persona, ma non lo sapevo. Anzi, mi correggo: ero un uomo. Senza che io me ne rendessi conto, più di metà dell’umanità era diversa da me, pativa sofferenze che io ignoravo. Sapevo che esistevano, certo, ma non davo loro nessuna profondità. Ero superficiale, ero stupido.
Io e Domenico, una sera dell’estate dell’81, decidemmo di andare al mare. Da casa nostra ci volevano più o meno un’ora e mezza, perché ai tempi i motorini non andavano veloci come oggi, e noi eravamo ingenui ma non volevamo rischiare, e non avevamo fretta. Eravamo solo io e lui, non chiedemmo a nessun altro.
Non sapevamo che sarebbe stata la nostra ultima notte da soli, e il viaggio filò tranquillo, ci avvicinavamo al mare man mano che il sole si avvicinava alla linea dell’orizzonte, e l’aria si faceva più tiepida, il cielo aranciato.
Sento l’odore delle nuvole di fumo che escono dalle auto, sento che si dirada e che ora comincia a sapere di acqua, di sale, di pesce, di persone e di sudore. Vedo chi si allontana e chi si avvicina, i finestrini abbassati e le persone nelle auto che aprono le mani ed espongono i palmi alla brezza calda. Vedo la nuca di Domenico, su cui appoggio la fronte quando il sole è ancora troppo alto per i miei occhi e mi fa male, li sento ardere anche dietro alle palpebre e ho le ciglia che si impregnano di lacrime. I nostri caschi non sono allacciati, ai piedi abbiamo delle ciabatte vecchie, forse dei nostri fratelli maggiori, o dei nostri padri.
Domenico parcheggiò in uno spiazzo circondato da arbusti rinsecchiti. Non pioveva da un paio di mesi, ma almeno lì c’era il vento, e io avevo appena cominciato a farmi crescere i capelli. Avevamo portato uno zainetto con poche lire sparse, due panini fatti da tua nonna, delle birre da cinquanta cl. Seduti sulla sabbia ancora ardente, eravamo in mezzo ad altri adolescenti e giovani adulti e tutti facevamo più o meno le stesse cose.
Le ore passarono, le birre si scaldarono ma le bevemmo ugualmente. Non eravamo ubriachi, ma a quell’età si pensa di esserlo con poco.
Ignoro il suo nome. Forse glielo chiedemmo, ma nel trambusto che seguì, o che precedette, non mi sembra di averlo sentito, quindi le darò un nome fittizio.
Lisa era sola, e il cielo era diventato di un blu scuro che sembrava portare temporale. Si sedette con noi a bere qualcosa, le piacevamo perché, a differenza di altri, non ci stavamo drogando.
Lisa era di lì, i suoi amici erano quasi tutti partiti per brevi vacanze, due o tre giorni, al massimo fino al fine settimana. Anche a noi stava simpatica, sebbene non fosse una di quelle con cui normalmente saremmo stati a parlare – tu penserai che questo non è gentile da dire, ma devo dirti a malincuore che queste sono tra le ultime parole gentili che sentirai, mio tesoro.
All’apparenza sembrava un po’ snob, troppo truccata, coi capelli biondi tirati in una coda di cavallo e la pelle abbronzata che sembrava dire di aver passato l’intera estate stesa su un asciugamano.
L’abbronzatura di chi lavorava e quella di chi stava in spiaggia si riconosceva lungo l’orlo dei vestiti, quando ci si muoveva e si spostavano di qualche millimetro; gli occhi ricadevano lì per vedere chi era cosa, e le differenze tra noi, figli di contadini, e lei, che sembrava appena uscita da una rivista, erano evidenti.
Riflettendoci, penso che ce la fossimo un po’ presa che Lisa si fosse seduta lì con noi senza nemmeno presentarsi, e che noi non ci pensammo, ammaliati dal suo profumo dolce, misto al sudore e all’odore del mare.
Come ti ho spiegato, tra me e Domenico non esistevano confini come potrei intenderli adesso, dividevamo tutto senza bisogno di chiederlo.
Con Lisa ci siamo comportati nello stesso modo; dopotutto si era avvicinata lei, dopotutto a quell’età le ragazze cercavano un fidanzato, non erano certo come ora, indipendenti dall’idea di doversi per forza accasare giovani.
E noi eravamo giovani, e Lisa ci piaceva. Non abbastanza, però, da starle distante, con quella timidezza che da adolescenti ci obbligava a ignorare chi ci piaceva veramente e ad avvicinarci a chi trovavamo solo simpatica. E la parte che segue te la devo dire in fretta, senza pensarci a lungo, perché ormai mi sono spinto troppo in là per farti credere una cosa che in realtà non è.
Cominciò a piovere a dirotto, e se non fosse stato per la pioggia penso che se ne sarebbe andata perché la serata era finita da un pezzo, noi eravamo lì lì per andarcene anche senza aver concluso niente, non ci importava granché. Ciò che seguì non ebbe la minima importanza, non fu un impulso, un raptus improvviso e inevitabile, non ci furono emozioni forti a parte la paura, la paura che ce la fece tener ferma per i polsi, la paura con cui le chiudemmo la bocca con forza.
Ci riparammo sotto la tettoia di un bar chiuso, con la saracinesca abbassata e l’insegna spenta.
Ci sedemmo vicino a un cartello plastificato su cui c’era scritto “due tranci di pizza, una bibita in omaggio”. E tutto era lì, a portata di mano, tutto ci sembrava dovuto, pensavamo che ci spettasse e ora non saprei giudicare con certezza chi cominciò, ma so che di sicuro non dipese da lei, questo l’ho capito molto dopo, quando cominciai a smettere di giustificarmi.
La prendemmo con la forza, come se la sua resistenza fosse qualcosa da spezzare, un fastidioso ostacolo che si metteva lungo un cammino che altrimenti sarebbe stato in discesa, pensavamo che la sua nudità ci spettasse, che fosse nostro diritto, ovvia conseguenza di quella sera, di quella pioggia, di quel profumo.
Le mani che le impugnarono i fianchi con avidità sono le stesse mani che ti accarezzavano quando eri bambina, che ti facevano il solletico e ti sollevavano da terra, e non sai che sforzo mi costò lavarti, pulirti il sedere e cambiarti il pannolino vedendo su di te le stesse dita e le stesse unghie che ancora mi sembravano sporche di quella violenza.
Lisa era morbida, sembrava sciogliersi come burro fuso sotto le nostre mani, e le sue si muovevano meccaniche, ci respingevano, eppure muoverle e aprirle era così facile che quasi ci convincemmo che lo volesse, che resistesse ma mentisse.
Tutto era partito all’improvviso, questo era partito ma poteva partire altro.
Ci demmo il cambio, a un certo punto, senza dircelo. E poi smettemmo, nello stesso momento, e io vidi il corpo di lei tremare via – un corpo che prima mi sembrava pieno e pesante, anche se sinuoso –, raggrinzirsi e nascondersi nel buio.
I vestiti di Lisa giacevano sparsi. Avevamo pestato la maglietta, aveva perso il suo colore. I pantaloncini di finto velluto erano sotto la pioggia. Le avevamo strappato l’elastico dai capelli e lo calciai via come fosse un rifiuto. Sentivo solo l’acqua scorrere, qualcosa defluire dal corpo, il mio cuore che batteva forte nelle orecchie, nella punta nelle dita. Avevamo sudato; ci lavammo sotto la pioggia. Tornammo al motorino lentamente, senza parlare.
Mi sembrava di essermi lasciato indietro il cadavere di una creatura mitologica, qualcosa che non ero sicuro fosse esistita. Tornammo a guardarci, e capii dal suo sguardo che lui pensava lo stesso, che la nostra vita di prima era finita, e adesso avremmo viaggiato su binari diversi, che avremmo ricominciato daccapo.
C’è stato un prima e un dopo quell’evento, Vera, e un prima e dopo di te.
Nella mia vita si sono succeduti l’amore e la paura, entrambi in egual misura. Tu sei stata una parte importante di entrambi.
Ciò che ho fatto mi ha portato, al contrario di quanto si possa credere, a dubitare di tutte le donne, a non credere a nessuna di loro. Pensavo che fosse un’eccezione, non la regola. Mi era sembrato così innaturale e fuori dall’ordinario che mi sono rifiutato per anni di credere che qualche altro uomo, invece, potesse farlo volontariamente.
Adesso mi dirai che nessuno mi ha costretto, che anche da parte mia c’era la volontà di farlo, e hai ragione. Ma era la volontà di un animale, di una bestia che deve difendersi da qualcosa che non capisce. È come quando un gatto ti attacca mentre tu gli stai dando da mangiare, o un cane ti morde quando cominci a farlo giocare. Capisci?
So che queste per te sono solo inutili giustificazioni. Che mi guardi con occhi colmi di orrore. Che non hai più paura degli uomini, ma neanche li rispetti.
Per anni ho avuto paura di chiedertelo: cosa ti hanno fatto?
Tua madre non ha voluto sapere di che sesso tu fossi, e io ho sperato in segreto in un maschio a cui avrei raccontato tutto e che mi avrebbe capito, che mi avrebbe assolto e mi avrebbe amato lo stesso.
Avevo una paura pazza del tuo amore, Vera. Quando sei nata e hai aperto gli occhi, piena di sangue, piangente, sembravi la figlia di un vulcano: rossa, rumorosa, grande. Un vulcano con occhi d’acqua. E io ho pianto perché temevo mi amassi senza che io lo meritassi, e anche adesso; i tuoi occhi sono rimasti gli stessi, non ne è cambiata neanche una sfumatura, sono come i miei ma più opachi, come se nascondessero più cose.
I momenti in cui litigavamo e in cui mi odiavi soffrivo, ma pensavo fosse naturale. Era la conseguenza derivante da una causa, e la causa era quello stupro.
Ti ho riconosciuta subito quando sei nata, eri mia figlia e non c’era più niente da fare, avevo una femmina, una femmina era nata e io ne ero stato il veicolo, ti avevo portata io nel mondo. Se tua madre ha subito la fisicità del parto, io ne ho risentito ogni istante nella testa, nell’ansia di non trovare un maschio.
Sono felice di averti avuta, Vera. Sono felice che sia nata tu. Anche se non ti capisco, anche se crescendo hai cominciato a guardarmi diversamente e da eroe sono stato declassato a semplice uomo, in mezzo a molti. Anche se mi accettavi così e so che mi avresti accettato pur sapendo.
Ti ho passato la menzogna nel sangue: so che mi hai taciuto tante cose, e non so se le voglio sapere tutte. I figli conoscono bene i genitori, li vedono con innumerevoli occhi, li amano, li scherniscono, li imitano e li ripudiano. I figli non vorrebbero avere altri genitori, amano i propri, ma non bastano mai, qualsiasi cosa facciano saranno sempre genitori incompleti, che potevano cavarsela meglio.
Ma noi non vi conosciamo veramente, Vera. Siete misteriosi e noi vogliamo sezionarvi, capire come funzionate, e più vogliamo capirlo più il vostro sistema diventa complesso.
Come ti dicevo, io e Domenico non ci siamo più visti. Non saprei descriverti il nostro ritorno a casa, è come una nebulosa in cui ci siamo immersi e che ci ha teletrasportati nei nostri letti.
Il distacco è stato naturale, inevitabile. Cerco di abbattere quest’albero di menzogne ed è incredibile che l’unico sentimento che provo ora è la mancanza del mio migliore amico.
Tutte le persone che ho conosciuto dopo sono state e sono ancora molto diverse da me, ho allontanato chiunque mi somigliasse, forse per paura di ritrovare Domenico in qualcuno.
L’unica che non ho saputo allontanare sei stata tu.
Ti avvicini anche se non sei richiesta, ti avventuri in luoghi che non ti appartengono ma che pensi di poterti prendere. Pianti la tua bandiera su terreni inesplorati, e non ti accontenti finché non è ben conficcata. E se il terreno non cede usi la violenza, usi parole che scalfiscono profondamente, sguardi che aprono anche i cuori più duri. Percorri le strade aride di chi appare senz’anima, abbeveri piante secche da cui non ricaverai mai fiori. Cerchi il sangue in chi è già morto; annusi l’aria di stanze chiuse da secoli di cui gli altri si sono dimenticati.
Questa solerzia nell’addentrarmi in posti che non conosco io non ce l’ho. E non l’ho vista neanche in tua madre. Attiri solo chi è già attratto da questa caratteristica, gli altri ti evitano e ti rifiutano, e tu non te ne lamenti.
Chiudi il libro. Sembri aver capito, e non so se riesci a vedere che sto sorridendo, e che anche la parte paralizzata del mio corpo si è alleggerita dopo quest’ora passata insieme.
Vera, misteriosa Vera, sei un pozzo sommerso di cui non si riesce a vedere il fondo, se ne può accarezzare soltanto il contorno, alcune pietre interne, poi diventi sdrucciolevole e scivolosa e ci si deve allontanare, pena il cadere e il non risalire mai più.
Mi sorridi. Il mio volto riecheggerà per sempre nel tuo, ne porterai orgogliosamente la parte che io ho dovuto nascondere. I miei peccati, sulle tue spalle, si confonderanno come il fiume che sfocia nel mare.
L’albero è abbattuto, hai sentito che frastuono?
*
«Tra poco arriva mamma. Mi dà il cambio».
Non sono mai stata abituata ad accarezzarlo; anche ora, passandogli una mano sulla testa, il gesto è innaturale, meccanico. I suoi occhi mi hanno seguita tutto il tempo e non sono riuscita a concentrarmi sulla lettura: mi comunicava qualcosa di sbagliato, come quando da piccola rompevo uno dei suoi dischi e dovevo dirglielo, ma non ci riuscivo e speravo me lo potesse decifrare negli occhi. E crescendo sono scappata da sguardi simili.
Sono le quattro del pomeriggio e voglio scappare. Non ne posso più di questo odore, di questa misera stanza, del termosifone che va a scatti, del silenzio. Mia madre dice che capisce tutto, gli parla come se le rispondesse. A volte la sorprendo a dirgli ah, hai sete? Me ne occupo subito.
«Papà».
Mi vergogno, ma apro il libro e glielo metto sul viso per coprirgli gli occhi. E quando sento la porta d’entrata aprirsi, e l’ombrello di mia madre gocciolare sul pavimento, raccolgo tutto il mio coraggio.
«Papà, ti prego, muori».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio in stile dadaista che ritrae un capello lungo incastrato in una puntina di un giradischi”