Il Gaucho

La prima cosa che Lanza, appena arrivato al convitto, aveva preso dalla valigia, era stata un rotolo di nastro adesivo. Poi aveva sfilato la busta di plastica che conteneva i documenti e i contratti, firmati da lui e dai genitori, sparsi sul letto fino a scovare una foto di Ronaldinho in formato A4, sgranata e dai colori troppo saturi. L’aveva affissa sopra alla testiera, salendo sul materasso con ancora le scarpe addosso perché sì, aveva sedici anni, era un professionista, e sperava ancora di crescere qualche centimetro. Alvise l’aveva beccato così, quando aveva aperto la porta e l’aveva fatto cadere di schiena per lo spavento: a sorridere al Gaucho, indice al cielo e maglia blaugrana.

«Mbappé. Il più forte, n’c’è paragone»
«Te capisci un cazzo, è solo un viziato»
«Ecco Lanza che deve dire la sua. A proposito, giochi? Che ha detto il mister?»
«Che vòi che gli abbia detto. Li hai fatti novanta minuti da inizio stagione?»
«Ma vaffanculo, oh».
Lanza rinuncia a un biscotto per lanciarlo contro Franchin, o Sutera, dall’altra parte del tavolo. Manca entrambi. Stanno facendo colazione, è sabato, sono le sette del mattino, hanno tutti addosso magliette bianche e pantaloncini, anche se è ottobre inoltrato e il riscaldamento è spento. Hanno adrenalina da smaltire, si schiaffeggiano le scapole, il coppino, si prendono per il culo. Sutera raccoglie il biscotto da terra e lo sgranocchia a bocca aperta.
«Vabbè, quindi che fai oggi? Vedi Giulia?»
«Camilla».
Lanza prende un altro biscotto dal sacchetto, semisdraiato, i piedi allungati su una sedia vicina. Franchin gli molla una gomitata.
«Che fine ha fatto Giulia?»
«Non le ho più risposto».
Alvise, il loro tutor, che si era tenuto ai margini degli insulti e non era intervenuto, si alza e requisisce il sacchetto di biscotti, non prima di averne pescato uno per sé. A differenza dei ragazzi, parla prima di infilarlo in bocca.
«Perché? Dicevi che ti piaceva»
«Infatti»
«E quindi?»
«Niente, Alvi, le donne se non le tieni sulle spine ti dimenticano e si trovano un altro. Così esco con Camilla e a Giulia dico che ero impegnato. Mi farò perdonare».
Sorride e si volta verso Alvise, inforcando la lingua tra indice e medio. I ragazzi ridono e tirano calci alle gambe della sedia di Lanza, cercando di disarcionarlo, ricordandogli quanto è scarso in campo e che devono andare, hanno da fare la rifinitura, la fisioterapia, una doccia. In cinque minuti rimane solo con Alvise, che sta sparecchiando il casino che hanno lasciato.
«Alvi»
«Sì?»

«Dovresti fare così anche tu con le donne. L’ultima ti ha mollato con una scusa stupida» «Io non ci riesco, Lanza. Non ho proprio il cuore». «Non è questione di cuore, è per scopare. O vuoi la storia seria?» «Mi basterebbe scopare». Alvise ride, ma Lanza rimane serio, arruffato e puzzolente di sonno e sudore. Ha ancora briciole di biscotto appiccicate agli angoli delle labbra. «Allora il cuore un po’ te lo devi levare, Alvi».

Nell’ultimo anno Ronaldinho ha vegliato sulle scopate di Lanza, sorridente e incoraggiante, immobile con l’indice al cielo e la maglia blaugrana. Le ragazze non hanno mai fatto domande, a stento si sono accorte che ci fosse qualcosa appeso sopra al letto. Se la sua carriera in attacco declinava e non lasciava quasi mai la panchina, il suo altro talento, benedetto proprio dal Gaucho, grande sterminatore di modelle, era diventato leggenda nel vicino istituto professionale a indirizzo turistico e spesso le ragazze sceglievano di aspettare l’autobus sotto al convitto, pur di intercettare i calciatori, Lanza in particolare. Il successo gli permetteva di scegliere e quando si era stancato di un dettaglio estetico – gli occhi verdi, azzurri, neri, i seni minuti o gonfi, le gambe lunghe, tornite, affusolate – aveva cercato l’eccesso, l’entusiasta che se l’era fatto in auto e in pieno giorno, la famelica dell’eiaculazione, la timida insaziabile, la vestale in intimo vinilico.

Ora, solo sul materasso, vestito e pronto per uscire, si domanda se il calore di quelle cosce contro le sue basterà a coprire la delusione di essere andato lontano da casa per fallire e come giustificherà ai suoi e a sé stesso di aver sprecato l’occasione di una vita, quando verrà dato in prestito a una squadra minore. Più si ripete che ha ancora tempo, più il Gaucho, sopra la sua testa, scolorisce.

A Lanza ogni tanto viene voglia di piangere. 
L’unico a saperlo è Alvise, che ha giurato di capire come si sente e lui ci crede perché è un tipo silenzioso, diverso dai suoi compagni di squadra: è uno che studia, uno che pensa. Sfigato con le donne, deve imparare – se fossero coetanei ci avrebbe pensato lui, gli avrebbe cercato una di quelle romantiche, che copiano le poesie dai libri di scuola, un po’ appiccicose ma disposte a prenderlo in bocca, se convinte con le buone. Sì, ad Alvise servirebbe una ragazza così, ma a trent’anni, dice, sono tutte sposate o pazze. O, aggiunge Lanza, vanno con quelli della Primavera.

Alvise ha imparato a sopprimere la solitudine circondandosi di ragazzini, annullando con le loro voci quella nella testa, che lo avrebbe tormentato con l’elenco dei suoi presunti malfunzionamenti: single, precario, introverso; anche all’università si occupa di ragazzini, li segue in laboratorio e risponde alle mail nel weekend.

Amici e colleghi dicono che è un santo e lui si domanda perché le alternative concesse dal destino debbano proprio vertere sull’ascetismo, costringendolo tra la santità e l’eremitaggio. Prima o poi si sarebbe stancato di caricarsi di tutta quella gentilezza. C’era sempre qualcuno pronto ad approfittarne e una parte di lui vorrebbe, un giorno, scendere dal letto col piede sinistro e rivoltare la sua personalità nel simmetrico opposto, mettendo nei guai gli aspiranti ricercatori e i campioni di calcio.

Lanza, ad esempio, che dopo la colazione era sparito e non si era degnato di rispondere al telefono al responsabile del convitto, Michele, passato per il solito giro di ricognizione, era il primo della lista. Gli sta telefonando per la quarta volta, quando finalmente risponde.
«Dove sei»
«Con Camilla»
«C’è Michele che ti cerca»
«Ho visto le chiamate, ma sto in giro»
«In giro dove?»
«A Roma»
«Mi prendi per il culo»
«Però torno, eh, alle otto sto in stazione. Riesci a coprirmi? Racconta una cazzata a Michele, per favore. E pure agli altri, ché non ho detto niente a nessuno»
«Tu mi vuoi morto»
«Sei il migliore».
Riattacca. Si sente capace di diventare quello che non è mai stato, senza scrupoli e forse più giusto, più interessato a mantenere il suo lavoro che a proteggere la fuga d’amore di un adolescente. Che importa a lui se Lanza viene cacciato, rispedito nel suo paesetto calabrese di quaranta abitanti, segnando la fine della sua carriera? Alvise prende la borsa della palestra ed esce dal convitto. Nella tasca, sente il cellulare vibrare e lo sfila, pensando alla sua ultima ragazza, che l’aveva mollato con quella scusa idiota, un’improvvisa piena di emozioni che non sapeva gestire, il bisogno di riflettere su sé stessa prima di… Ma è solo Lanza. Gli ha mandato una foto, una di quelle a singola visualizzazione. La apre.
Alvise bestemmia, spegne il telefono e accelera il passo. Maledetto Lanza.

«Sei andato dalla tipa, ci sei rimasto tutto il pomeriggio e hai dimenticato il cellulare da lei. Così sei dovuto tornare a prenderlo, ti sei incasinato con l’autobus e sono venuto a recuperarti. Intesi?»
Lanza, stanco, ancora più appestato di sudore che dopo gli allenamenti, lo abbraccia. Alvise lo lascia fare. L’ha prelevato in stazione e spinto in camera sua per istruirlo sulla versione dei fatti. A quel punto dovrebbero sciogliere la tensione aprendo una birra, ma uno è minorenne e l’altro astemio.
«Chiama Michele e sii convincente»
«E se non mi crede?»
«A Natale facciamo l’albero insieme, Lanza. Sotto un ponte, io e te»
«Figo»
«Vaffanculo».
Si alza in piedi e impugna la maniglia, pronto ad andarsene. 
«Alvi, non puoi capire, era bellissima»
«Ho visto».

Capisce che non sarà mai quello che vorrebbe essere, più giusto e più egoista. Il sorriso sciupato del ragazzino gli impedisce di uscire sbattendo la porta e di urlare come un adulto qualsiasi. Forse il problema è suo: non crescerà mai, come Lanza non arriverà a superare il metro e ottanta. Deve ancora mettersi in piedi sul letto per arrivare al punto dove ha affisso la foto del Gaucho, che stacca con cura, attento a non strappare i bordi.

«Tieni»
«Perché?»
Salta giù, rimettendosi seduto. Puzza. Ha un buco nei calzini. Alvise è pronto a scommettere che Camilla non se n’è accorta.
«Mi ha portato bene con le donne. Io adesso sto a posto, ne ho tante».
Gli dà una pacca sulla spalla. Alvise ricambia, più forte. Il minimo di prepotenza che si concede, col Gaucho sorridente tra le mani, attento a non stropicciarlo. Non prova a restituirglielo.
«Ora però devi pensare al pallone».
Lanza alza il mento, gli occhi al rettangolo sbiancato sopra al letto.
«Sì, ora devo proprio pensare al pallone».

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un poster di Ronaldinho con la maglia del barcellona; il poster è appeso sopra ad un letto”