
Cataratta
Parola del Signore. Lode a te, o Cristo.
Un urlo sovrasta la preghiera. Scoppia sulle prime note dell’organo, con un corteo di piatti e posate al seguito che, cascando nel lavandino, schizzano acqua sporca a terra e sulle nostre scarpe.
Immobile alla mia sinistra, Ada tiene gli occhi chiusi, così non è costretta a guardare la pozza di caffè sotto la fiammella azzurra. Le sue labbra si muovono appena, sta contando fino a dieci.
«Ada! Ma che stai combinando?»
Sentire il suo nome le fa drizzare la schiena. «Niente, nonna, niente! È tutto pronto, giusto un attimo…»
Allora gli occhi di Ada rimbalzano su di me e poi sulla credenza in alto, dove stanno le tazzine. Prima però afferro un fazzoletto dal contenitore di ceramica e glielo passo.
«Ti sei fatta male?» mormoro.
«Vuoi darti una mossa?»
Mi dà le spalle, spazientita, affrettandosi verso il bagno, i tacchi delle scarpe sbattono sul pavimento come sassi lanciati dal cavalcavia.
Spengo il fornello, mi chino a raccogliere pezzi di fragola in un tovagliolo.
Sangue e succo si contaminano tra le mie mani.
***
Non sono né ricchi né poveri, i Bonfante, ma in Paese ci conoscono tutti.
E non intendo gli altri, con “tutti”, ma proprio i Bonfante-complemento-oggetto.
Tutto comincia con la falegnameria Bonfante, che un secolo fa fabbricava utensili di ogni genere per le città vicine, inchiodando i dipendenti in un’officina spersa nelle campagne nocerine. Dopo che il figlio del proprietario, Sergio (il mio bisnonno), rifiutò di portare avanti l’attività, si trasferì in Paese in cerca di fortuna, ed è qui che prese in moglie la primogenita di un noto camerata. Non basterebbero tomi interi per rendere giustizia alla storia che i Bonfante indossano sulle spalle, come un mantello regale.
E così, da che eravamo solo un ex-falegname e una casalinga, ci siamo poi moltiplicati in tutta Paese come muratori, falegnami, venditori, per poi fare, come sentii dire una volta, "un salto di qualità". E quindi eccoci qui, dagli anni Sessanta, in veste di dottori, notai, proprietari terrieri. Irreversibilmente borghesi. Ma sta di fatto che in Paese ci conoscono tutti. Questo è il nostro dramma.
Verso il caffè in quattro tazzine poste al centro della tavola. Ada siede alla mia destra, nonna alla mia sinistra. L’incidente di prima passa presto in secondo piano, c’è da pensare alla maturità di Ada, al test per l’università, al solito viaggio estivo… In religioso silenzio bevo e le osservo, come fossi alla prima di uno spettacolo. Adelina e Ada, ecco le protagoniste. Unite e perpetue nel nome, nella pelle, nei polsi dove sta un sangue che è lo stesso mio. Nonna e nipote sono i due estremi di un filo, io una funambola sospesa sulle loro chiacchiere e i fedeli che cantano. D’un tratto mi accorgo di un’ombra tormentata nell’androne buio. Sbuffa, borbotta, pesta le pieghe del tappeto e sposta l’aria con le mani artigliate.
Potrebbe essere un diavolo, invece è solo Anna.
Dopo non molto riprende posto di fronte a me, la sua chioma bruna copre il prete che legge il Vangelo. Cala il silenzio, ma nessuna di noi lo ascolta. Tocca di nuovo ad Ada risvegliarci dal torpore. Sfiora Anna con la mano sinistra, la destra invece resta sotto al tavolo: «Sei in ansia per il provino?»
Disabituata al suo tocco ormai, Anna trasalisce. Serra la presa sulla tazzina sbeccata — la sua preferita —, e prima di rispondere la scruta, risentita: «Perché dovrei? Lo so a memoria, Macbeth»
«E allora! Tu adoravi le streghe. E sei anche un pochino isterica come loro!»
Anna storce la bocca, un po' offesa, un po' divertita. Quella sua smorfia è un barlume che sfarfalla nel petto e rischiara il vuoto lasciato due anni fa. In Paese amiamo e temiamo le grandi città, ti danno quel che vuoi ma si prendono ciò che sei.
Abbiamo sentito parlare di lei tra i paesani, bene-male-malissimo. È difficile, ma li lasciamo fare. Un giorno Anna gli scaglierà contro un incantesimo.
Isterica sì, zimbello mai.
Il suo ritorno mi fa pensare a quando il lampadario del salotto irradiava una luce gialla, non bianca come quella di un ospedale. Gettavamo qui le basi per tutte le nostre avventure. Anna scriveva la trama, Ada tracciava la mappa, io inventavo i mostri. Era un compito che mi appassionava: loro due non potevano sapere cosa avrei ricamato sulle loro idee. La più grottesca e inquietante delle mie creature ci sbarrava la strada sempre a metà tragitto, quando nessuna delle tre era ancora pronta a fronteggiarla. Ma alla fine, la spuntavamo sempre.
«Vi sento allegre» esordisce nonna, senza distogliere lo sguardo dalla messa. «La figlia dell’assessore Autieri si è laureata. Lo sapevate?»
«Beatrice?» Ada si ferma a riflettere. «Oh, sì! Ne parlava papà ieri. Come sta? Dov’è adesso?»
«A Milano, credo… fa Diritto internazionale» mormora Anna, bocca e naso nascosti nella tazzina.
«Faceva» puntualizza nonna. Picchiettando l’indice rugoso sul tavolo, scandisce il ritmo delle frasi. Toc. Toc. Toc.
«Ah. Buon per lei»
«E tra un mese va a Bruxelles. Lavorerà lì»
Anna si massaggia le tempie, alcuni tovaglioli volano per terra quando butta fuori il fiato. «Buon-per-lei»
«È inutile che brontoli, Annalaura. Puoi solo imparare da una come lei. Dicono che sia stata premiata addirittura col bacio accademico».
Toc. Toc. Toc.
«Allora che torni qui a baciarmi, Beatrice, siccome alla privata è entrata copiando da me. In giro questo non si dice, mi sa».
Il volto di nonna si arriccia in un groviglio di rughe. «Che immagine oscena! Così tu avresti aiutato lei? A chi vuoi darla a bere? Non a me, ragazza mia»
«Mi sono fatta ammettere perché lo volevate voi»
«E mollando hai sprecato una tale occasione… Ingrata, sei solo un’ingrata. Come pensi sia stato per noi? Ti sei scordata presto di tutti i sacrifici fatti!»
Anna si aggrappa al tavolo. Le dita pulsano di rosso. «Ero sempre infelice. Non ti basta?»
Toc. Toc. Toc.
«Ma che ne sapete, voi, dell’infelicità?»
Da qualche anno nonna soffre di cataratta.
Gli occhi, un tempo tersi e blu come quelli di Ada, sono ricoperti da una nebbia densa e umida, per la quale, anche se la luce riflette sulla sclera, resta a galleggiare su quelle orbite senza mai arrivare al nervo.
Tutto è penombra, per nonna, da quando la notte non dorme e giace nel letto, mentre i nervi sfasciati si ingarbugliano, riscrivono, confondono. Impulsi elettrici ridisegnano mia sorella come un'ingrata, una sovversiva.
«Nonna, non c’è bisogno di…» Ada esita, quando Anna le scaglia contro la sua occhiata più torva, dimentica del fatto che non si è mai vista una strega vincere una santa. «Anche papà ha fatto delle rinunce importanti per diventare chi è adesso…»
«Non osare paragonarli. Questa qua sta sfigurando la nostra famiglia col suo sciocco carosello!»
Nessuna di noi si aspettava interrompesse Ada. La messa procede mentre sprofondiamo nel silenzio. Basterebbe un Mi dispiace. Ma nonna è pur sempre una Bonfante. Una vera, mica come noi.
Allora Anna scatta in piedi e l’attimo dopo subito si accascia. Sembrava un mancamento, invece rialza la sedia rovesciata, agguanta la borsa e ritorna nell’androne. Mi tocca rincorrerla, le serro la mano sulla spalla quando è già con un piede fuori casa.
«Che stai facendo?»
«Non ci torno più qua» sibila. «Te lo scordi!»
«Resta fino a domani»
«Piuttosto mi ammazzo».
Continua a dimenarsi fino a quando non la blocco per le spalle, affondando le unghie nel tessuto della camicetta. «Ha sbagliato, lo sappiamo, ma che risolvi così?»
Anna si dimena e mi graffia sulle braccia. Di questo passo mi maledirà. «Non farmi questo. Non tu!»
«Allora fallo per nonno, ti prego».
L’ariete tatuato sul suo avambraccio trema. Mi rifletto nei suoi occhi, neri di rabbia, lucidi di dolore.
«Non ha niente da perdonarmi».
Mentre scende le scale, Anna non si volta mai indietro. Qualcuno la riconosce lungo il tragitto e la saluta, ma lei non ricambia. Dopo che il portone del palazzo si è chiuso, con quel tonfo che mi prende sempre alla sprovvista, me ne torno dentro.
Isterica sì, zimbello mai.
***
«Buon Dio, Ada, ma chi le ha messo in testa questa storia del teatro?»
Non capisco cosa le dice Ada, dalla cucina la sua voce mi raggiunge in salone come un brusio confuso tra le suppliche e il rumore delle auto sulla strada. Il salone è la stanza più ampia e ariosa della casa, col lampadario a goccia da noi ribattezzato Dea Luna, perché bianco e irraggiungibile.
Proprio come Anna adesso, che ritrovo bambina in un album di foto blu. Natale 2010, lei al centro del salone, col suo copione stretto al petto, in attesa che cali il silenzio tra i parenti. In famiglia non c’è ancora nessuna attrice, forse perché in Paese non è mai esistito un cinema o un teatro. Qualche pagina dopo, eccola abbracciata al nonno, raggiante e orgoglioso. La loro somiglianza mi lascia senza fiato:
“Ci sarò a ogni tua prima”.
Anche se la bocca non si muove più, la sua promessa riecheggia nella stanza.
La felicità di quegli anni mi frulla nelle orecchie, non mi accorgo subito di Ada sul bracciolo della poltrona. «Scusa per prima»
«Non importa» le faccio spazio accanto a me. «Come stai?»
«Come taglio è profondo, ma l’ho fasciato in tempo».
Ada solleva la mano finora nascosta, rivelando un doppio giro di garza bianca lungo tutto l'indice. Poi si affloscia accanto a me, con le braccia sugli occhi e la bocca semiaperta. «Ma chi è così scemo da farsi male tagliando la frutta?» «Capita spesso» «Alla mia età?» «Che cresci a fare se non soffri?»
Ada annuisce, con gli occhi persi nel vuoto davanti a sé. «Che ne sappiamo, noi, dell’infelicità?»
Le nostre ginocchia strusciano l’una contro l’altra. Da bambine questa poltrona era un vascello, ora a stento ci entriamo in due.
«Non fartene una croce» mentre li accarezzo, i capelli di Ada si avvolgono attorno alle mie dita. Le ho sempre invidiato questi boccoli così dorati, che si sono fatti sfuggire ancora una volta Anna, ma non possono rischiare di perdere anche me.
«Fosse così semplice… sentirsi dare dell’ingrata dalla persona che per antonomasia ci vizia di più»
«Ricorda cosa dice la mamma: la vecchiaia è così»
Dolcemente Ada soffia via dalla fronte un filo dorato. «Così»
«Nel senso che ti arrugginisce tutti i freni inibitori. Ti ritrovi a dire tutto, anche quello che non pensi»
«Ma se parliamo di freni inibitori, allora dovremmo intendere piuttosto tutto quello che pensiamo e non diciamo…» si interrompe, aggrottando le sopracciglia, «Be’, non che nonna prima tenesse per sé i suoi giudizi, ecco… Che assurdità, la nonna giudicante»
«Deformazione professionale. Provaci tu a insegnare a dei ragazzini scalmanati per anni e anni, per poi ritrovarti quasi tutto il giorno dentro casa in attesa della pensione»
«Ma insegnare non vuol dire solo correggere i compiti e interrogare il giorno dopo. Non… no, non posso immaginare un paragone migliore, è proprio un atto d’amore. A volte ricambiato, altre volte no, e lì sono dolori. Ma sapevi che in uno dei cassetti conserva tutte le lettere che le hanno inviato i suoi ex alunni? Alcune sono addirittura delle partecipazioni di matrimonio»
«Sono felice che le abbia mostrate a te».
Quando Ada si rimette in piedi, il vuoto da lei lasciato mi inghiotte. Si liscia la gonna con le dita, soffermandosi su un punto ben preciso, poi resta in piedi in mezzo alla stanza. «Come vorrei che qualcosa cambiasse».
Dovrei mettere l’album a posto, ma il caldo fonde la pelle delle gambe con la copertina. «Anna è una strega abile»
«Parlavo di te» confessa Ada a testa bassa. «Ho provato a parlarle un’infinità di volte. E anche la mamma, persino papà, ma niente»
Inspiro. «Va bene così»
«Ma…»
Espiro. «Va bene così».
Osservando Ada accanto a me, immagino una realtà dove, il due giugno di un anno fa, nonna non scopre che sono atea. Dove non mi inchioda in un angolo del ristorante, vestita ancora a lutto, mentre i camerieri preparano il tavolo per la mia torta di compleanno. Dove non se ne fa niente delle mie idee e dei miei sforzi («Non posso. Non me la sento.»), ma non le importa.
Perché siamo ancora qui e perciò soffriamo.
Perché credere è come non farlo: ci vuole coraggio e siamo sole in ogni caso.
Ma poi ricordo le lacrime ai lati degli occhi, un dolore e un disprezzo tali che il nervo ottico si sfilaccia tutto in un colpo e i suoi grovigli si depositano sull’iride, generando la cataratta. E poi la sua voce tremolante, il segno della croce, la mia condanna: «Non esisti più per me».
Non è la prima volta che la nonna si addormenta al contrario, cioè tutta ingobbita, con il naso spellato a pochi centimetri dalle mani ferme sulla pancia. Dove sarà? Ma cosa mi importa, in fondo? Qualunque luogo al di là delle palpebre basse sarà meglio di questa cucina. Un posto dove può rivolgersi al nonno chiamandolo: “Amore mio, amore mio“, senza noi tra i piedi, ferme a origliare sulla soglia. Ada poggia la fronte sulla mia spalla, stringendomi forte. Il pianto le spezza il respiro, io lo trattengo.
Non c’è rimedio alla morte, talvolta essa rimedia a tutto. In fondo alla strada, le campane della Santissima di Paese rintoccano le due in punto.
La messa è finita, andate in pace.
Rendiamo grazia a Dio.
Un ringraziamento particolare a Giulia Caminito per la cura e l’attenzione che ha rivolto alle storie che le sono state presentate durante l’Holden Tour di Napoli. Questo racconto è nato da quel Tour.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un occhio azzurro di un’anziana signora con la cataratta”