
This could be us but you…
Sono in fila da Poke House nel tentativo di risolvere velocemente la pausa pranzo e mentre aspetto scorro il sito di un noto medico estetico, il migliore, pare, quando si tratta di biorivitalizzazione, ovvero quel trattamento che precede il botox. Ci sto pensando. Clicco sul link della storia sponsorizzata e pare ci sia una lista d’attesa di oltre due anni, ovvio che non ho pazienza per questa assurda tempistica, frutto di quei cazzo di influencer che gli hanno regalato qualche tag qua e là allo studio di questo tizio, che adesso vanta un’aura inarrivabile. Va bene, io stessa sono finita sul suo profilo, ormai le mie ricerche mi indicizzano, è così che mi percepisce l’algoritmo.
Posso anche accettarlo che ormai la mia cronologia sia più sincera di me.
Conosco a memoria tutte le bowl di Poke House, ma oggi ho solo voglia di Sunny Salmon e di silenzio. È quasi il mio turno quando arriva la sua fire reaction alla storia che ho postato prima, post pilates. Sono davanti allo specchio della sala in cui la mia classe si allena, con un asciugamano bianco intorno al collo, l’iPhone mi copre mezza faccia, fingo di essere stanca ma anche appagata e felice, visto il modo in cui contraggo gli addominali per accentuarli. Come a dire, ne è valsa la pena anche stavolta. Ho ancora addosso il completo leggings + top che sfoggio nelle stories. D’estate, uscire così, è un vezzo che spaccio per comodità.
Eppure le uniche persone che voglio mi guardino davvero sono quelle anziane. Passo davanti ai vecchi - coppie, uomini, donne, non c’è differenza - con aria fiera e sicura, voglio essere guardata da chi la notte, davanti allo specchio del bagno, non ha che le sue miserie.
È un appagamento effimero e tristissimo il loro sguardo, cos’è che esattamente spero di ottenere esercitando le caratteristiche di un dato anagrafico?
La fiammella è arrivata e lui mi ha scritto ancora in direct, come sempre. È lì che mi cerca, mai su whatsapp o su telegram, come se fosse l’app a catalogare il nostro rapporto, il valore delle nostre conversazioni e in questo senso Instagram non ha nulla di intimo. Non è lì che scrivi quando vuoi davvero sentire qualcuno.
Non visualizzo subito, cerco di evitare le notifiche, prima c’è il mio Sunny Salmon.
Seduta davanti al mio pranzo guardo anche le sue di storie, è abbastanza monotono, posta quasi sempre dall’ufficio, oggi ha creato un po’ di hype comunicando a quel solito migliaio di followers che si ritrova che sabato sarà all’inaugurazione del nuovo Nobu, faranno un lungo aperitivo più musica dal vivo, lui organizza eventi, va da sé.
Sabato è domani. E infatti il messaggio che mi ha mandato è direttamente collegato ai suoi contenuti, Ti vedo da Nobu? Fai un salto?
Ci siamo conosciuti a un evento simile, e con la certezza di piacerci ma anche di entrare un po’ in conflitto dialettico su temi di tipo politico-sociale che volevano essere il preludio per una scopata un po’ impegnata e un po’ accesa dal fatto che abbiamo anche un’opinione, anche davanti ai cocktail dai nomi ridicoli, non conosciamo una dimensione diversa dai locali e dal post serata. Non ci siamo mai incontrati di giorno, o prima delle 18. Al momento è l’unico con cui vado a letto, non posso garantire per l’altra parte. Ci conosciamo da circa quattro, cinque mesi e ci sono alcuni like ricorrenti e reciproci fra lui e almeno altre tre ragazze. È ovvio che monitoro la cosa ma non non mi ferisce davvero, non mi disturba più di tanto. È meno impressionabile degli anziani davanti ai quali sfilo tutte le volte che esco di casa. Non mi disturba neanche quando ride del mio lavoro, quando lo etichetta come una bolla di gente che di intellettuale ha solo la posa e non un attivismo concreto. Retorica vecchia.
Se vengo mi vedi gli rispondo, Come sempre ribatte. Imposto la modalità non disturbare e blocco il telefono, una funzione che vale per tutti gli esseri umani che mi circolano intorno eccetto mia madre, al suo numero è concesso tutto: telefonate, messaggi, mail, direct (il suo canale privilegiato per inviarmi un sacco di ricette che mai sperimenterò). Mi chiama mentre diversifico fra i diversi cestini dell’immondizia i resti del poke.
“Amore mio ciao”, “Dimmi tutto”. “Ti volevo dire che con papà domani andiamo al mare a Chiavari, a vedere dei mercatini dell’antiquariato”, “Bello, bravi, fate bene”, “Se riesci vai a dare un’occhiata a Oscar, che deve prendere verso le diciannove le gocce per le orecchie e mi controlli se ha mangiato”. Oscar è il meraviglioso gatto d’angora che vive con i miei, d’un bianco vergine e nobile, sembra fatto con Midjourney ed è chiaramente la mia definizione di eleganza e sì, se solo fosse possibile, vorrei rinasce Oscar, in versione nichilista però. “Certo, vado, poi ti dico”, “Tanto le chiavi le hai no?” “Sì che le ho. Hai bisogno d’altro mamma?”, “No amore, ci sentiamo che vado adesso”.
Non mi chiede mai come sto, come va il lavoro, ma si assicura che io possa fare certe cose, essere presente se la necessità chiama, e quindi disponibile, reperibile. E io ci sono, sempre. Sono fatta così.
Andrò domani da Nobu? La banalità del mio ego ha già deciso, ovviamente sì, ma senza pretese nei suoi confronti. Dovremmo smetterla di fingere che arriveremo al prossimo cambio di stagione, è un gioco di presenzialisimo che non ha via d’uscita, ci vediamo nei posti più patinati, nella miglior condizione possibile e poi va a finire sempre nello stesso modo, ma senza prospettiva. È tutto troppo somigliante alle persone che ho incontrato prima di lui, gente indecisa, che c’è e poi non c’è, che poi torna e sparisce di nuovo e che poi quando per caso ti rivede, ti riscrive. E io ci sono, sempre, per tutti.
Dovrei smettere di essere così, dovrei concentrarmi su altro ma è altrettanto difficile perché in realtà ho perso la testa per uno che non frequento davvero – questa è una novità in effetti – o meglio, per uno che incontro non così tanto da poter definire “spesso” e con il quale non succede nulla e quindi a mio avviso succede la cosa più erotica di tutte: ci sforziamo a non farlo succedere. O forse è solo pigro, o non gli piaccio, e io scambio la cosa per una caratteristica sexy.
Disattivo la modalità non disturbare e sul gruppo whatsapp delle mie amiche, le “noi sol(it)e”, le imploro di venire con me all’inaugurazione, ci vedremo davanti all’entrata anche se anticipo che arriverò un po’ in ritardo, c’è Oscar da guardare. Dicono di sì e le benedico per questo. Nel frattempo un altro direct suo Vabbè prima di Nobu beviamo qualcosa io e te?, in teoria, se accettassi, avverrebbe prima delle 18, una novità questa. Gli rispondo di no C’è qualcuno che ha bisogno di me sorry. Gli giro una foto di repertorio di me e Oscar sul divano dei miei e gli ricordo la cosa più importante di tutte: Ed è anche più bello di te.
Mi risponde con un cuore spezzato. Gli darei del boomer ma siamo coetanei. Due quasi trentenni che annaspano, due persone irrisolte: è questo che ci accomuna in fondo, un vuoto che riempiamo di storie su Instagram, come se avessimo addirittura un pubblico. Ma è solo uno schermo, uno specchio dal riflesso distorto.
Rientro nel mio appartamento con la consapevolezza di aver lasciato indietro anche troppe mail di lavoro, oggi sono in smart working e la verità è che vorrei solo dormire. Dormire un sonno profondo, libero dall’ansia, dalle aspettative, libero dalla telefonata di quell’altro, che puntualmente non arriva. E invece apro il Mac e scorro le foto dell’evento in cui ci siamo incontrati. È venuto male in quasi tutte eppure io sorrido anche di questo, delle smorfie che fa, dei suoi occhi mezzi chiusi, non guardava l’obiettivo, forse non guardava nemmeno me. Era la presentazione di un libro, una presentazione che da brava addetta ufficio stampa ho organizzato io. L’autrice in questione, che è poi un’amica ormai, lo voleva come relatore, io mi sono fatta in mille per assecondarla, circa tre mesi di mail alla sua casella universitaria, dove insegna, per cercare di incastrare i suoi impegni, nel frattempo per farsi perdonare la latitanza ha cominciato a inviarmi suoi articoli, suoi scritti e chiaramente mi ha incuriosito parecchio. Poi, per cercare di sentirlo più spesso, ho preso la scorciatoia di questo secolo: ancora una volta i social e gli ho scritto su Facebook, che non aprivo da un anno. Non sapevo chi fosse prima di allora, me l’ha raccontato lui chat dopo chat in vista dell’evento, poi ci siamo spostati su Instagram (non gli avevo scritto lì un po’ perché l’account era privato e un po’ perché, boh non lo so, non sono davvero razionali certi automatismi), seguendoci a vicenda. La presentazione da Feltrinelli in piazza Duomo è andata più che bene, tutti apparentemente felici, lunghissimo il firma copie.
Dopo ci ha chiesto se, per ringraziarci dell’invito – e si riferiva a me e all’autrice e all’editor dell’autrice – ci andava di bere qualcosa insieme. Un piccolo brindisi distensivo e informale. L’autrice doveva scappare, l’editor pure, io invece non devo mai andare davvero da nessuna parte e così ho risposto in modo rilassato “Dai ti faccio compagnia”. Abbiamo bevuto una cosa veloce, in piedi, anche perché aveva il treno di ritorno e per arrivare a Milano Centrale aveva anche due cambi di metro.
Ho chiaramente perso la testa per lui, ma sul suo profilo compare assiduamente anche la sua compagna, e so che dovrei lasciar perdere. So che mi farò male e che non nascerà niente, ecco perché intanto mi vedo con quell’altro, che è l’opposto in un certo senso e quindi dà un equilibrio alle circostanze.
Da allora ci siamo visti altre volte nel frattempo, ma solo perché lui si trovava a Milano per qualche convegno o evento. Mi invita sempre, e non capisco il senso. Cosa vuole da me? L’ultima volta, abbiamo pranzato da Iyo e mi ha preso la mano a ridosso dell’arrivo del dessert, Welcome to the rain forest, e me l’ha baciata. Gesto abbastanza imbarazzante ma lì ho sentito un’intimità impacciata che non provavo da anni. Lui però è un altro irrisolto. Preferisce me o la sua compagna? La sta tradendo? Su whatsapp io e le mie amiche abbiamo analizzato in maniera autoptica ogni passaggio di questa conoscenza e non ne veniamo a capo. Loro non lo reggono comunque, tifano per quello del Nobu e la cosa è inspiegabile. Quando lo vedo io non gli dico che mi sto innamorando, non ho voglia di mettere in moto questo meccanismo, anche perché adesso andarci letto forse rovinerebbe la magia, con lui preferisco mantenere alta questa tensione.
È una forma di potere?
Preferisco non succeda niente, è l’unico modo che ho per tenere acceso questo desiderio. Che forse provo solo io. Chiudo il computer e mi butto sotto la doccia. Domani si vedrà. Credo che spegnerò direttamente il telefono visto che il feed continua a propormi post sponsorizzati di cliniche che vantano i migliori filler del momento e io adesso non ho più le energie mentali per questo. E neanche quelle finanziarie, sinceramente.
***
Andrò all’inaugurazione del nuovo Nobu con un vestito di Jacquemus che ho trovato su Vinted, ha il dono di essere tremendamente appariscente nella sua ambigua semplicità, il genio di Simon Porte sta in questa vertiginosa caratteristica.
Arrivo a casa dei miei, loro sono già in autostrada immagino, Oscar è steso sul divano, bellissimo, etereo come sempre, più bianco del mio Jacquemus. Apro il frigo, sui ripiani laterali ci sono le gocce per le sue orecchie, ma anche una bottiglia di gelido prosecco. Avrei davvero bisogno di bere un po’, perché sarà una lunga serata. Potrei non farla iniziare mai, potrei restare qui, non andare da Nobu, addormentarmi vicino a Oscar, spegnermi. Ma non ce la faccio, voglio ottenere qualcosa adesso ma non so bene cosa. Prendo il telefono, chiamo l’uomo che credo di amare, voglio dirglielo che ci meritiamo qualcosa di più di un pranzo a base di sushi, che mi merito qualcosa di più intimo rispetto a inviti gratuiti ai convegni o agli eventi. Non risponde. Faccio altri quattro o cinque tentativi. Io non posso reggere una situazione del genere. Gli scrivo che ho voglia di vederlo, scrivo tutta una serie di righe fluviali sul perché e il per come dovremmo vederci di nuovo. Invio. È tutto patetico. Aggiorno anche la chat di gruppo e scrivo alle mie amiche che ho avuto un imprevisto, mi spiace, divertitevi per me e se quello là ci prova con altre, riferitemi.
Non ho scelta, apro il prosecco. Ci metto circa un’ora per cominciare a vergognarmi di me stessa, l’ho bevuto tutto, accompagnandolo con un’altra mezza bottiglia di rosso che era già aperta e forse utile per un arrosto e ho la nausea, i crampi allo stomaco, mi sento gonfia, avvelenata. Sento il sangue ispessirsi e la lingua incapace di restituire coordinazione alle mie parole: questo è il momento perfetto per richiamare il professore. Mi risponde un attimo prima dello scatto della segreteria.
«Ciao, tutto bene?»
«Ciao, non no, non sto bene, no, proprio no»
«Cos’hai?»
«Cos’ho? Secondo te? Perché non rispondi alla chiamate, ai messaggi? Perché No? Magari ho un problema e per te posso morire giusto?»
«Perché stavo guidando»
«Sì certo, ci credo»
«Sono appena arrivato a Milano».
Un conato di vomito acido sale verso la gola, non so se è la notizia o il vino a stomaco vuoto. Forse le due cose insieme, una crasi che potrebbe anche darmi il colpo finale.
«E non mi dici niente…»
«Stai bene? Hai una voce…»
«No che non sto bene cazzo, perché non mi hai detto che sei a Milano»
«…»
«Mi rispondi o no cazzo?»
«Dai ci sentiamo domani, adesso non stai bene, non so per quali ragioni ma è meglio se ci sentiamo in un altro momento. Dai…»
«Ma dai cosa» urlo.
«Sei ubriaca…»
«Mi vuoi o no?»
«Vai a letto dai… Ciao, ti richiamo io»
E butta giù.
Un uomo inutile, sterile, vigliacco. Sono questi i pensieri che mi attraversano prima di vomitare l’anima sul tappeto dei miei, come quando avevo sedici anni. Oscar mi osserva con algida indifferenza ma in confronto a lui sono davvero un’immagine ripugnante.
Potrei anche morire qui, così, con la faccia rivolta verso il soffitto, un gatto come spettatore. Ne scriverebbero i giornali? Mia madre parlerebbe ai microfoni dei tg? Chissà sui social quante commemorazioni firmate dai miei contatti. Non me la merito una fine così, voglio andarmene da questa casa.
Con fatica chiamo un Uber, direzione Nobu, c’è ancora tempo, saranno tutti immersi nel cuore della festa, ubriachi almeno quanto me. Sul sedile posteriore, appena illuminato dai fari delle altre macchine mi guardo nella fotocamera frontale dell’iPhone e nella versione di me stessa di circa due ore fa non sarei mai uscita in queste condizioni. Sono impresentabile, pallida, anche se dallo schermo il tutto è molto più bluastro, il vestito si è macchiato di vomito. Sui tacchi sono instabile, rozza, quindi mi faccio lasciare proprio davanti all’ingresso del locale, tutto agghindato a festa, un trionfo si direbbe: è pieno di gente, è tutto nuovo, brillante, sono tutti bellissimi come in un filtro Instagram, la musica è banale, troppo alta per il jazz, nessuno capisce niente di musica qui dentro. Cerco le mie amiche, mi passano davanti ragazze che potrebbero sembrare loro, tengono in mano calici e bicchieri che sembrano coppe ricolme di polvere d’oro all’interno, ma non sono loro, non le vedo.
Però vedo lui, quello con cui scopo per bilanciare l’indifferenza dell’altro.
«Amore mio» mi dice sarcastico, mezzo divertito, mezzo stupito, ma stai zitto coglione, penso. Mi abbraccia.
«Stai bene?» mi chiede.
«Secondo te?»
«Ti aspettavo»
«Ho avuto da fare col gatto dei miei»
«Quello bello»
«Proprio lui»
«Tu sei bella» mi dice.
Mi sale il vomito, di nuovo, ma in realtà ho rigettato tutto, sono vuota, è solo nausea psicosomatica. Mi sento debole, poco lucida. Il mal di testa è diventato un dolore fitto alle tempie.
«Puoi tacere per favore, sto cercando le mie amiche»
«Ti aiuto se vuoi»
Mi prende la mano, mi fa fare un giro su me stessa e quasi perdo l’equilibrio.
«Bello questo vestito»
«È macchiato di vomito, fa schifo adesso»
«Mi dici cos’hai?»
«Niente»
«Vabbè. Dormi da me stasera?»
Lo sapevo che sarebbe andata a finire così. La parabola discendente ha sempre queste caratteristiche, passaggi scontati, inerzie emotive.
Nel suo appartamento ci abbandoniamo sul letto, forse ha capito che sto male davvero perché a un certo punto scoppio in un pianto isterico, inconsolabile e vedo nei suoi occhi qualcosa di reale, qualcosa di leale che ha a che fare l’incontro autentico della sensibilità altrui. Ci spogliamo e ci addormentiamo nudi, abbracciati in una stretta che culla le ossessioni, che le giustifica addirittura.
Non riesco a riconoscere in questa dolcezza tutto quello che c’è stato prima, non la credevo possibile.
Io però non dormo davvero, continuo a svegliarmi di scatto, c’è qualcosa che mi punge dietro gli occhi, forse altre lacrime, forse un’estrema stanchezza ampliata dal caldo molesto della stanza, moltiplicata alla disperazione dei messaggi che ho inviato prima. Mi impongo di non pensare, di meditare, di rimescolare le immagini che ho in testa e proiettarle altrove, fuori dalla mia mente, al di là della memoria, al di là del gatto, al di là di quella volta in cui mi baciò furtivamente la mano.
Percorro con gli occhi il perimetro rettangolare del soffitto, un movimento oculare continuo, ininterrotto, interamente dedicato alle pareti, che sono lisce come il silenzio del suo sonno, che ha qualcosa di placido e di mortale, di rubato furtivamente a una serata di festeggiamenti.
Nemmeno l’odore del suo corpo riesce a convincermi che questo momento basti perché anche la bellezza stringe patti strani con la mediocrità.
Vorrei che quell’altro ci vedesse, testa di cazzo incapace di slanci.
Verso mattina cerco di non svegliarlo, c’è una luce bellissima, più pura di noi, più celestiale di Oscar, allungo la mano sul comodino, prendo il telefono, nessuna chiamata nessun messaggio.
Sembriamo due innamorati e so che durerà meno di un respiro. Scatto una foto.
Voglio inviarla a quell’altro e scriverci sotto This could be us but you…
Ma non posso farlo.
Mi ha bloccata.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae lo schermo di un telefono con una char con l’emoticon della fiammae”