

Una rubrica su scrittura e i suoi derivati.
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NARRATIVA E SOCIAL: COME SI TRASFORMANO I TESTI?
La narrativa ha sempre richiesto i suoi tempi. Anni per un romanzo, settimane per un racconto. Ore di lettura. Un post esiste in pochi secondi, minuti se è fortunato. Ma quando la narrativa entra nei social, cambia anche la sua natura? Barthes parlava della morte dell’autore: una volta pubblicato, un testo non appartiene più a chi l’ha scritto. Ma oggi non è solo orfano: è in balia dell’algoritmo, che decide se farlo esistere o seppellirlo sotto un reel più performante.
Può diventare una citazione, un trend, un meme. Il testo si frammenta, si trasforma, prende significati imprevisti. Prendiamo il mio racconto Primavera 2022, pubblicato da questa rivista. Per un gioco di specchi, raccontava una storia d’amore attraverso i post social. Il frammento scelto per pubblicizzarlo conteneva già una citazione, da Terapia di coppia per amanti:
“Siamo infelici, Vivi? È per questo che mi hai portato qui?” Questa volta lui le mette un cuore che rimane il tempo necessario perché io me ne accorga, poi viene tolto. Noi invece ci asteniamo dall’agire. Non servono ulteriori validazioni della loro infelicità.”
Possiamo dire con certezza che questa citazione, decontestualizzata, magari ripostata, non abbia generato a sua volta nuove narrazioni e nuovi immaginari? Forse la domanda non è se i social abbiano cambiato il nostro modo di scrivere e leggere, ma se i testi, qui, abbiano iniziato a muoversi diversamente. Si spezzano, rinascono in altre forme, diventano virali, oppure scompaiono nel nulla.
Quindi, mentre scrivo questo post, so già che questo potrebbe essere citato, condiviso, frainteso, rielaborato. O, più probabilmente, ignorato e inghiottito dall’algoritmo. Sarà interessante scoprirlo. Fra qualche minuto.
E allora mi chiedo: la narrativa è ancora un testo chiuso o è già un oggetto liquido, pronto a disperdersi nei social? Queste logiche cambieranno il nostro modo di scrivere e produrre narrativa, alla lunga? Ma soprattutto: saranno i gattini o la perfetta esecuzione di una carbonara a celebrare il funerale di questa riflessione?
IL MORSO CHE HA CAMBIATO OGNI COSA
Immaginate il caos di una mensa scolastica, in sottofondo il vociare polifonico che accompagna il rumore dei piatti e le imprecazioni delle maestre: situazione difficile da gestire, ma solo nei minuti che precedono l’arrivo di uno dei cibi che potrebbe davvero metterci d’accordo tutti.
C’è un bambino al centro di quest’immagine, ginocchia sulla sedia, schiena storta, quell’esatta postura che dà il La alla temutissima profezia degli adulti “Ti verrà la scoliosi”, petto allungato e mano destra protesa verso il centro del tavolo: hanno appena servito le patatine fritte. È un attimo di semplice, disarmante, entusiasmo, sa di premio, di sospensione. Prende una patatina la spezza coi denti, ma solo metà, una la ingoia l’altra la tiene fra pollice e indice, la osserva e la felicità, all’improvviso, si incrina: si ricorda che i suoi stanno divorziando. È spezzato come quella patatina, che sembrava perfetta e perfetta non era.
Questa è la descrizione di un breve passaggio non cruciale di un libro letto durante l’ultimo anno di elementari e che ha fortemente contribuito alla mia formazione, più di molti testi sacri venuti dopo. Perché è lì che ho capito che non c’è letteratura senza la potenza dei dettagli marginali. Lecito dissentire: è così incisivo questo passaggio? No, ma siamo noi a dare valore alle storie. Bastano poche righe, Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Basta un sospiro, Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. La letteratura ti insegna la stratificazione del simbolo. Parte di ciò che sono lo devo a quel vecchio libro che vagava fra un prestito e l’altro nella piccola biblioteca di classe. Con gli occhi dei dieci anni, non era meno potente di un Dostoevskij. E l’aspetto più bizzarro di tutta questa storia è che non ricordo il titolo, né l’autore o l’autrice.
Niente. Ed è bellissimo anche così.
IL POTERE DELLA LACUNA
Sono una persona che scrive con la forza e la tenacia che nascono dal bisogno e questo vuol dire che di base agisco in maniera istintiva, senza essere consapevole del dialogo sotterraneo tra le mie storie e ciò da cui originano, che così è rimasto a lungo nascosto al mio interno. Capitano, però, dei momenti di illuminazione e spesso arrivano grazie a uno sguardo esterno. Mi è successo qualche giorno fa, quando una scrittrice, che stimo molto e che mi legge da tempo, mi ha detto che le piace l’uso che faccio della lacuna e che le pare che sia un tema ricorrente nei miei testi.
Dopo un primo momento di costernazione perché non me ne ero resa conto, ho pensato che è vero. Credo di tornare al tema della lacuna perché senza il vuoto che ho al centro del mio essere non sarei io, questa versione di Caterina, e con ogni probabilità non esisterebbe la scrittura nella mia vita. Lo diceva con altre parole anche lo scrittore e drammaturgo Jean Genet, “non c’è per la bellezza altra origine che la ferita”. È questa lacuna, questa ferita, che ho dentro ad avere il potere di creare. E la lacuna per me ha una forma precisa, quella di una perdita improvvisa che non ho subito io ma che mi è arrivata impastata col sangue e con l’amore. Non è mia e insieme è mia più di ogni altra cosa perché intorno al suo vuoto io mi sono costruita e dalla sua ombra umida continuo a pescare le mie storie.
Se devo collocarla all’interno del mio corpo, me la vedo nella pancia. Non penso sia un caso. C’è un qualcosa di viscerale nella scrittura e con viscerale intendo il fatto che viene dalla mia carne, è materia organica che mi compone. Nel suo romanzo “Nella quiete del tempo”, Olga Tokarczuk scrive che “immaginare è in sostanza creare, gettare un ponte tra la materia e lo spirito”. È una riflessione che condivido. Scrivere è il modo in cui si esprime la mia forza generatrice, questo potere, che nasce dentro la ferita, prende una perdita antica e la plasma in qualcosa di nuovo, di vivo, di prezioso.
L’ELEFANTE NELLA STANZA
C’è un elefante nella stanza degli scrittori contemporanei. È lì, impossibile da ignorare e decisamente più ingombrante della pila di romanzi che abbiamo accumulato, spesso più per cortesia professionale che per piacere vero.
L’intelligenza artificiale è peggio di quella pila, ma potrebbe essere anche meglio. È capace se non altro di suscitare una reazione. Alcuni autori stanno apertamente osteggiando lo strumento, altri negano di farne uso. Entrambe le strade conducono all’errore.
Giordano Tedoldi, scrittore con la maiuscola, ha recentemente deciso di infrangere il tabù ammettendo di utilizzare l’intelligenza artificiale come supporto: “Mi ha dato alcuni suggerimenti, i tre quarti respinti, un quarto sostanzialmente accolto, benché a modo mio”. Una posizione pragmatica.
Per quanto mi riguarda, non mi sento né travolto dall’entusiasmo né paralizzato dalla paura. L’intelligenza artificiale non potrà mai sostituire l’essenza della creazione letteraria. Il “sangue e il sudore” dell’atto creativo rimangono irriducibilmente umani. D’altra parte, rifiutare categoricamente questi strumenti per principio rischia di trasformarci in luddisti contemporanei. La storia della letteratura è soprattutto storia di adattamento tecnologico. Riuscireste a scrivere senza un computer?
Eppure, trovo pacifico l’IA come editor aggiunto ma mai mi immaginerei di sostituire la mia periodica seduta (come da uno bravo) con l’editor di fiducia (anche qui, nomi e cognomi: Emanuela Cocco, la migliore). Ciò che preoccupa è che non tutti useranno la stessa prudenza. Un esempio: mi raccontava una scrittrice e traduttrice eccellente che alcune grandi case editrici hanno già da tempo sostituito i traduttori professionisti. Una tendenza che minaccia non solo posti di lavoro, ma più banalmente la qualità e la ricchezza culturale delle traduzioni.
La sfida vera, come nella vita, sta nel trovare un equilibrio: utilizzare l’IA come amplificatore delle nostre capacità creative, non come sostituto dell’autenticità. Ma bisogna guardarsi in faccia senza evitare di nascondersi. Altrimenti l’IA rischia di diventare come la droga che tutti usano ma nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
UNA TAVOLATA DI FAMIGLIA
Scrivere per avviare un processo che, per fortuna, non si concluderà mai, neanche davanti ad un punto e a capo. Questo per la capacità di ogni singola parola di essere un muro portante della narrazione e, al contempo, una tavolata di famiglia in cui ogni singolo membro scalpita per alzarsi e intraprendere il proprio viaggio in solitaria, alla ricerca di significati altri e con il desiderio di ritornare a condividere le gioie della scoperta.
Prendiamo per esempio la parola SCRIVERE. Alla tavolata di famiglia sono presenti CRI, RIVE, VE, VERE, ERE, RE. È proprio grazie ai loro viaggi in solitaria che scopriamo che “CRI passeggia lungo le RIVE del fiume, ripensando a RE e a ciò lo ha spinto ad andarsene. Perché ha abbandonato lei e le sue sorelle Do, Mi, Fa, Sol e La ? Quali sono le VERE motivazioni della sua scomparsa? Nessuna risposta e molta disperazione, alla quale si aggiunge quella di ERE, una parola che cerca la sua S per poter capire quando terminerà la sua ricerca e se questa non si protrarrà ancora per molte altre sere. In ogni caso state tranquilli perché, se dovessero esserci novità, VE le faremo sapere”.
Nel mentre, buona scrittura a tutti.