Capodanno gialloblù

Sono le 18.58 e con soddisfazione, appoggiandomi allo stipite della porta della cucina, guardo Sara invitandola a chiedermi scusa. Fino a poche ore prima, infatti, era convinta sostenitrice del mio fallimento culinario. Per Capodanno ho progettato un’ambiziosa cena glamour e decadentissima anni Ottanta: croissantini di philadelphia e salmone; penne panna e salmone; vitello tonnato; pezzo forte: profiteroles. Tutto autoprodotto, vitello e salsa tonnata compresi. «Non ce la farai mai, ma affonderò con te» le ultime parole prodotte dal fanatismo miscredente di Sara. Grazie anche al suo aiuto, invece, il mio spirito da underdog ha avuto la meglio e la cena è glamourosa.

Sorpasso da destra le questioni di orgoglio e capiamo che abbiamo tempo per la cena, non passeremo il glorioso orario dell’attesa ad arrabattare bestemmie e rischiare falangi al minipimer. Sara la butta lì: ma un aperitivo? E dove, penso, è tutto chiuso. Sì, tranne un’intercapedine di questo mondo tutto bilanciato al milligrammo, tranne un refugium peccatorum dove le colpe e le inadeguatezze sublimano in puro estro, beau geste, dichiarazione d’indipendenza: il circolo Minerva, Parma Parmissima in sfregio al resto dell’Emilia, con speciale attenzione a Reggio.

Così, mi abbiglio con eccesso di zelo e insieme a Sara esco di casa, non prima di avere recuperato la confezione di miniciccioli acquistata in mattinata. L’aria di novità sconquassa dolcemente l’aria gelatinosa di via Carmignani e allora siamo nuovamente dodicenni, io dico a Sara che di questi miniciccioli non deve avere paura, uno potrebbe anche farseli esplodere in bocca che non succederebbe nulla. Grazie a dio Sara non mi prende alla lettera e testa le potenzialità detonatrici del piccolo artefatto: decisamente superiori alle aspettative, se è vero che qualche ora e grado etilico più tardi la mia compagna di marachelle, oramai in assetto pienamente terroristico, scoprirà che ne basterà uno solo per disintegrare una bottiglia di vetro. Allora wow, che botto!, e nel breve tragitto ne molliamo altri tre o quattro, di cui uno in una campana di vetro. Oramai siamo in pista, pista da sci sia chiaro, discesa supergigante e pertanto giù giù verso i retrobottega dell’anima.

Eccoci giunti,entriamo e l’umanità è scannata, purissima e sciamanica, lo capiamo subito e cristo santo, è proprio quello che cercavamo. Il barista è obliquizzato dalla vita e dall’alcool, andiamo leggeri con un gin tonic per Sara e un gin lemon per me, a stomaco vuoto è come mettere benzina in una Peg-perego. Ci appostiamo all’ultimo tavolo in fondo per osservare il formicaio come Serse sulle pendici del monte Egaleo a godersi il derby tra Greci e Persiani a Salamina. Ci sentiamo animali esotici, attiriamo qualche sguardo, ma siamo lì apposta per godere dell’antiborghesia e lanciare un po’ di cloro in faccia allo strutturalismo e al funzionalismo di questa socialità di marzapane e allora fanculo, ci scoliamo i gin come fossero Coca zero e siamo dentro il flow, allungati dall’onda come in un buco nero dove valori, speranze, giustizia e tempo sono condensati senza punto di inizio né di fine, tutto è indefinito, tutto è da scoprire e sono bandite le domande: è il paradiso primordiale. Entriamo nella vibrazione, e veniamo scossi a intervalli regolari dal ritornello di Cenere di Lazza squarciato nell’aria da una voce di giungla. È uno degli stregoni del Minerva, possessore dei segreti delle esperienze liminali, nel pieno di un rituale volto alla stimolazione ritmica dei nostri istinti più intimi. Funziona, funziona per me e per Sara ma soprattutto per un altro apprendista sciamano, che identifico senza dubbio in Freud, un giovane Freud ancora lontano dalla canizie eppure già dotato di innegabili doti di lettura psicoanalitica del collettivo e del privato. Poco prima del suo ingresso in scena, quando era ancora impegnato alle slot machines, un convinto materialista aveva annusato con cura canina le dita di un compagno di bar per accertare la veridicità di certe acrobazie sessuali appena portate a termine. Tra lui e Freud si apre un sottile scontro accademico, insomma, tra visibile e invisibile e relativi sostenitori alla cui mensa io e Sara non siamo degni di partecipare.

Presto Freud si erge a master of ceremonies del preserale tradendo involontariamente la fenomenologia del treno dei suoi pensieri. Collegato il cellulare all’impianto audio del bar, Freud sceglie prima di diffondere qualche coro della curva del Parma, a uno dei quali partecipo anche io pur da forestiero – è la prova della cadrega, che supero brillantemente cantando a piena voce “Giriam l’Italia/veniamo dall’Emilia/bruciamo Reggio Emilia/a noi piace così”. La gioiosa ebbrezza dello stadio si tramuta per vie ignote e degne di interesse in una malinconia da autogrill: vengono filodiffuse le canzoni di maggior fallimento amoroso di Eros Ramazzotti, e, se un paio vanno bene, alla terza qualcuno dice a Freud che nessuno ha voglia di assistere al suo onanismo mentale post adolescenziale. Io e Sara ce la ridiamo di cristo, voliamo negli abissi del dubbio e del vizio, e appena parte Vasco Rossi cominciamo a cantare più forte e io ordino altri due gin, la lingua è un po’ felpata versione Colmar ma la combo lupetto e giacca tiene puntellata a occhi esterni la mia dignità, tanto che un signore alla tredicesima Ceres mi abbraccia in un silenzio davvero maschio, da veri uomini che non devono chiedere mai. Torno al tavolo e allora Freud si è scatenato, individua in me e in Sara due potenziali medium tra sottobosco proletario e società emersa e così ci invita a battere più forte sui tavoli e a cantare con maggiore convinzione. Poco dopo torna e profetizza: se avrete una figlia, la chiamerete Minerva, come questo circolo. Ammirati da tale divinazione e scarrocciati dall’inverno dei sensi che induce il gin possiamo soltanto inchinarci davanti all’umile enormità del genio. Ridiamo, ridiamo tantissimo io e Sara e ci baciamo, che cazzo di posto!, ci diciamo, eppure non dobbiamo vergognarci di dirci che tutto questo è più simile a ciò che siamo e desideriamo di quanto avremmo pensato.

Ci siamo distratti, sono quasi le 21.30 e il proprietario ha abbassato le saracinesche. Ci ha chiuso dentro perché oramai siamo fauna conclamata di questo celestiale carnaio oppure siamo vittime del prossimo rituale? Ahimè, capisco che possono disfarsi di noi, gridiamo «Buon anno!» e riceviamo in cambio un grido da testuggine spartana, che goduria!. Usciamo, spariamo qualche minicicciolo non propriamente in aree sicure e risaliamo. Sara è piena come un galeone della Compagnia delle Indie, e mentre cerca di approntare il resto della cena si spalma sul tavolo semi-apparecchiato dichiarando, mentre ride di innocua disperazione, che non si sarebbe rialzata più.

Com’è incredibile, penso, ridere di un unico spirito come fosse possibile lasciare i propri corpi e sintonizzarsi su una terza frequenza che esiste solo come manifestazione congiunta di noi due: morire di bellezza, questo è quello che provo quando guardo Sara.

Sara si rialza, miracolo da omologare, e addirittura riesce a cucinare con successo indiscusso le penne, buone buonissime come tutto il resto. Anche io ho l’anatra addosso, come si dice da queste parti, e non contenti apriamo un Vermentino che ci porta dritti su TRC, canale regionale emilianissimo, dove in diretta chiama uno con una ghega grossa come New York, siamo fratelli d’arme con questo romagnolo dalla lingua in origami, che bello il mondo santo cielo.

Facciamo ping-pong tra Rai e Mediaset, J-Ax si è trasformato in una persona normale e questo mi strazia l’anima, i Ricchi e Poveri sembrano appena usciti da una cascina dove uno psicopatico li ha obbligati a sorridere per sei mesi consecutivi pena punizioni corporali e Umberto Tozzi ha assunto le sembianze di un allenatore ventennale di una squadra di Serie C: l’Italia, questo paese che sembra una troia in chiesa, Dio la benedica.

Ceniamo e tutto è venuto di cristo, ci elogiamo in pompa magna, poi Sara a una certa forse si addormenta a occhi aperti e le dico che festeggiare la mezzanotte di Capodanno in casa soli è da morti ferraresi, così la convinco, questa volta ci armiamo anche di stelline da bruciare e starlight e usciamo alle 23.50, destinazione sconosciuta, forse un altro luogo non ben segnalato sulla mappa della nostra intimità. Giù di nuovo, allora, Sara si è risvegliata come un animaletto all’idea di fare due passi – non a caso la definisco il mio Tamagochi – e fendiamo il gelo parmigiano oramai tornati sulle nostre frequenze abituali, tuttavia non ancora borghesi. Verso il ponte Dattaro un gruppo di ragazzini rende onore, davanti a un ristorante asiatico, alla plurisecolare arte pirotecnica cinese facendo esplodere in strada e saltare in aria l’equivalente dell’arsenale della brigata Azov. Camminiamo sorridenti dissimulando un certo spavento, facciamo brillare un paio di miniciccioli ed ecco che sul lungo Parma decidiamo di donare parte delle nostre stelline frizzantine ai primi che incontriamo. Sono quattro uomini, gay gayissimi, di cui soltanto uno parla italiano. Così, poiché il fuoco fatica ad attecchire sulle stelline, in inglese dico «It’s because they are cheap» e i nostri azzimati e viziatissimi nuovi amici scoppiano in una risata da avanspettacolo, io e Sara siamo finalmente sulla luna. Poco dopoci guardiamo e pensiamo la stessa cosa: i gay ci danno un senso di tranquillità incommensurabile, e non sappiamo il perché, ma va bene così, c’est la soirée la plus belle de toute l’année e non ci si fa domande, siamo nel buco nero di cui sopra e non si deve fare altro che percepire, vivere.

Rieccoci, dunque, sul lungo Parma. L’idea folle per due ultratrentenni come noi è quella di raggiungere il centro a piedi, tempo previsto 40 minuti. Caricati a propulsione da nuovi lanci di miniciccioli – nelle campane di vetro, nei cestini e nei tombini – per un po’ crediamo l’impresa possibile. Poi, riportati alla realtà dalla consapevolezza dei nostri giovani, vecchi anni riprendiamo il percorso a ritroso. Dopo ore di comunione ininterrotta con Sara, porto un attimo a spasso il mio spirito umbratile tra i volteggi della nebbia che laggiù vena di vaghezza i lampioni e i fanali delle automobili.

Penso che l’Emilia sia un posto che terrorizzerebbe di solitudine molti, e invece siamo come voci delle caverne noi emiliani: l’antro fa paura, queste foschie e questo ghiaccio e questo caldo ontologici sembrano insostenibili anche solo alla vista, ma se chiudi gli occhi e ci fai due chiacchiere, con queste voci, stai sicuro che non vorrai più andartene.

E sì, siamo tutt’altro che animali universali, Parma, Bologna, Palata Pepoli ci sembrano il mondo intero ma abbiamo un codice di trasandata allegria che va capito, ti ci devi mettere con tutta la tua bella testolina per capirlo e chissà se ne arrivi a capo, prima o poi, visto che nemmeno noi ne siamo fino in fondo capaci.

Mentre meno la mente per questi terreni subdoli, all’improvviso riemergo ed ecco Sara, tornano le voci, le luci e la melodia dei botti che questa sera mi piacciono come mai prima. Siamo di nuovo a casa, questa volta definitivamente, ci apparecchiamo per la notte e ho il cuore grande come tutta l’Emilia, e anche la Romagna, perché no, e in mezzo ci metto anche quel tizio di Ravenna gonfio come una salama da sugo. Stasera ho il cuore enorme, con la “o” aperta come dicono qui a Parma, e anche io, spirito marginal-bolognese errante, ormai lo dico e lo penso così: enòrme, e mi piace. Ci mettiamo a letto, siamo azzerati, straordinariamente felicemente azzerati, Sara si accuccia su di me e prima di addormentarsi mi dice «Ti amo tanto, davvero» e io le rispondo spiegando che anche io, madonna, che l’artificio della parola è infedele quando si vuol dire l’amore, enòrme con la “o” apertissima quando si tratta di Sara.

Così, nel crepuscolo delle mie palpebre formulo l’ultimo pensiero del 2024, il primo del 2025, perché è il sonno il vero discrimine tra i due moti di rivoluzione terrestri. Parma, Parma… voglio davvero bene a questa città, e, forse, fino all’anno scorso non lo sapevo.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae dei fuochi d’artificio in un cielo giallo e blu”