
I tuoi capelli dappertutto
Ecco come sei. Di tutte le cose che potevi lasciare qui e che invece hai rubato con le tue dita sottili smaltate di nero, dita che hai infilato in ogni nascondiglio della casa, in fondo a tutti gli scaffali, ai cassetti e ai buchi che sei riuscita a trovare, di tutte le cose, hai deciso di lasciarmi un mucchio di capelli. Insignificanti capelli castani.
Miliardi di peli sottili che un tempo ricoprivano la tua testa deforme. Ne ho trovato uno, l’altra sera, incastrato nella puntina del giradischi. Immaginami come sono quando sono tra la gente, silenziosa e pallida, concentrata a tenere dentro la pancia e a fare sì con la testa.
Ho dato una festa e ho invitato tutti, i miei amici e i tuoi, e anche altri si sono imbucati, così la casa era di nuovo piena di fumo e aliti nauseanti. Immaginami in mezzo alla mia festa, mentre sfilo Karen Dalton con fare cerimonioso dalla custodia. La cassa inizia a fare “pum, pum”, il suono si inceppa, la voce gracchia e io vedo il tuo lungo capello che si attorciglia su sé stesso. La festa è rovinata. Piccola ladra calva.
«Alice, come fai a non conoscere Karen Dalton?» hai detto sbattendomi il disco davanti al naso.
Io ho alzato le spalle.
«Che musica ascoltavi lassù, nelle tane dei lupi?»
«È così famosa?»
Dalla tua bocca è uscito uno sbuffo di disapprovazione.
«No. Ma tu non conosci mai nessuno».
Hai riso e poi sei tornata a passare in rassegna gli album nell’espositore.
Ho infilato le dita nello scarico della doccia e ho tirato su un groviglio viscido. I miei capelli biondi annodati ai tuoi, scoloriti e con le punte ancora verdi. Li ho buttati nel water e, tirando lo sciacquone, li ho visti danzare in tondo e poi venire risucchiati giù, nelle tubature incrostate da altri tuoi pezzetti. Pelle, unghie, bile e cellule di ogni tipo.
«A cosa pensi, Alice?»
Ti ho ignorata, intenta com’ero a trapiantare le fragole sul balcone.
A migliaia sono caduti tra le assi di legno della camera da letto. Li vedo dall’alto, facendo luce con la torcia. Filamenti sotterranei impossibili da estirpare. Sei il micelio delle solette.
«A volte penso che parlare con te sia utile come parlarmi da sola allo specchio» hai detto.
«Nemmeno» ho risposto, senza alzare lo sguardo, spingendo delicatamente una piantina nel suo nuovo buco e coprendo le minuscole radici con la terra. «Io non rispondo ai tuoi comandi».
Ci hai pensato un po’ su.
«Io credo di sì» ti sei alzata dalla sedia della cucina e ti sei fermata sull’uscio della porta finestra. «Tu sei come quelle formiche infette che vengono comandate dai funghi».
A piedi nudi hai attraversato il balcone e ti sei accovacciata dietro di me, calpestando il terriccio sabbioso sparso qua e là sulle piastrelle. Hai appoggiato la fronte alla mia schiena e hai cominciato a baciarmi seguendo le vertebre della mia spina dorsale ricurva.
Fuori c’era il temporale e tu sei entrata urlando.
«Così sarà la nostra serata: gin e biscotti!»
Avevi il vestito zuppo e le gocce che dai capelli ti cadevano sulle spalle.
«Mi hai sentito?»
Mi hai cercata in salotto, in bagno, sul terrazzo. Mi hai trovata rannicchiata su uno sgabello, dalla finestra osservavo la pioggia battere forte sui frutti maturi. «Perché non rispondi?» Ti ho guardata senza dire niente. Ha piovuto per una settimana.
Hai portato via i libri, le sedie, i poster e l’asciugacapelli. Le grappe, le conserve, le spezie, i posacenere.
Hai portato via le posate, e io ho cominciato a mangiare con le mani. Sto seduta sul bancone della cucina, pesco le penne al sugo con due dita e con la lingua faccio la scarpetta.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio in stile dadaista che ritrae un capello lungo incastrato in una puntina di un giradischi”