GRAZIE

I

[…] Ma in particolare, colpisce per tenerezza, per acuta capacità di coinvolgimento e candore (che non è ingenuità) il minuscolo atto performativo di Carlotta Crespino, piemontese, classe 2001, dal titolo “Tu che passi di qua, eccomi”.

Sola in scena, ammantata di un velo trasparente di un verde simile a quello che spicca i soggetti delle opere alle sue spalle (la fascia di seta che cinge il cappello della bella incantata di “Sogni” di Vittorio Corcos, il drappo di “Luisa Sanfelice in carcere” del Toma, le “Mele” di Casorati), sta in una scrittura non irreggimentabile, libera della libertà concessa dalla brevità e sostenuta da un ininterrotto contatto con gli spettatori, a cui si avvicina e che coinvolge in atomi di co-performatività. Il lavoro fa uso di musiche sapientemente elaborate tra le più morbide e sognanti, increspate da tenui rumori di campagna primaverile, si direbbe macchiaiola; ricostruisce posture, corre alla ricerca, con un piccolo vaso di vetro, come per attingervi, di altri verdi attorno; rivela, oltre la tralucenza del materiale, la qualità fisica del vasetto, grattandolo sulla scabrosa superficie del muro, vi si poggia con il suo corpo piccolo e commovente, continua a danzare da ferma, soltanto con un occhio che sporge da un angolo del braccio, si scopre una spalla come una piccola Diana, distillando con tutto ciò un senso di adesione pungente, come davanti a qualcosa di molto piccolo e molto vero.

 

II

«Ciao»

«Ciao…»

«Carlotta. Crespino. Alla Galleria d’Arte Moderna, la performance, la recensione…»

«Carlotta. Ma sì, certo! È passato… quanto?»

«Dalla performance? Allora… era a novembre»

«E ora siamo a luglio. Quasi un anno. Nove mesi».

La camminata sta per cominciare. La fontana nel piccolo giardino dove è stato dato appuntamento al gruppo è contornata dalle tradizionali tartarughe di bronzo, cinque o sette, comunque in numero dispari. Dalle rocce su cui stanno appisolate o in osservazione (una alza la testa, l’altra è solo guscio, una addenta un pesciolino guizzante, eccetera), scende un leggero filo nel verde della vasca. Al centro, sopra un grumo di grottesca più elevato, un uccello che oggi, dopo tutto quello che è successo, sono in grado di identificare come un pellicano.

«Beh, comunque grazie. Grazie, grazie ancora. Della recensione a “Tu che passi”, dico. È stata l’unica, anche se mi vergogno un po’ a dirlo»

«Non c’è da vergognarsi. Grazie a te. Sei stata la prima a cominciare, diciamo, con il regalo di quei dieci minuti. Ogni tanto ci penso»

«Sì?»

«Sì».

 

«È incredibile. È bello sapere che ci sono delle parole messe insieme per te. Solo per te. Che prima non esistevano. Questo volevo dirti. Forse…»

«Cosa?»

«Niente»

«Va bene. Comunque grazie. Non l’avevo mai vista così». 

Dal becco del pellicano stilla goccia a goccia l’acqua e, sotto, un puttino la riceve nel cavo delle mani, da cui pende qualche bava di muschio. Sono mani che si protendono, avide e insieme graziose: un gruppo di piccioni in modo curiosamente ordinato fa la fila per inzuppare il becco in quella conca, e il bambino di bronzo sorride per quel solletico di zampe.

Un piccione della fila scivola, scomposto, verso la vasca, ma gli basta un frullo d’ali più maschietto per riprendersi la dignità pericolante, di cui peraltro non gli frega niente, lui è già lontano tra i platani, quasi pulito, quasi bello.

Il gruppo si è composto, il capofila dà il via alla camminata. 

 

Passiamo vicoli, muri trascurati, ammuffiti del centro, acciottolati tirati a lucido e altri insudiciati dal guano. Gli attori fanno il loro ingresso, giocano il loro copione, ma li vedo appena. Poi attraversiamo della sterpaglia e ci troviamo lungo un binario abbandonato, la vecchia ferrovia vicinale in disuso. La guida davanti a noi ci ha distanziati di qualche metro, Carlotta sceglie di salire sul metallo, come fosse una trave da ginnasta. Ha la suola del sandalo un po’ sottile, forse consumata, liscia: cammina in equilibrio, ma il piede è preda di un tremore. Salgo anch’io, gioco alla stessa cosa, come alla ricreazione alla materna.

La seguo, ma non voglio che lo sappia. Metto i piedi sulla sua impronta. Ora la suola le scivola davvero, è costretta a mettere giù il piede. Risale e intanto è arrivata istintiva, ma in ritardo, soccorrevole, la mia mano sotto il suo gomito, come al bambino che perde l'equilibrio infiliamo premurosi l'ascella. «Grazie».

Ma continua a guardare davanti a sé, la sua nuca è all’altezza del mio petto e i capelli, per la prima volta ne sento l’odore. Sono ancora umidi, come quelli delle turiste la sera, per la cena, frettolose o selvagge, ansiose di esporsi a questa vecchia aria d’Europa che le asciuga. Su Carlotta lo shampoo è un dettaglio, si arrende all’odore della pelle. Nessun tatuaggio sul collo, nessun segno sugli orecchi purissimi, intatti.

Una tenue folata di vento ci sorprende alle spalle, lei la sfida, il piede più avanti quasi a tradimento retrocede invece di avanzare, e dopo aver caricato il colpo con la misura del gioco e (possibile?) del combattimento d’amore, la sua testa colpisce il mio sterno, facendolo risuonare. Nessuno lo sente, ma le macchine inchiodano davanti ai passaggi a livello impazziti, i cani torcono gli orecchi e uggiolano, un ciliegio tardivo si spacca nel fusto e fremendo si circonda di piccoli tonfi di frutti.

Poi nulla nel mondo si muove più, come per un ordine inesorabile impartito dall’alto. Tutto tace tranne il respiro. E un sussurro si addensa dal respiro stesso.

«Esisto grazie a te»

«Sì. E io grazie a te». 

Solo tu dai il fuoco a questo cenere / altrimenti inerte, tu velo al sole, / tu spina lieve che estratta si piega / amica. Sulla stessa riga, un passo ancora, la tocco col dorso delle mani sui fianchi. Non so che sguardo abbia negli occhi. Solo tu acino nella mia bocca. / Carlotta. 

 

La guida ci richiama, spaccando quel cristallo: dobbiamo seguirla, il gruppo si sta sgranando troppo, bisogna ricompattarlo. Un breve viottolo tra le case, ricomparse a destra e a sinistra, un alto muro di sassi attaccato dalle erbe pioniere, battuto pietra per pietra dal sole calante con una cura specifica per ogni materiale. Vi si apre un portale, ma di lì non si entra da nessuna parte, si esce in un nuovo fuori: su quelli che erano, un tempo, i bastioni della città, ora fanno gli orti urbani, in una striscia qui arruffata di sterpi, lì ordinata. Pomodori accoccolati gli uni sugli altri, a cavalcioni dei rami, monelli, zucchine pensose e sonnolente, insalatine lubriche e tronfi fegati rancorosi, anneriti, le grosse melanzane, porri e cipollotti spioni occhieggiano dalla terra. (Ma che dico?). Poi il viottolo si apre in uno slargo, qualche alberaccio dimenticato di pere, di nespole, di albicocche, ormai inselvatichiti, storti e bruciacchiati ma ancora puntuali al compito di fruttificare, lo testimoniano i resti feriti dagli uccelli. Siede a terra e io, pavido, faccio uguale, poco dietro. 

 

Non la guardo negli occhi da un’ora, ormai. Perché non mi hai scritto, dopo la recensione, se ha significato tanto per te? Sono sui social, che ci vuole a rintracciarmi? Naturalmente è impossibile non pensarlo, impossibile anche chiederlo, però. Perché lei poggia la mano a terra, c’è una pera caduta, piccola rocciosa. La porta alla bocca, addenta e subito sputa. I miei occhi vanno a quel bolo salato e rugginoso, ci restano, mentre davanti si è composto il panorama della città vecchia, in un tramonto che sembra un’alba sbiancata, qua e là punteggiata di colori ribelli, che non si lasciano slavare.

«La bellezza di questa cosa tu la vedi?» mi fa, sempre senza guardarmi.

«La città?»

«Il verde»

«Quale verde?»

«Guarda questo prato qui»

«Sì…»

«Ce l’hai negli occhi? Ora ricercalo laggiù. È praticamente dappertutto. Guarda quello spuntone oltre le mura. Guarda quel pennacchio di alberi laggiù e quell’altro là dietro»

«E quel balcone, con quella cascata di rampicanti»

«E le macchie sulle mura, devono essere piante di capperi»

«Sì, sono capperi. E sui tetti…»

«Non ce n’è uno senza un ciuffo d’erba dalle tegole»

«Dalle grondaie»

Si gira. I suoi occhi. Non avevo dubbi. Verdi. 

E nel catalogo immenso del mondo / voglia solo ho di te.

 

Mentre si alza e fa i primi passi, rapace agguanto quel morso brillante di verde saliva a terra, la pera immangiabile, ne faccio un sol boccone. Come il lupo.

Grazie.

 

III

Il palazzo giallastro a metà esatta di via Giulia, fai il nome al portiere, sali. La porta su è sempre aperta. Scalo le rampe fino all’attico. Entro nel mausoleo, nella catacomba aurea eppure oscura, nell’antro suo, la più grande critica di danza in Italia, firma marmorea del Giornalone-per-eccellenza, dedicataria di innumerevoli autobiografie (Béjart, Preljocaj fra gli altri), ex amante di *** e, si mormora, di *** quand’era già malata, sollievo suo ultimo. Oltre il cunicolo (cum mortuis in lingua mortua), e la cupa infilata di porte, ecco baluginare l’ultima, a vetri caramello, penosamente zigrinati. 

Sopra il tabacco, aleggia il tanfo della pelle acida dei vecchi. Cordoli bigi si arricciano attorno alle maniglie, agli interruttori, ai solchi nell’impiantito, spinti anno dopo anno da piedi e dita abitudinari.

Dischiudo i vetri con le nocche, un po' rispetto, un po' ribrezzo. Mi assale lo scirocco impazzito di un ventilatore alla massima velocità incastrato tra i cassettoni del soffitto. Sulla sedia a dondolo di paglia di Vienna c'è lei. I capelli, su cui si aggrappano i resti di una tintura gialla, svolazzano sopra il capo immobile, sul tavolo da pranzo uso scrivania, altri fogli in preda a convulsioni, ancorati da pietre e fossili enormi, da museo. Pur restando immobile, senza alzarsi, riesce a venirmi addosso, scaraventata da quel vento.

«Le hai viste le scale?» fa. 

Improvvisamente consapevole di quanto sto ansimando, quasi grido per sovrastare il fortunale: «Marina… sì»

«So’ tante, eh. L’hai sputati i pormoni a salicce quassù?»

«Eh sì, sì» ammetto. 

«Che c’hai là?» indicando con la testa il pacchetto che porto, e gli occhiali che tiene in cima alla fronte scivolano appena in avanti.

«Ah, niente, ti ho portato il mio romanzo, è uscito tre mesi fa, ti ci ho fatto una dedica»

«Pensavo cioccolatini. Lascialo lì, guarda fuori e poi godi davvero» e mi indica una finestra alla sua sinistra. Poggio il libro lì (non so dove), faccio i tre passi quasi risucchiato dal tifone, le sfilo accanto. Oltre i vetri ondulati, tremolanti per il traffico e gli eterni lavori pubblici, guardo.

«Il Tevere, Castel Sant’Angelo, San Pietro. A uno sputo. Capito perché resto qua?»

Prosaico il ritorno alla semioscurità, mi accorgo che sto camminando in retromarcia per riconquistare la posizione iniziale: mi cade l’occhio sui suoi piedi, intrappolati, raggruppati dentro ciabatte sdrucite. Piede diabetico, cubista; piaghe, tumefazioni, ulcere unite a un valgismo pronunciatissimo di entrambi gli alluci. Non riesco a non restare fisso lì sopra per un secondo di troppo. Il primo dito del piede sinistro si è arreso, si è incurvato per permettere all’alluce di accomodarglisi sotto.

«Artrite reumatoide, Ciccio»

«No, è… ma fa male?»

«Eh, no fa bene fa, un godimento, mmmh» e ride tutta di catarro. La sedia è squassata dai centochili almeno, sembra prendere la scuffia del tornado, quasi si solleva.

«Novantasei!» grida. Mi legge di nuovo nel pensiero inesorabile, ravviandosi i peli sulle tempie. 

«Me lo metti su un caffè o devo spostare tutto l’attrezzo qua?» allude a sé stessa, l’attrezzo, ruotando solo l’indice.

«Ma certo, non l’ho preso nemmeno io. Dove trovo la caffettiera?» 

In cucina armeggio con la moka bruciata, senza manico.

«Nun te permette de fà la conchetta!» e subito mi affanno a riempire il filtro a filo. Con un bip spegne la ventola. Solo ora faccio caso al rumore che faceva, da come svetta la schicchera del gas. Il silenzio nuovo è interrotto solo dalle vibrazioni della finestra e dal suo respiro costretto. Riscontro che a volte coincidono.

 

Risucchia il caffè. 

«Insomma?»

«Mah, come ti dicevo al telefono, il mio è un suggerimento, è che ho trovato quel lavoro, nel suo piccolo, per carità, stupefacente, ho creduto che anche tu…»

«Mh. Te la scopi da prima o da dopo?»

«Ma che…? Prima o dopo di che?»

«Della recensione che hai scritto, di che sennò? »

«Marina…»

«PRIMA O DOPO?» 

«…dopo» 

«Me lo devi giurà»

«Te lo giuro».

Rimane immobile. Ha messo un palmo aperto sugli occhi, si impedisce la vista per annusare meglio l’aria attorno, come una sensitiva o un carnivoro. 

«E io ti credo. Ma che ce guadagno, mica me la posso scopà pure io. Le scale, le hai viste quelle, no? Cinque piani senza ascensore, la sovrintendenza scassa il cazzo pure pe’ piantà un chiodo. Taxi, ambulanze, carrattrezzi, bisarche, manname quello che te pare, ma nun lo pòi capì quanto me ce vole pe’ ‘sti cinque piani. È un Golgota!» finisce gridando. Rimbomba il soffitto altissimo, tragico, sobbollente di cirro-cumuli sulfurei di nicotina.

«Secondo te, a me me ne frega davvero ancora qualcosa della danza? Uno dice: “i corpi in movimento”. Ma se nun me riesco manco a lavà i capelli da sola. Se devo annà in giro in ciavatte?».

Non capisco. Con un sospiro paziente, pedagogico, mi spiega.

«Er teatro de parola, Pirandello, Shakespeare, magari te lo godi cor cervello, cogli occhi, come un voyeur dei cazzi degli altri. Ma la danza? La danza la devi guardà cor corpo tuo, te la devi sentì cor corpo, ce devi aderì a quei corpi lì. Come la godo, se sto messa così? Guardami! Pure se me tocchi, se me dai un cazzotto, io nun sento più niente, è come se m'avessero incartato ner mollettone: me posso eccità pe' quattro fregnetti che zompano?».

Succhia la sigaretta fino al filtro, odore di copertoni.

«Ma io te capisco, non è che non ti capisco. Lo so che sei onesto, che la scopata è venuta dopo, no prima – e guarda che questo è un discrimine. Perché se te sei scopato qualcuno prima che l’hai visto sul palco è marchetta. Se te lo sei scopato dopo è poesia. È rendere grazie. E io nun è che non ce vojo sta’ dentro co’ tte, nella poesia. La sai l’etimologia di “grazie”?»

«Beh, non so, da gratias, mi viene da dire, “benevolenza”…»

«Googlalo. Vai sull’etimologico, quello vecchio, sur Pianigiani, sta tutto online in anastatica». 

Sposta indietro il peso sulla sedia a dondolo, quel tanto che basta per inclinarla, abbassare un braccio e infilarci sotto il mozzicone, poi torna in posizione e schiaccia la cicca.

«Ecco. Latino, gratiae, dal greco ecc. Così furono dette dai Greci le tre figlie di…»

«No, avanti, salta!» 

«Ok, ok. In principio le Grazie furono rappresentate da semplici pietre non lavorate…»

«Pietre non lavorate» ripete a occhi chiusi.

«… e poi in figura umana, vestite di un velo trasparente o affatto nude…»

Un colpo al cuore. Il velo trasparente. Magari verde. Nuda.

«… per indicare che la semplice natura soltanto e le grazie naturali sono amabili. Si fecero giovani perché la memoria dei benefizi non deve mai invecchiare, vergini perché i benefizi devono farsi con mire pure…»

«Con mire pure, Ciccio»

«…scevre di interesse, vivaci e snelle perché i benefizi non devono farsi lungamente aspettare, danzanti in giro…»

Pateticamente due lacrime si spremono fuori dagli occhi, scivolano sullo schermo. Carlotta vivace, la snella Carlotta danzante in giro, nuda, nel verde. Una pietra non lavorata, intatta. E io? Dove sono, ora? Che sto facendo?

«… danzanti in giro perché… perché i benefizi devono circolare e ritornare donde partirono, tenentesi finalmente per mano perché i benefizi reciproci soavemente stringono i legami dell’umana società».

«Poesia!» un ruggito dà la stura a un accesso di tosse.

Non riesco a dir nulla, tanto mi sobbalza il petto. Marina si riprende.

«Quanno viè a Roma?»

«Il…il 15. Al Vascone» emetto, in ginocchio, allo stremo.

«Diocane, er Vascone, co’ quelle poltrone demmerda. Me ce vengono le piaghe da decubbito dopo venti minuti».

Ma segue un rantolo, che è una sentenza.

«”I benefizi soavemente stringono i legami dell’umana società”. Ce vado!»

«Grazie Marina! Grazie»

«Va bene. Mo fammelo vede’» 

«Co-cosa?» sollevo lo sguardo da terra, ancora appannato.

Si fa scivolare con uno scatto del collo gli occhiali bisunti sul naso. Lo sguardo si annulla dietro le lenti ambrate.

«Il cazzo, cosa. Solo vedere, nun t’aggità. “I benefizi devono circolare e ritornare donde partirono”. Vie’ qua e abbassate i calzoni». 

 

IV

 

Consigliata da un amico, ieri al Vascone di Roma assisto a “Tu che passi di qua, eccomi”. Autrice e interprete la giovane, astuta Carlotta Crespino. A lei vanno riconosciute qualità tecniche ecc. Si tratta di una scena breve in origine, qui slungata al minimo sindacale dei 50 minuti, per fare serata. La fanciulla è stramba, seduttiva. Soprattutto con il suo corpo perfetto di ventenne, e per l’uso bamboleggiante di poveri oggetti di scena. La memoria di certa danza espressionista fatta di veli e postura antiaccademica, curva, di capezzoli, ampi giri di braccia, è mescolata agli aggiornamenti, forse inconsapevoli, della performatività tersicorea italiana degli ultimi trent’anni. Forse il primo, grezzo nucleo di questo lavoro poteva magari contenere qualche qualità nel coinvolgimento del pubblico. Qui il brodo è troppo lungo per mantenere un sapore purchessia. E sconclusionato è l’effetto.

Semplici le luci. Musiche minimaliste. Applausi cordiali. Un solo grido fulgido, patetico, si leva dalla platea: “grazie!”. Forse la cosa migliore della serata.

voto: **/*****

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae una ballerina vestita di veli verdi che balla sensualmente su un palco”