L'AMICA DI LUI

Sono seduta su una poltrona mentre voi vi abbracciate sul divano.  

Siete sdraiati a cucchiaio e vi tenete stretti mentre parlottate e fate finta di guardare il film.  Mi costringete ad andare in apnea, poi mi tocca inspirare ed espirare rumorosamente così  tutti gli altri nella stanza si accorgono che non sto bene.

E vi sento ridacchiare e vorrei possedere io l’incavo del collo che annusi senza farti vedere dagli altri.

Ad ogni vostro sfiorarvi impercettibile, l'aria brucia.

Quando il film finisce lei decide di spostarsi dal divano, tu la segui così io provo a  calmare il respiro. 

Mi concentro per evitare di piangere.

Mi tocca sorridere e bere del rosé in giardino con voi e con gli altri. Non so perché sono qui. Non sarei dovuta venire. 

Già lo scorso anno, in questa stessa casa, in questo stesso sud francese, ero stata  lacerata. Mi ricordo di una doccia, mi ricordo di acqua bollente che era acqua fresca in confronto a quello che mi facevate voi. Perché ho pensato che quest’estate potesse essere diversa? 

E non è cambiato nulla e non cambierà mai nulla. 

Questo pensiero è riprodotto in loop da un diavolo sadico che mi obbliga a  considerarvi come unità, anche se non lo siete. 

Sì ma manca poco, manca poco e si mettono insieme mi dice il diavolo sadico. 

Gli altri mi guardato turbati, lo sanno che mi state strappando bocconi di fegato. Loro sanno e non fanno nulla. 

Mi fissano inebetiti e basta, nessuno interviene. 

La soluzione è sigillare il cervello, passeranno solo le informazioni per sopravvivere. Userò il rosé come silicone attorno alle ossa del cranio. 

«Giulia che ne pensi?»

«Giulia a cosa pensi?» 

«Giulia che hai?» 

Sono concentrata a nascondere i solchi che mi provoca la vostra sintonia, sto vivendo in un horror ben sceneggiato e invece di urlare davanti ai killer con la motosega devo fingere che vada tutto bene, devo sorridere ed appannare i sensi. 

Ma forse non basta. E se ridessi? Così basterà, così dissimulerò. 

Ed eccomi a ridere rumorosamente, senza motivo, alle tue battute, alle battute degli altri.
«Non è niente» 

«Una mail di lavoro» 

«Sono solo cazzi a casa, ora passa» 

E non passa e il grumo è sempre lì, in gola, non lo vomito e non lo mando giù. Tu mi guardi, forse l’hai capito, non sei stupido, forse hai sempre avuto il sospetto. Lei invece non ha occhi per me, le servo solo come sacco da boxe, mi tira tanti pugni, ho i fianchi spezzati. 

Dopo l’aperitivo, usciamo per cena. 

Il ristorante lo sceglie lei, sceglie tutto lei. Il vino, i posti a tavola, quando devo  trasformarmi in un puntaspilli. 

Pendete tutti dalle sue labbra.  

«Giulia ti vedo meglio» 

«Giulia, che prendi? Ti va altro rosé?» 

«Giulia?» 

Mi parli e io ho la testa leggera, staccata dal collo, fluttua.

Vago e mi costringo ad inventarmi finali allegri.

Penso a come vorrei arredare casa nostra, al viaggio a Cuba che mi regalerai per i trentacinque anni, al sole che ci scalderà il viso quando cammineremo mano nella mano tra le vie della nostra Torino, che prima era solo mia ma che a breve, brevissimo, sarà nostra. Lo fai ancora, lasci che il tuo ginocchio si appoggi al mio, addirittura fai capitare le nostre mani sullo stesso pezzo di pane. 

«Sì, sto meglio» e sorrido, un sorriso vero.

«Il rosé va benissimo» e ti faccio l’occhiolino. 

Voi finite di mangiare, io guardo il mio piatto traboccante di veleno e penso ancora ai nostri futuri impossibili. Torniamo verso casa, quella che mi cucirò negli occhi prima di metterci un’enorme X sopra. Bucherò la pupilla per disegnare con l’ago ogni singolo pomello, ogni fuga delle piastrelle del bagno, ogni vena del parquet della camera dove dormi.

«Giulia, facciamo due chiacchiere?»

«Giulia, non avrai già sonno?» 

«Giulia non fare la guastafeste». 

Devo subire ancora? 

Vi annusate come due gatti in calore, sento che è solo la mia presenza ad impedirvi di  darvi piacere reciproco. 

«Sono sveglia dalle sei» sbadiglio. 

«Rimanete voi» e vi sorrido per finta. 

«Ok, sto qui, ma solo un quarto d’ora». 

Rimaniamo solo noi tre, gli altri riescono a dileguarsi. 

Allora, che fare? Estraniarsi. Ancora.  

Rifaccio fluttuare la testa, la stacco dal collo ma senza rosé è più difficile. I minuti mi scavano nelle ossa, li sento passare come gli aratri nei campi che diventeranno grano e poi farina e poi pane che verrà bruciato dal panettiere e dato ai maiali. 

Passano ore, e mentre voi parlate di librerie da scovare e viaggi da organizzare io conto  tutti i modi per fuggire da questo salotto. 

Infine lei decide che è ora di andare a dormire, ma prima mi salutate entrambi con un abbraccio, uno di quelli che rimangono come bruciature sulla pelle, segni di un dolore che penetra fino ai muscoli.

Entro nella camera che mi è stata assegnata trascinando i piedi e mi siedo su quello che  per ancora una notte è il mio letto singolo. 

Con estrema lentezza appoggio la testa sul cuscino e sento il sonno risalirmi la schiena, scalare il collo, prendere ogni capello, passare la fronte ed entrare negli occhi. Mi addormento con un’emorragia interna, sconfitta anche oggi, perdente per definizione.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un bicchiere di vino rosè e sullo sfondo un giardino con delle persone che parlano felici”