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Una nocciola batte contro la mia nuca e cade a terra. La nocciola, che ovviamente è di carta e ovviamente non è indirizzata a me, contiene la scritta Sei bellissima. La passo a Marta che arrossisce e saluta Marco facendo frusciare le dita nella sua direzione, novella reginetta. Arrossisco anch’io, ma per un altro motivo. Con i suoi amici agli ultimi banchi, Marco ride di me, orgoglioso di aver centrato il bersaglio. Rosicchio le unghie cercando di concentrarmi sulla prof, che sta spiegando il cubo del binomio. Con le mollettine che saltellano sui lunghi capelli ricci, si agita da un estremo all’altro della lavagna in preda a un raptus. Scarabocchia segni poco comprensibili sbriciolando il gessetto contro l’ardesia.
La fisso, quando si volta verso di noi ne seguo i movimenti della bocca, però non mi dicono niente. Il suono proviene attutito, come se una membrana invisibile ne filtrasse le parole, inducendo tutta la mia attenzione a concentrarsi su di me. Riconosco il ritmo del mio respiro, il modo in cui si incrina leggermente. Preferirei non essere qui.
Preferirei tornare a casa. La professoressa riprende a scrivere e la danza del gessetto genera una costante polverina bianca che nevica sul pavimento. «Allora, ragazzi» si appoggia alla cattedra, «Oggi è venerdì, questo significa che avete un finesettimana intero per rivedere questi concetti» le pupille, scavalcando la montatura degli occhiali, mi scrutano. Annuisco distrattamente. Assegna i compiti starnazzando qualche ultimo consiglio, ma nel frattempo suona la campanella e, nel fermento generale, tutti si alzano ignorandola. Durante la ricreazione, le ragazze formano un gruppetto vociante attorno a Marta, sghignazzano concitate. Mi faccio strada nel crocchio e penetro fino al cuore, dove lei esibisce con vanità una foto che a quanto pare ieri le ha mandato Marco. «Capirai…» provo a opporre resistenza, anche se allungo l’occhio con curiosità, «… come se fosse il primo sulla faccia della Terra ad avere dei mezzi addominali…». In realtà sappiamo tutte che il motivo dell’eccitazione generale non sono i muscoli, bensì quello che Marco ha voluto appositamente far intravedere sotto. Nell’immagine, con il pollice tiene abbassato l’elastico delle mutande scoprendo una fitta peluria corvina sotto cui è celato un rigonfiamento che sconfina fuori campo – quasi a comunicarne l’interminabilità. Lo vuoi?, aveva scritto sotto. Nel rileggere il messaggio davanti alle amiche, Marta ride con insistenza quasi isterica, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Le altre si spendono in complimenti ampollosi, mal celando la palese invidia. È ufficiale, Marta ha battuto tutte. Dal coro, una chiede: «E tu ancora non hai risposto?». «Per il momento solo un’emoji… Quella che si lecca i baffi» altra risatina eccitata, «Me lo sto lavorando bene…» tutte si scambiano sorrisi furbeschi. Amanda porta un dito sulle labbra e lo succhia strizzando l’occhio. «Hai capito, la zoccoletta» rispondo a Marta con un risolino canzonatorio. Lei mi guarda, tira su il sopracciglio: «Scusami?». «Sicuro pure tu gli hai inviato qualcosa. Che cringiata» nel circolo di ochette cala il gelo. «Che vuoi, deficiente» fa lei. Mi squadra indicandomi dall’alto in basso e aggiunge: «Se tu sei un cesso a pedali e non ti si incula nessuno, che vuoi da me?»
A pranzo rifiuto la pasta al ragù che mamma serve in tavola. Finalmente riesco a lamentarmi a tutta voce:
«Ma lo fai apposta? Te l’ho detto che la pasta non la voglio perché mi gonfia e tu la riproponi tutti i santi giorni. Tanto non te ne frega niente se tua figlia diventa una barca, vero?» percorro il tragitto che conduce in camera e sbatto la porta. «Ire, ma che dici? Non sei una barca! Ma chi ti mette in testa queste idee?» esclama dal corridoio, «Dai, esci! Va bene se non vuoi la pasta, domani facciamo qualcos’altro… Adesso però abbiamo questa, qualcosa devi mangiare, dai…» bussa ripetutamente in maniera agitata. Non capisci, non capisci, sussurro a ripetizione serrando forte le palpebre.
«Dai…»
«Basta! Non ho più fame!» urlo mentre infilo le cuffie. Rimane qualche secondo, poi sento le pantofole allontanarsi lungo il corridoio. Estraggo dallo zaino una delle barrette proteiche dimagranti che ho comprato al supermercato e alzo il volume di Massimo Pericolo nelle orecchie. Alla fine della traccia, guardando verso la porta, canto con lui voglio solo una vita decente.
Scrollando su Instagram, tra i post compare una Kim Kardashian infiocchettata di nero, una sorta di Minnie in dark mode. Scorro le immagini: lei che si guarda allo specchio, lei al camerino del trucco, borsette e cinture Chanel. Clicco sul suo nome per aprirne il profilo. Il feed è semplice ma d’effetto. Incappo in una bellissima immagine di lei in lingerie. Bionda, fissa noi dall’altra parte dello schermo con aria provocante, portando gli avambracci sulla testa. In questa posizione, quasi la immagino alle prese con un esercizio di stretching durante l’ora di pilates. Le tette sono due soli. Tonde, luminose, ben scolpite. Coperte da due triangolini di pelliccia sintetica, si ergono in un trionfo di carne pressata. Più giù, il tanga – anche lui triangolo peloso come un topolino – se la ride ironicamente. Nei commenti scrivo divina e aggiungo un cuoricino in fiamme. Metto il telefono in standby. Tiro giù la lampo della felpa, allargo con le dita i lembi della maglietta e del reggiseno, mi guardo un po’. Non sopporto queste mie proporzioni tra petto e pancia. Dovrebbero esserci due montagne che si affacciano su una pianura. Eppure mi sembra di avere tre larghe colline, con la pancia che si spinge quasi più avanti del petto. Richiudo tutto. Come Kim, porto le mani sulla testa. Ritiro la pancia, che però borbotta, si contorce. Rovisto nello zaino e arraffo un’altra barretta.
Riprendo a scrollare tra meme, reel e pubblicità. Nella sfilza di post che si succedono a cascata, uno attrae la mia attenzione più degli altri. Il mio dito, che per inerzia è già slittato al post successivo, retrocede. Si chiama Giada, è una mia coetanea che seguo ma non conosco. Avvolta dalle braccia di un ragazzo in camicia che la circonda da dietro, protende lo smartphone in alto per scattare un selfie allo specchio del bagno. Lui ha la testa rovesciata sul collo di lei, ne percorre la superficie con le labbra, scostando le ciocche di capelli mossi. Sulle labbra verniciate di lei, una smorfia di compiacimento, di soddisfazione. Mi guardo attorno nella mia stanza vuota. Scuoto la testa puntando al pavimento. Di scatto, esco da Instagram e spengo il telefono. Lo butto sul materasso e mi sdraio, abbraccio il cuscino. Il polpastrello pulsa, vorrebbe riprendere la sua attività. Lo mordo.
Massaggio un seno immaginando che, sdraiato dietro di me, ci sia Marco, con i suoi boxer abbassati, i ciuffi neri sul pube. Accarezza il mio capezzolo e mi inturgidisco. Sblocco di nuovo Instagram con l’impronta digitale. Cerco il profilo di Marco, che ho sempre ignorato. «Vediamo un po’ questo manzo».
In effetti, tra video di momenti catturati in palestra, foto in cui flexa i bicipiti o veste maglioncini firmati, ne esce un mosaico attraente. Indugio su questa foto in cui è in canottiera, una collanina d’oro. Immagino di scorrere i miei palmi su quelle spalle larghe, sfilare la canottiera, scivolare giù. «Ok, ok, basta così» mi ordino con un filo di voce. «Adesso chiudo, adesso chiudo. Basta». Prima di chiudere, però, il polpastrello pigia su Segui.
A colazione, mentre mangio il latte con le barchette Coco Pops, guardo Scooby-Doo su Italia 1. Il cucchiaio in una mano, il telefono nell’altra. Parte a tutto volume la pubblicità di Zootropolis, mamma si incanta davanti alla televisione. È il suo preferito.
«Guarda che bello, lo danno questa sera. Strano» dice ponendo il filtro del tè nell’acqua bollente.
«In realtà è normalissimo, spesso il sabato sera mandano film d’animazione».
Intingo una gocciola. Lei si avvicina e ruba una manciata di barchette.
«Allora dobbiamo guardarlo»
«Mhh, boh. Vediamo…» abbasso gli occhi sullo schermo, dove nel frattempo è comparsa una notifica. Marco ha iniziato a seguirti. Mi allontano.
«Dove scappi? Dobbiamo fare gli gnocchi, stamattina, non ricordi?»
«Falli» rispondo sbrigativamente.
«Ma avevamo detto di prepararli insieme…» la sua voce è già distante anni luce.
«L’hai detto tu. Io ho da fare» chiudo la porta della camera. Sfilo il pigiama di SpongeBob e indosso una maglia nera con una scollatura in pizzo. Rimbocco un po’ di tessuto sotto le tette per evidenziarne le forme, per rendere meglio l’idea. Controllo la fronte: l’acne si è attenuata grazie alla crema che ho applicato ieri sera. La skincare: almeno una gioia. Potrei scriverlo come stato WhatsApp. Davanti allo specchio dell’armadio, mi aggiusto. Pancia contratta, labbra protruse, volto leggermente inclinato. Occhi da cucciola – ombretto, eyeliner – scatto. Scelgo il filtro più adatto, armonizzo le luci, rendo la pelle setosa, pronta per le mie stories. Lui è tra i primi a vedere. Mette like. Like nelle storie, segno inequivocabile. Mi dispiace, cara Marta. Gli scrivo:
Grazie per il like, ma non sei fidanzato?
Con chi?
Con Marta
Ma lasciala perdere, si è montata la testa. Pensa di essere l’unica al mondo.
Comunque, ti dirò, in questa foto sei più figa di Marta
Che è strano, perché a scuola non l’avevo notato
Cosa
Che sei figa
In che senso
Che sei carina
Figa
Prima non pensavo neanche che ce l’avessi, la figa
E che c’ho secondo te? Ahahah
Boh, non ho verificato
E come fai a verificarlo
Non so, dimmelo tu
Beh, e io come faccio a verificare che tu c’hai il cazzo?
Beh, è facile da dimostrare
@foto
Mi fermo. La scarica di messaggi è stata così veloce e surreale che non capisco bene come sia potuto succedere.
Torno indietro, rileggo la chat. Nell’ultimo messaggio, la foto disponibile per una sola visualizzazione attende di essere aperta. Mi sento tremare, ho freddo e allo stesso tempo sotto le ascelle la maglietta è impregnata di sudore. Apro la foto, mordo le labbra. Mi trascino in bagno. Consumata l’unica visualizzazione, la foto svanisce. Il che mi sembra intelligente, almeno queste foto non rimangono salvate. Quanto mi piacerebbe però poterla rivedere ancora.
Sfilo la maglietta, tiro giù gli slip. Mordo il labbro inferiore. Pancia in dentro, un dito scivola a nascondere quello che può, fingendo pudore – scatto. Mi premuro di impostare la foto per una sola visualizzazione e invio. Dopo cinque lunghi minuti, ricevo risposta: una faccina accaldata e degli schizzi.
Dove eri finito tutto questo tempo?
Ehhh
Ma insomma pure tu sei una porcella
Non l’avrei detto guardandoti a lezione, ma alla fine così è
Lo siete un po’ tutte
Questo discorso mi indispettisce, gli mando un’emoji a disagio e aggiungo:
In che senso?
Risponde:
Affamate di cazzo
Il lunedì, la prof propone di correggere gli esercizi: «Chi viene alla lavagna?». Nessuna risposta, l’aula sembra deserta. «Ragazzi? Chi li ha fatti?», sembra quasi di sentire i grilli cantare. «Davvero? Ma scusate, neanche ci avete provato? Nessuno? Ragazzi, qua non andiamo da nessuna parte, senza queste basi come arriviamo agli studi di funzione? Non va bene! Il cielo non voglia che io vi debba portare all’esame di Stato, sennò altro che il segno della croce…» si siede sulla cattedra con le mani tra le cosce. «Ma prof, noi le vogliamo bene…» risponde Marta. «Aaah, non basta. Senti, cara…» si rialza in piedi, «… visto che hai spirito di iniziativa, vieni alla lavagna, ne facciamo uno insieme ora».
Marta la raggiunge. Prima di voltarsi a prendere il gessetto, ancora rivolta verso di noi porta un indice sull’inguine, flette un ginocchio con fare provocante, quasi mesto. La classe sbotta a ridere, divertita. Inizialmente non comprendo, poi mi sorge un dubbio. Percepisco più di uno sguardo puntato verso di me.
«Aspetta un attimo, ricontrolliamo prima l’ultima fattura» inizia a scartabellare sul tavolo del salotto. Striscio a terra perché non voglio farmi notare dai colleghi di mamma, in collegamento su Zoom per una riunione. In cucina, dentro al frigorifero, trovo della pasta avanzata che mamma ha coperto con la pellicola e riposto qui per me. La ascolto dialogare ricorrendo a tutti quei termini tecnici che non capisco e che non smette mai di spiegarmi. «Ecco eh… aspetta… Ire! Ti ho lasciato la pasta in frigo! Ok, ci sono, cosa mi dicevi, Fabio?». Mi affaccio: «Sì, l’ho vista, sta scaldando nel microonde…» la estraggo e mi siedo, «… grazie», aggiungo piano piano. Mentre mangio, un rivolo percorre la guancia, precipita sul piatto. Mangio pasta e lacrime.
Sul gruppo, Marta condivide una foto. Nella foto ci sono io. È la foto che ho inviato a Marco, la foto che sarebbe dovuta svanire dopo una visualizzazione. Non è uno screenshot, il sistema non lo permette. È una foto scattata dal telefono di Marta inquadrando quello di Marco, nel momento in cui lui ha aperto la mia immagine. Foto di foto. Marta scrive:
Inutile che insulti me. Mi sa che qua la maiala sei proprio tu
Come fisico ci stiamo anche
Non so cosa fare, le scrivo nella chat privata:
TROIA, CANCELLALA IMMEDIATAMENTE
Ops, troppo tardi. Non sono io la troia a quanto pare.
Veramente pensavi di piacere al mio fidanzato?
Deficiente. È il tuo fidanzato? Sappi che mi ha inviato una foto del cazzo.
Non è così fedele, allora Marta inoltra lo screen del risultato di una ricerca su Google Immagini: un puzzle di peni oblunghi, eretti e pelosi, tra cui risalta la foto inviata da Marco:
Intendi questa?
L’abbiamo scelta insieme
Credevi fosse vera? Sei così scema? Ahahah, mi fai pena
Sbatto il telefono a terra, il vetrino si frantuma sulle mattonelle. Grido graffiandomi la pelle. Dall’altra stanza, arriva un «Ire, che succede?». Chiudo i pugni con forza e comincio a colpire il tavolo, le stoviglie tintinnano come per un terremoto.
«Oh! Irene! Scusate, chiudo tutto, vi richiamo dopo» arriva sulla soglia quando gemendo metto delle dita in bocca e le mordo aprendo delle ferite. «Oh! Irene, che stai facendo? Oh» corre a bloccarmi. «Lasciami!». Mi immobilizza: «Oh! Calmati. Che è successo? Dimmi». Mi abbraccia come faceva quando ero bambina e mi fasciava nell’asciugamano dopo un bagno caldo, un braccio dietro le spalle, una mano a riparare la nuca. Mi avvolge e mi sento protetta. Sospesa in un mondo invisibile, la mia foto vive fuori dal mio controllo. Cerco di placare gli spasmi, il magone. L’unica cosa che riesco a sentire, in questo momento, è il calore di questo abbraccio. Singhiozzando, le accarezzo i capelli, odorano di melograno.
«Mamma, ti posso parlare?»
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio astratto che ritrae una chat di Instagram con messaggi e foto”