L'abitorio

Non fosse per le spettacolari modalità con cui è avvenuta, della recente dipartita di Ernesto Vanitosi non si sarebbe accorto nessuno. In particolare, l’evento sarebbe passato sottotraccia proprio in quel mondo a cui lui così tanto ha dato e da cui in cambio nulla ha ricevuto. Ah, le belle lettere! Quanto le ha amate Ernesto Vanitosi! E quanto poco è stato ricambiato… Forse, adesso che la sua morte ha fatto il giro del mondo, qualche avido editore (ma ne esistono di indifferenti al vil danaro?) ripubblicherà l’Abitorio, il suo ingiustamente dimenticato capolavoro, e con tanto di squilli di trombe e fascette entusiastiche recitanti miserabili strilli; già immagino la copertina: un cupo quadro di Victor Hugo e una fascetta con su scritto qualcosa come “L’osceno capolavoro riscoperto dello scrittore sgozzato dal proprio eccetera eccetera”, sì, qualcosa del genere. Vuoi che la rivoltante editoria italiana non lucri su una storia così truculenta?

Certo, la mole del libro potrebbe spaventare il rozzo lettore medio italiano, ma con un attento lavoro (vedasi font minuscolo e pagine di carta velina simil testo sacro domestico) le 1526 pagine dell’edizione fuori catalogo – che ho qui, ovviamente autografata, sul tavolino di legno della mia stanza quattro metri per quattro – si trasformeranno in delle digeribili 700 paginette. E allora via, si partirà col solito teatrino mediatico dell’editoria italica: sviolinate post mortem su quotidiani e inserti culturali firmate da colleghi che in vita mai lo hanno degnato di uno sguardo; “recensioni”, ovvero riassunti di trama, su riviste online che nessuno legge e scalate di classifiche di (presunta) qualità dove amici votano testi di amici e poi tanto il mese successivo si ricambia il favore; qualche comparsata negli inutili book haul di booktubers che non hanno la minima idea di ciò che hanno appena ricevuto gratis da una casa editrice bramosa di vedere il proprio libro nella scintillante cornice di un post instagram e così via:

l’editoria ha tanti modi per screditarsi e ha la sua forza proprio nel suo spudorato cinismo… Cosa ti sei risparmiato Ernesto! Ti invidio.

Già m’immagino l’espressione prima corrucciata e via via sempre più sdegnata di un’ignara booktoker di quindici anni di fronte al monumentale incipit di Abitorio:

Quanto calore infondeva nel mio cuore la vista di tutti quei corpi gelidi. Aprivo le celle una ad una e accarezzavo le fredde membra con la punta dell’indice: la rigidità della morte; il rigore dei muscoli; la regalità del corpo nudo. Il corpo è tale solo quando è nudo. Questo cercavo fin da quando avevo avuto coscienza di me: il totale controllo del corpo altrui. Perché mi ero accorto che sul mio non ne possedevo alcuno.

Il pene è l’organo della morte. A confermarlo la rigidità che trionfava nelle mie mutande ogniqualvolta sfioravo i loro corpi. La reazione del corpo: l’erezione. Prima di un’autopsia dovevano passare ventiquattro ore. C’era tempo per scegliere. Di certo loro non hanno mai avuto fretta.

A volte sedevo al centro della sala: la gioia di un bibliotecario che si ferma ad ammirare il proprio archivio. Gli esami necroscopici per cui venivo mensilmente pagato erano il dovere prima del piacere, prima cioè delle necroscopate che mi concedevo furtivamente e freneticamente. Io vivevo il mio sogno. Io abitavo l’obitorio. Io scopavo la morte. E mi sentivo vivo. ¹

Ernesto Vanitosi non era per me solo il più grande autore italiano vivente. Un dato che do per scontato e obiettivo come si sarà capito leggendo questo mirabile incipit. Era anche diventato un maestro. Di scrittura, pensavo io all’inizio, dopo essermi iscritto, dando fondo al mio misero conto in banca da apprendista libraio, al suo corso Scrivere col sangue. Di vita, mi accorsi presto, non appena entrato nell’aula semivuota: solo io e una ragazza, schiva e insicura mi parve, come schivo e insicuro ero io allora; e dunque mi sedetti lontano da lei. Ma Vanitosi mi riprese subito: «Eccoci signori» parlava sempre a un ipotetico pubblico; era soprattutto uno scrittore orale avrei imparato «l’ennesimo maschio bianco d’inusitata timidezza che confonde il disastro della propria asocialità con velleità d’artista». Quelle le prime parole che il mio mito letterario mi rivolse. Dentro la mia testa risuonò l’episodio dell’Abitorio in cui l’io narrante si concede un rapporto orale con la salma del proprio professore di greco del liceo:

Quella bocca. Quella bocca capace di inventare gli epiteti più acrimoniosi coi quali mi fosse mai stata rivolta parola. Quella bocca, sì, ora stava facendomi provare il più grande piacere degli ultimi mesi. Le mie mani la tenevano spalancata, il mio bacino dava colpi ritmati, i piedi tesi nello sforzo di stare in equilibrio sulle punte. «Non parla più ora, professor Malacoda?» mormoravo ansimando. «Non Le interessa più l’aoristo di ράω?». Dove vanno a finire tutte le preoccupazioni della vita quando gli occhi si fanno vitrei, il cuore smette di battere e il corpo comincia a imputridire? Malacoda mi sembrava ora un uroboro, era la rappresentazione perfetta della ciclicità della natura. Solo che in bocca non aveva la sua coda. ²

Il complicato rapporto maestro/allievo: un topos narrativo molto caro alla letteratura. Che fosse questa la prima lezione di Vanitosi a noi sprovveduti e ambiziosi scrittorucoli? Comunque ero deciso a fare buona impressione sul mio scrittore preferito: preso coraggio, mi spostai verso il banco della ragazza. I nostri sguardi non s’incrociarono. Notai invece che il suo banco era vuoto, il suo viso pallido. Tirai fuori dal mio zaino quaderno e astuccio, pronto a trascrivere ogni sillaba proveniente dalla bocca di Vanitosi, ma non feci in tempo a togliere il tappo dalla penna che il sommo proruppe: «Benissimo signori! Anche Lei m’incappa nell’errore di credere di essere tornato a scuola. Che cosa gli fa pensare che servano carta e penna in questa sede?»

«Beh, ecco» non riuscivo a guardarlo in faccia, cercai di trovare conforto accanto a me, ma la ragazza continuava a eludere il mio sguardo «ecco, sì, ho immaginato che a un corso di scrittura, sì, insomma, che si scrivesse…»

Ovviamente sbagliavo. Quant’ero ingenuo allora! Mi viene da sorridere e da compatirmi a ripensare al mio primo approccio con Ernesto.

Non eravamo là per scrivere, eravamo là per «vivere! La scrittura nasce dalla vita: è l’esperienza, anzi, mi correggo, sono le esperienze forti a forgiare lo scrittore. Le esperienze e i sentimenti, ricordate. Non servono libri, penna, carta, pensieri, serve sbattere la faccia contro la realtà. E la realtà è merda, sesso, budella, odio, cazzi, sangue» fece una pausa, sorrise «morte».

Per la prima volta da quando eravamo lì, io e la ragazza ci guardammo. Sentii l’elettricità attraversare le fibre sintetiche del mio maglione. Quando Vanitosi volle sapere i nostri nomi, scoprii che il suo era Teresa. Teresa, proprio come:

Teresa. Terra delle mie pulsioni. Peccato mancato. L’unico corpo vivente per cui pensavo sarei riuscito a… E invece quell’agilità; quelle gambe sempre in movimento; quel respiro, caldo; quel ventre, caldo; quel cuore, pulsante. Pulsante di vita! Pulsione di morte. Teresa. Terra dei miei rimorsi. Non ti ho abitata. Non ti ho avuta mai. Tu vivi. E io aspetto. ³

In cosa consisteva dunque il corso di scrittura di Ernesto Vanitosi? Non si scriveva, non si leggeva, non si prendevano appunti, non c’erano esercizi. Nulla di tutto ciò. La lezione procedeva per prove, via via sempre più dure e sgradevoli, perché «la vita altro non è che un susseguirsi di prove». Le prove non erano campate per aria, Vanitosi non era uno sprovveduto. La prima aveva come obiettivo l’estirpazione dell’ombelicalità tipica degli scrittori alle prime armi: non tutto ciò che succede nella nostra vita è degno di essere raccontato. Per ovviare all’ingenuo errore di credere che la nostra colazione sia interessante per il lettore, bisogna entrare in contatto con altri ombelichi. Vanitosi ci fece alzare e spogliare: io e Teresa restammo in jeans, l’uno di fronte all’altra.

«Su avanti, avvicinatevi» ci intimò «avvicinate i vostri ombelichi». 

Mi voltai a fissarlo: aspettava, placido, le braccia conserte. Il suo sguardo mi diede coraggio. Non ero lì di certo per deludere il mio scrittore preferito! Mi avvicinai a Teresa. Era immobile. Nell’aula il più completo silenzio. I miei movimenti erano come al rallentatore. Per non eccitarmi ripensai al paragrafo della nonna:

Avevo dodici anni. Madre venne in soggiorno e mi mise una mano dietro la nuca. Non parlava. Spostai lo sguardo dalla televisione ai suoi occhi. Mi disse: «È morta nonna». Non reagii. Madre deve aver pensato non riuscissi a comprendere il senso di quelle parole. «Vuoi vederla?» mi chiese.

«Sì, madre».

«Vieni». Madre mi prese per mano. Salimmo le scale ed entrammo nella stanza dei nonni, che da anni era solo di nonna. Le finestre erano spalancate. Nonna sembrava serena, distinta. L’esatto contrario di quando mi picchiava col battipanni. Aveva i palmi delle mani rivolti verso l’alto, come se aspettasse di essere assunta al cielo. La maglia che indossava era in disordine. Aveva provato a tirarsi su dal letto prima di morire? Abbassai lo sguardo e vidi l’ombelico scoperto. In quel momento compresi che nonna era morta. Madre mi guardava, si accorse dell’ombelico e con discrezione sistemò la maglia di nonna.

Quella fu la notte della mia prima polluzione notturna. ⁴

I nostri ombelichi erano prossimi a toccarsi. Teresa mi guardò. Di nuovo provai una sensazione di elettricità. Mi venne la pelle d’oca e i nostri ombelichi finalmente si sfiorarono. Gli occhi dell’uno puntati verso quelli dell’altra. Spaventati ma allo stesso tempo euforici, ci girammo nello stesso momento a guardare Vanitosi. Sorrideva soddisfatto.

 

Le lezioni successive furono un crescendo di difficoltà. Vanitosi metteva a dura prova la nostra integrità. Il suo metodo procedeva per sfide: da un banale braccio di ferro che doveva rappresentare quello col lettore; passando per il doloroso camminare su puntine da disegno, a quanto pare una riproduzione della sfida nel terreno minato dello svolgersi della trama; fino all’orwelliano rapportarsi con le proprie paure (io, che soffro di vertigini, dovetti sporgermi dall’ultimo piano di un edificio, Teresa, claustrofobica, fu chiusa in uno sgabuzzino). A volte queste interessavano la nostra psiche: ci insultava, si prendeva gioco di noi; ci faceva spogliare, dovevamo descrivere con sincerità il corpo dell’altro; faceva di tutto per farci vergognare. «Dovete provare emozioni forti! Emozioni vere!» ci urlava, ma non lo faceva per giustificarsi di nulla: Vanitosi credeva realmente al suo metodo. E noi con lui. D’altronde era il nostro mito. Forse Teresa era ancora più fissata di me (citava a memoria anche i passi più oscuri di Abitorio, soprattutto quelli riguardanti la sua omonima). Per questo non riuscivamo a ribellarci; sì, capitava che titubassimo, che dubitassimo, ma a Vanitosi non eravamo capaci di dire no. E poi la sera tornavamo a casa e scrivevamo e scrivevamo. Scrivevamo come non mai: le sue lezioni funzionavano.

 

Ci dava anche dei compiti.

«Rubare?»

«Avete capito bene: rubare».

«Rubare cosa?»

«Qualsiasi cosa. Inizierei con qualcosa di piccolo: entrate in un supermercato e nascondetevi sotto la felpa un succo, una barretta, due banane».

«Rubare due banane al supermercato?»

«Anche due arance vanno bene. Poi col passare del tempo i vostri furti cresceranno in numero e in difficoltà».

E così era stato. Dopo la quinta lezione io e Teresa ci eravamo dovuti trovare davanti a un alimentari gestito da un pakistano. Indossati i passamontagna e impugnata la pistola finta che la settimana precedente avevamo dovuto rubare in un negozio di giocattoli, ci portammo via 73 euro e una bottiglia di tequila. Scappammo di corsa verso casa di Teresa. Quella sera, ubriachi, facemmo l’amore per la prima volta. Lei stava ferma immobile sotto di me. Come quando i nostri ombelichi si erano sfiorati. A un certo punto mi parve di sentirle pronunciare il nome Ernesto.

Non amavo che i corpi. Non amavo che il silenzio. Non amavo che l’assenza di vita, la solitudine e l’isolamento. Io che avevo odiato la mia vita: avevo odiato il mio essere diverso, odiato nonna che mi picchiava, odiato madre e la sua depressione, odiato i miei studi. Avevo pianto le notti sui libri solo per poter lavorare un giorno in obitorio. Avevo odiato la mia debolezza: odiato non essere in grado di uccidere. Odiato me stesso. Ma ora avevo i corpi. Vivevo il sogno. Amavo la vita e amavo la morte. ⁵

Ero ormai innamorato di Teresa. Era destino succedesse: galeotto fu l’Abitorio e chi lo scrisse.

Per l’ultima lezione Vanitosi aveva preparato due fantocci dalle fattezze simili alle nostre e che rappresentavano i noi di sei mesi prima (tanto era durato il corso): nostro compito era simularne l’uccisione. Quel giorno ero teso: «Maestro, io volevo dirle» balbettai «sì, ecco, io volevo ringraziarla» scoppiai a piangere «per tutto quello che ha fatto per noi!»

Vanitosi mi si avvicinò, mi diede una pacca sulla spalla: «Non chiamarmi maestro, sai che puoi chiamarmi Ernesto» ormai ci dava del tu «siete cresciuti molto» guardò prima me e poi Teresa, come un padre guarda i propri figli «avete sofferto, avete urlato di paura, avete rubato: sono fiero di voi» infine ci ingiunse «su avanti, diventate scrittori: uccidetevi!»

Presi il coltello da cucina che ci aveva consegnato all’inizio della lezione e sorridendo colpii al cuore il fantoccio, scavando a fondo fino a trapassare per intero il corpo. Ero uno scrittore?

«Teresa!» l’urlo di Vanitosi interruppe i miei pensieri. Mi voltai.

Teresa aveva il coltello puntato alla giugulare, tremava: «Sono Teresa, maestro! Sono Teresa, Ernesto! Puoi avermi come mi hai sempre voluta: ama il mio corpo morto». Si tagliò la carotide prima che io o Vanitosi potessimo intervenire. In pochi secondi era morta. Teresa, la donna di cui mi ero innamorato.

Calò il silenzio. Vanitosi si staccò dal corpo di Teresa e mi fissò atterrito: «Autofiction personaggi rubare fiero io io io colpa i lettori immedesi…» straparlava. Mi prese per le spalle, con gli occhi sbarrati, sotto shock: «Non scrivere mai in prima persona, volevi la tua lezione di scrittura? Eccotela: usa un narratore onnisciente eterodiegetico del cazzo!»

«Tu l’hai uccisa!» stringevo ancora il coltello nella mano destra «Il tuo libro l’ha uccisa!» Fu al terzo affondo che sentii di essere diventato davvero uno scrittore. Il corso era riuscito nel suo intento! Nella mia testa vorticava come un ciclone l’explicit post-anti-apocalittico dell’Abitorio:

L’umanità ha ormai sconfitto la morte. Teresa! Teresa ha sconfitto la morte. E io vivrò un eterno incubo. Siamo tutti vivi come non mai. Ma io mi sento morto. ⁶

¹ Vanitosi, 2001, 9.
² Ivi, 247.
³
Ivi, 458.
⁴ Ivi, 625.
⁵ Ivi, 999.
⁶ Ivi, 1521.


Immagine generata con DALL-E
“the feet of a boy and a girl walk on sharp thumbtacks, oil painting”