La cavalletta

Tra poco più di un mese molto probabilmente Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, gran maestra dei fascisti, diventerà presidente del Consiglio. Io non sono pronto, eppure il fascismo oggi si è colorato nella mia mente di un lato meno animalesco, meno minaccioso del solito.

Oggi, appunto, è Ferragosto, la festa peggiore di tutte, e io non ho idea di cosa fare. Così, chiamo il Cippo, non lo vedo da mesi, e lo trovo disoccupato. Ci diciamo che un pranzo in provincia, senza pretese, sarebbe ottimale. In due minuti ci organizziamo. Il passaggio più difficile è trovare un luogo che sia aperto e non al completo; la mia scelta ricade sul ristorante più nero di tutta la zona. Io lo so e non vorrei mai, ma ho fame. Così Cippo si presenta da me ed è subito una gran giostra di parole e minchiate, siamo nel flow giusto, se fumassi ancora oggi fumerei trenta paglie. Passa di qui, a Palata Pepoli, poi si va assieme, e mia madre ha il tempo di guadagnarsi l’appellativo di anticlericale e questa è una cosa che mi fa molto piacere, viva Mazzini e Garibaldi di cui poi parleremo io e Cippo più tardi, sostenendo che il Risorgimento è molto più cazzuto della Rivoluzione francese favorita da una letteratura adorante.

Ci mettiamo in macchina. Nel viaggio ascoltiamo canzoni autocelebrative, è il rap e l’importanza di questo genere per il 2022 è davvero sottovalutata, io mi rendo conto che molte fibre del mio animo scoppiato e scoppiettante sono state instaurate proprio da Inoki, Guè, Ghemon, Kanye West, Kendrick Lamar. Non ci avevo mai pensato, ma alla fine è stata davvero la mia emancipazione di ragazzo letterato altrimenti condannato a chiedermi se mi si noti di più se vado o non vado a una festa. 

Il tragitto è breve e finiamo al Borgo del Panaro, io non volevo andarci e mi ricordo subito il motivo: aforismi di Mussolini, diapositive di Almirante e memorabilia del Ventennio in ogni angolo dell’ingresso. Stranamente, non bestemmio. Io e Cippo ci guardiamo e diciamo che figata, guarda ‘sti fasci maledetti, non muoiono mai, una volta facevano paura e adesso fanno folklore.

Il posto è davvero bellino, siamo nella pura periferia dell’impero con grandi spazi e gente conficcata nel suolo paludoso da decenni, ci sono tanti vecchi e godo, mi piace non perdere il contatto con lo spirito del tempo di questo luogo sprofondato e fulgente. Bene bene, ci sediamo e parliamo di scuola e università, le solite puttane dello Stato stuprate dall’incedere dei tempi, poi decidiamo di prenderci tortelloni e tortellini, che si riveleranno della madonna, mentre apriamo il topic principale della giornata: 

«Adesso parliamo di cose serie» dice il Cippo.

Donne, donne, cosa può esserci di più serio. Cippo perfeziona la teoria che mi ha espresso qualche mese fa, sostenendo che lui non è più uno da relazioni stabili, ha imparato a divertirsi e divertire senza soffrire di cristianesimi vari, e lo vedo fresco come una bocca di leone in aprile. Dice che ha una ragazza principale, più o meno, che lei è a conoscenza della sua infedeltà e questa cosa va bene a tutti, così penso che l’Italia alla fine è un po’ più olandese e meno terrona di quanto pensassi. Spiega che è ora di finirla con la vita da monaco stilita, alle donne piace l’uomo spregiudicato: vecchia storia, ma la esprime con un’esattezza verbale e teatrale che convincerebbe anche Sant’Agostino. Una bottiglia di ottimo Tirelli aiuta, il Montenegro successivo ancora di più. Armando, il proprietario fascio, in realtà è incredibilmente simpatico e mi manda a fare delle pugnette quando alle quattro e mezza circa gli chiedo il secondo giro di amari. Mi sento a casa, questa è la provincia cagna che mi piace.

Paghiamo il conto e decidiamo di inaugurare un giro di bettole. Ci sono al massimo tre bar aperti nel raggio di dieci chilometri, il primo per sette euro totali ci sgancia due barili di nocino e Amaro del Capo che ci fanno stralunare. Il nostro sguardo oscilla come il calore sull’asfalto e Cippo si decide a scaricare Tinder, dice di preferire l’approccio diretto, però tutto fa brodo e inizia a passare in rassegna tutte le povere ragazze che hanno avuto la sventura di nascere qui. Siamo obliqui ormai, e decidiamo di scavallare provincia, andiamo a Cento, terra natìa, e ogni volta che ci entro mi sembra di far breccia in una balera con la musica spenta. Ci sediamo in un baretto borghese e sdrucito, si vede sottotraccia lo sfibramento degli animi consunti dall’afa dell’essere, le ragazze sono vestite fuori contesto e gli uomini non sono a proprio agio con una polo, figurarsi una camicia. Andiamo di birretta, io la prendo piccola perché guido e il sole si sta allettando, Cippo media. Siamo lucidissimi e stanchissimi, Cippo intavola ancora il discorso donne e io mi chiedo se, a mia insaputa, io sia il ragazzo ideale di qualcuna, quel tipo di profilo da sconvolgere la vita e sciabordare i piani di una fanciulla, perbene o permale, da farti sentire forte, potente. Non sarebbe mica spiacevole, soprattutto per chi, come me, ha passato molta della sua vita da subordinato – tanto per colpe mie quanto altrui –, ho dovuto ascoltare tonnellate di musica da supermaschio e credere a cose verissime come «Pick me last again», Isaiah Thomas e l’NBA che non seguo, però è verissimo, sono io, fammi fuori e mi ritrovi all’uscita con i muscoli grossi il triplo, non ho più paura. Cippo continua a parlare e mi fa proprio piacere averlo ritrovato, ho tante persone cui voglio bene e non voglio perderle mai, no, a costo di essere un varnizzo, come dice mia nonna, uomo solo tra uomini soli ma accompagnati.

Sono quasi le 21 e ci facciamo una staffetta in centro, da Piazzale Bonzagni alla Rocca illuminata fascistamente del tricolore; Cippo ridimensiona e dice che secondo lui non trattasi di fascismo, è solo la forza obesa della provincia, illuminare a quel modo è la cosa più periferica che si possa fare a una Rocca, appunto, alla fine fascismo e provincia sono la stessa cosa e un giorno allo specchio scoprirò di essere fascista anche io.

Passiamo di fronte alla Partecipanza agraria, vecchio istituto di solidarietà rurale, faccio una foto perché è una cosa contadinissima che mi ricorda mio nonno; il fatto è che questa esternazione identitaria esclusiva di un certo raggio di ettari tra Cento e Renazzo sta di fianco a ciò che di più internazionale ha il mio comune patrio, ossia la pinacoteca con i capolavori del Guercino.

Penso: guarda che figli di puttana che siamo, avremmo potuto essere Milano e invece siamo degli stronzi che fanno un giro per comprare un chilo di gelato alla sera pur di non stare per una mezz’oretta a casa con la moglie. Inforchiamo la macchina e torniamo a Palata Pepoli, terra di sogni randagi.

Scendiamo e ci salutiamo, casa mia è sempre stata una repubblica marinara dove la gente passa e piange, gode, ride e s’ingozza, Cippo mi abbraccia ed è un bell’abbraccio, parliamo ancora un attimo di donne e Cippo se ne torna verso le terre tondelliane di Carpi e Correggio. Resto un attimo in giardino, accarezzo la tomba di Brigitta, la mia gatta, vestigia di un certo tipo di vita incredibilmente atopico e assoluto di cui non è rimasta una sola briciola. Sfrigolo un pianto gonfio e minuscolo, e mi appresto a rientrare in casa. Guardo una grossa cavalletta avvinghiata alla porosità della facciata, forse è lì da ore, e mi sento così: pronto a saltare, incredibilmente saltare, facendomi leva di questa provincia senza voce e solerte ad azzardare la testa fuori dalle finestre solo se muore qualcuno; pronto a saltare, incredibilmente saltare, e portare scandalo in città.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio futurista che ritrae una cavalletta pronta a saltare attaccata alla facciata di una casa”