
Efelidi
I capelli rossi dovevano restare lunghi. Non era un ordine, semmai una gentile imposizione. Non li tagliare, diceva, sono uguali ai suoi. Li accarezzava ma non se ne prendeva cura. Erano pieni di nodi. Quando la febbre mi costringeva a letto, non mi portava il brodo, non si stendeva al mio fianco se deliravo, chiamava la nonna: «Ma’ la grulla andà in ciampanelle» e tornava in camera sua.
Un giorno ero seduta sopra il tappeto indiano, vicino al camino, i miei capelli erano più lunghi del mio corpo, così lunghi che toccavano il pavimento, non solo lo toccavano ma potevo lisciarli, creare disegni, muovevo le dita in quella massa incandescente, si trasformavano, sottostavano a quello che la mia mente immaginava – delineavo con degli archi un cuore; bastava guizzarli leggermente per avere delle fiamme; con più concentrazione avevo abbozzato delle ciliegie – ogni forma che annodavo rimaneva stesa accanto a me; era quasi ora di cena e volevo realizzare un pesciolino, ma mi sono bruciata. Ho toccato la prima ciocca e ho dovuto lasciarla, la mano è rimasta sospesa, tutte le dita allargate, era tesa, incredula; ho pensato fosse stata una scintilla, ci ho riprovato, ho avvicinato il palmo: moja, mbili, tatu, e l’ho schiacciato sui capelli. Mi sono ustionata.
Abitavamo in un paese di montagna al confine tra l’Emilia Romagna e la Toscana, il dialetto cambiava superato il cartello. Gli alberi, invece, crescevano uguali; anche il cemento, il cielo, gli odori, rimanevano identici: il letame sapeva di letame, a destra e a sinistra del cartello. Non esistevano scuole, ospedali, cinema, alimentari, negozi, bar, eravamo meno di venti persone, il nostro pane era senza sale, le verdure si conoscevano tra loro, si osservavano distanti, i pomodori stavano riparati dal vento vicino le mura di casa, le zucche in fondo al giardino, le carote sulla terra nuova, le immaginavo cianciare, insultarsi, incarnare il cencio parla male di straccio; la frutta, quella che resisteva al freddo, non parlava – forse perché assaporava le altezza, l’aria –, era il dolce delle grandi occasioni, raccoglievamo le albicocche per trasformale: disidratate, cotte, sciroppate, frullate; la cioccolata non potevo mangiarla.
La mattina restavo a casa da sola, loro andavano a lavoro, analizzavano le acque dei fiumi, sapevo solo questo, raccoglievano acqua e la imbarattolavano, prima di consegnare dovevano accumulare campioni: sistemavano i barattoli sulla mensola all’entrata, il nome del corso d’acqua scritto sul tappo con l’indelebile, mi dicevano che dentro c’erano tanti animaletti, non potevo vederli ma nuotavano tra le pareti di vetro.
Dal letto aspettavo la voce di mia nonna: «Ari nos vamos»; mi piaceva lanciare le coperte, scoprirmi con violenza, «nos vamos/si va là/nous allons» era il mio gong, prima ancora di colazione, prima ancora di lavarmi la faccia, scendevo le scale scricchiolanti e saltavo da un divano all’altro, da sotto la lava poteva schizzare altissima e io dovevo trovare slanci sempre nuovi per non bruciarmi, i miei piedi dovevano essere delicati, il peso essere meno specifico: sui divani non si salta.
Il pomeriggio mia nonna mi faceva le lezioni, come le chiamava lei. Conosco il mondo attraverso i suoi occhi: l’Africa, l’America del Sud, la Nuova Caledonia.
«Sono chiamati Kanak, il nome è stato coniato da un francais, Jules Dumont d’Urville nel 1800, significa “l’isola dei neri” era per differenziarli dai polinesiani che avevano la pelle plus clair; le loro case sono capanne circolari di legno e paglia, hanno il tetto a punta; mi raccomando quando andrai» poi gettava gli occhi su mia madre «andrete, portate un cadeau, ecco sì, devi leggere Saggio sul dono di Mauss, ti spiega un po’ tutto, sì, magari lo trovi nella libreria in salone». Aveva viaggiato tanto, mi raccontava i posti, non lei in quei posti.
«Nonna cosa facevi in Nuova Caledonia?» le scrivevo su un foglio.
«Sai» i suoi zigomi si afflosciavano, poi riusciva a portarli su, ci metteva qualche secondo e ricominciava «in Africa, invece, gli Azande somministrano il veleno ai polli per sapere cosa devono fare, funzionano come oracolo». Lo sguardo rimaneva lontano, rivolto a nord, la finestra restituiva i rami intrecciati alle radici, come se si baciassero.
Io piegavo il foglietto, lo strappavo in piccolissimi pezzi e, nascondendo le mani sotto il tavolo, buttavo la carta per terra: ci avrebbe pensato la lava a distruggerlo.
Mia madre, invece, mi ha insegnato a scrivere; urlava spesso, si spazientiva, sbatteva la sedia, poi guardava fuori, verso sud, i rami si intrecciavano tra steli e foglie, si aggrumavano. Le mie mani si irrigidivano, le lettere sul foglio diventavano storte, tremanti, l’inchiostro creava macchie ovunque. Tornava su di me, mi poggiava gli occhi sui capelli e grattava il pollice sul collo, leggero, la voce diventava una formica, piccola, mi diceva che ero brava, era lei che non capiva niente.
Non alzavo lo sguardo e sentivo caldo in una parte del corpo, era come se, ogni volta che ingoiavo parole, una macchia in più spuntasse sulla pelle.
Prima di andare a dormire contavo i nei allo specchio, li contavo come le stelle che la notte del dieci agosto mi era permesso osservare: mamma una candelina in mano e il cielo che brillava per lei, anche se, per lei, brillavano debolmente, come fossimo sott’acqua. Le indicavo la più luminosa, mi rispondeva tutte le volte, ogni anno: «Grullì non veggo».
La perlustrazione terminava con gli angiomi, sembravano due graffi sotto le orecchie, le dita ne seguivano i bordi, non premevo. «Rør ikke ved, sono rosse perché la tua mamma aveva voglia di fragole mentre ti aspettava»; mia madre, invece, le poche volte che era nei paraggi del mio bagno prima della notte, stizzita rispondeva alla nonna: «La smetti di insegnarle cavolate, sono dicerie queste. Un sape’ che pesci prendere? Erano le branchie della sua vita precedente», mi faceva un occhiolino e proseguiva per il corridoio. Lavavo i denti, spegnevo la luce, schivavo la lava, di notte fosforescente, e mi tuffavo nel letto.
La nonna mi raccontava le favole di tutto il mondo, sapeva che doveva iniziare, ogni sera, da quella dell’Oceania: una vecchina voleva il sale per le sue verdure, ma sull’isola il sale non esisteva; ebbe un’idea, decise di discendere le montagne per riempire di acqua salata la sua zucca. Quando tornò in cima alla montagna però guardò l’orizzonte, il mare si era ritirato per la bassa marea, la vecchina si sentì in colpa e si spaventò, decise, quindi, di ritornare sulla spiaggia a svuotare l’acqua del mare che aveva raccolto.
Quando ho lasciato la casa il mio corpo era pieno di efelidi, si erano prese il viso, le braccia, il petto, la schiena, piccole, grandi, medie, ovunque; ero convinta che viste con un microscopio ognuna di loro contenesse una parola, un discorso intero.
Le gambe, però, non erano state intaccate: neanche un neo, una lentiggine, una macchiolina; bianche, sottili e lunghe, come una coda perfetta.
Ricordo la copia di Andersen sul mio comodino, la nascondeva quando non mi sopportava, la rimetteva in silenzio quando facevo finta di dormire, non me l’ha mai letta.
Ho camminato sulla strada, attaccata al muro, seguivo le curve con precisione, non le tagliavo, non schivavo le buche, mi abbassavo quando i rami mi avrebbero ferito il viso, altrimenti ci passavo in mezzo, seguivo i piedi, il vento, le foglie, i fruscii, il fiume che parallelo scendeva a valle come me, lo zaino sballottava sulla schiena, dentro dei soldi e la cineraria; sono arrivata al paese più vicino mentre la luna mi indicava la via, un pullman mi ha accompagnata nella grande città, quella della foto: una terrazza a scacchiera sul mare, mia madre era una bambina, sorrideva, mia nonna giovane, sorrideva, e uno strappo. Livorno, c’era scritto con una penna verde.
Quando ero piccola parlavo, cantavo, la mia voce era squillante, risuona, ancora, nelle audio-cassette registrate, non sapevo ancora scrivere però contavo fino a cento, sapevo i numeri fino a dieci, cambiavo intonazione in base alla lingua: francese, spagnolo, inglese, swahili, danese. Poi una notte sognai qualcosa, la mattina andai nel bosco a giocare – era domenica, mi era permesso –, schivavo la lava, quel giorno ribolliva più forte, ma non ero concentrata, mi guardavo intorno, sono caduta, questo lo ricordo, poi la spalla nuda, la maglietta gialla strappata, le punte dei capelli rossi diventate marroni. Le mie corde vocali si bloccarono, la lingua si inspessì, non potevo muoverla; gli intrugli della nonna non servirono, le urla di mia madre neanche.
Ho scavalcato il muretto della terrazza, davanti al mare ho legato i capelli, li ho tenuti stretti in una mano e li ho recisi: le ciocche si sono liberate sulle pietre. Ho lasciato cadere il coltellino. Ho alzato lo sguardo, non l’avevo mai visto e non ne avevo paura, era il mio posto, lo sentivo, come quando nella vasca da bagno mi immergevo, guardavo il soffitto, l’acqua mi faceva levitare, mi avvolgeva, i capelli si distendevano come dei gigli di mare, mi accarezzavo la pancia: i polpastrelli avrebbero riconosciuto il rosa diventare cinereo, squamoso, non succedeva ma l’acqua era poca, sempre troppo poca, la lava la faceva evaporare. Mi sono spogliata, ho piegato i vestiti, le mutande no, le ho accartocciate e infilate nella tasca del jeans, ho lasciato tutto sopra lo zaino, faceva freddo, era grigio, l’orizzonte non si vedeva, il cielo e il mare erano tutt’uno, sono entrata senza correre, la pelle diventava ruvida, l’acqua nascondeva il mio corpo un passo alla volta, ero sott’acqua e gli occhi diventavano liquidi, i capelli erano troppo corti per acquistare peso, per diventare tesi, per essere meduse, non fluttuavano intorno, non sapevo neanche che colore avessero tra le pareti d’acqua, più scuro?, più rosso?, non c’era più il nome che aveva scelto per me, non c’erano i quindici anni di mia madre, non c’erano i miei sei anni, il bosco, la nonna che raccontava il mondo, ma non era mai abbastanza, non c’era la casa, il mondo che conoscevo io, le verdure, le stelle, le vette ripide, le urla, i silenzi, l’odore della terra nelle narici; ero sommersa, non mi muovevo, mi guardavo, il seno sembrava risplendere, era più grande, la lava si era aggrumata sugli scogli, inerte, non c’era, l’aria entrata nel corpo riempiva di ossigeno i miei organi, aspettavo, dimenticavo la terra e aspettavo che la coda spuntasse che le parole uscissero che gli angiomi si trasformassero in branchie, ma è stato il mare a mutare, è diventato nero, ero sott’acqua e guardavo il niente: era rimasto il mio corpo nudo abbandonato dall’identità. Ho soffiato forte dalle narici, la pressione ha scosso l’immobile, la schiuma mi ha avvolto, usciva dalle orecchie, dalla vagina, dai piccoli tagli vicino alle unghie, da ogni macchia sul mio corpo, la gambe fluttuavano nella trasparenza, solo le cosce erano nascoste dalla spuma, l’odore mi ha perforato il cranio, ho allungato il collo del piede, destro, sinistro, e ho spinto.
Stavo a galla senza saper nuotare, i capelli flosci sulla testa, la pelle a puntini, muovevo le mani come avevo visto fare ai cani nei fiumi, l’aria entrava dalle narici, l’apnea non aveva alterato il respiro, non avevo l’affanno, la luna era alta, non indicava nessuna strada ma la spiaggia si stagliava all’orizzonte, le gambe hanno cercato il fondo, era melmoso, i piedi non erano pinne, camminavo: nell’acqua, sul bagnasciuga, sulla sabbia, tra gli scogli; mi sono rimessa i vestiti, ho tolto l’urna dallo zaino, l’ho forzata con il coltellino, il vento ha sollevato i capelli gettati, erano diventati castani, ho svuotato il contenuto tra i granelli,
ho detto ciao, ho lasciato l’urna, il coltellino, i capelli, la lava era diventata nera, solida, troppo pesante per rotolarmi dietro, ho scavalcato, i miei piedi saltavano da una mattonella bianca all’altra, evitavo il nero, non c’era il rosso, ho cercato un pullman e, come un salmone, ho risalito la corrente. Sentivo la marmellata di albicocche in tutta la bocca, mi succhiavo le labbra.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio con una vista dall’alto che ritrae una bambina stesa a pancia sotto in mezzo a una stanza e i suoi capelli rossi e lunghissimi disegnano delle curve a terra”