Myosotis

La raggiungo al solito bar vicino alla scuola, guardandomi intorno colpevole, sperando di non incrociare nessun viso noto. Mi accoglie nel suo abbraccio a mezzaluna, io mi sforzo nel ricambiare, ma ogni volta so farlo sempre meno. Dice che mi trova in forma: esagera, sono smunta e magra, non può pensarlo veramente. Quel che vorrebbe dire davvero lo cela malamente nello sguardo, sospeso tra sospetto e tenerezza, quello che ha tutte le volte che ci vediamo, poche ma sempre troppe, per lui. Dice leggera: «bella questa tuta, è nuova?» Dice che mi sta bene ma mi preferisce con i vestitini colorati, quelli delle nostre vacanze di ragazze, ma così sarai più pratica, ammette di malavoglia. Dico che me l’ha comprata lui, a me piace. Non dico che me l’ha presa dopo che mi ha lanciato dalla finestra i jeans aderenti perché ci ero andata a fare la spesa, non dico che lui quei jeans e quegli abitini me li butta tutti se me li metto quando lui non c’è. Ma lei lo sa già, lo dice il suo sorriso, io quel sorriso non lo afferro e lo sguardo scivola giù e si perde sotto al tavolino. Dice che almeno ogni tanto mi dovrei vestire come voglio io, mettere un filo di mascara, un po’ di rosa sulle guance, dice che per esempio potrei anche cambiarlo, il colore dello smalto, no? Che il rosso con questa tuta non ci sta mica bene, meglio un lilla, un violetto… E ride, con gli occhi seri e le mani che svolazzano. Che poi quando lavo i piatti si sbecca e fa brutto, dico io, e che stress a ritoccarlo. Rido anche io, con gli occhi spenti e le mani che si stropicciano. Ma alla fine lo devo mettere sempre rosso. A lui piace solo questo, vuole vedermelo tutte le sere. E poi mi fa piacere, credo, fargli piacere. Anzi no, è da un po’ che mi sa che non ci credo più. Ma questo non lo posso ancora dire.

Dice, con un tono più alto, che il segno che ho in faccia sembra l’ombra di un livido, fa vedere, dice, mi sottraggo e dico con foga che sono caduta dalle scale, sì, ancora; che non funziona l’ascensore, che i condomini non pagano le spese, noi le paghiamo eh, cioè lui le paga. Poi al terzo piano c’è un gradino rotto, ci inciampano anche i ragazzini. Silenzio, che sa di vecchia scusa. Vecchia e banale come i miei 32 anni, penso riflettendomi negli occhi della mia amica, nella sua camicia di seta delicata, nei suoi capelli luminosi, nella pena che non si cura più di nascondere. Del suo cappuccino resta la schiuma seccata, il mio caffè è intatto, freddo. In bocca mi faccio bastare l’asciutto delle bugie.

«Hai poi cercato quel lavoro» chiede indagatrice «quello solo la mattina, mentre Aldino è a scuola? »Non lo dico, ma la mattina è l’unico momento in cui respiro veramente. Dopo l’aria viziata della stanza da letto, voglio solo lasciarmi investire dall’aria fresca in cucina, con in mano la prima sigaretta.

Le ripeto che non mi occorre, i soldi li ho, sì, e il tempo mi vola tra i mestieri e cucinare. Non dico che i soldi arrivano solo dopo urla e botte, contati per la spesa, e devo portare gli scontrini.

Le sberle per la felpa che Aldino ha perso, che per comprargliene una nuova ho dovuto prenderne tante, manco l’avessi persa io per fargli dispetto… e Aldino davanti alla tv alzava il volume per non sentire; meglio a me che a lui, pensavo e incassavo. Insiste come sempre, le dico di stare tranquilla. In fondo so esattamente a cosa pensa: lei vede i telegiornali, mi crede sull’orlo di una di quelle storie spezzate, non vuole arrivare a piangermi. Lo fa per non sentirsi in colpa “dopo”, penso aspra, ma è un attimo. Li vedo anche io, infatti. Dico a me stessa che non sono come quelle là, io sto bene, c’è Aldino, mi riempie i pensieri, me lo stringo forte ed è la vita mia. Aldino non è solo mio, è figlio suo, gli somiglia tanto. Ma quando lo guardo non mi fa paura, anche se ha i suoi occhi. Io al telegiornale non ci finirò mai, no davvero. Tutte le volte mi immagino che quelle sì, che erano messe male, mica io. Mi dico che lui è diverso, a me ci tiene: dopo le urla tace e mi stringe forte, a volte piange e se uno piange vuol dire che soffre, se soffre ci deve essere per forza del buono, da qualche parte, certo, ben nascosto. Poi ci porta a mangiare la pizza e Aldino la divora piegata in quattro, con gli incisivi che ballano, e lo guardiamo ridere, tutto sporco di sugo e ridiamo anche noi. Quelle del telegiornale mica potevano essere così felici, fanno vedere le foto in cui ridono ma sono foto vecchie, secondo me, invece noi ridiamo, tanto. Io rido sempre se ride Aldino. Anche se la costola mi fa male quando rido. Non mi passa mai, ma tanto non è quella dalla parte del cuore.

Sta parlando seria adesso, io ho perso il filo, il suo tono è salito ancora, va oltre la mite preoccupazione, ha la forza di un disperato assalto, sa di “o la va o la spacca”: la sento che dice di pensare al futuro, di non voltarmi indietro… i suoi occhi decisi si inchiodano nei miei spersi, sento il mio respiro accelerare, lei che incalza: «cosa vedi nel tuo domani? Cosa vuoi per tuo figlio? Tu e Aldino… ricostruire… nuova vita… lontano…» Allarme, ansia, capogiro. Ma che dice… Ma che vuole da me! E poi, un ritaglio di giornale: un numero di telefono, un indirizzo sottolineato con l’evidenziatore… Me lo ficca nel pugno che si serra inconsciamente, vorrei rifiutarlo ma inghiotto avida quel foglietto  tra le dita strette.

Devo andare. Mi alzo di scatto facendo tintinnare disorientate anche le tazze, sento la mia voce stridere mentre dico che tra poco Aldino esce da scuola. Dice ti accompagno, dico non fa nulla. Urgenza, paura, qualcos’altro. Ma lei, più svelta, è già alla cassa, paga con la Visa, mi toglie dall’impaccio di non avere racimolato abbastanza spiccioli. 

Mi scorta per il breve tragitto, a braccetto come un poliziotto. All’angolo nella solita bancarella c’è ancora appesa quella bella sciarpina chiara con i myosotis, rallento il passo di fuga con cui stavo cercando di sottrarmi a lei e alla confusione crescente e mi perdo a guardarla. Lei segue la traiettoria del mio sguardo, indovina il desiderio, ma non ne sa l’origine: gli stessi fiorellini piccoli e azzurri del pigiamino di quando ero piccola. Lo portavo ancora a otto o nove anni, liso, corto, stretto, non volevo saperne di lasciarlo, i capricci quando era da lavare e venivan giù botte. Quando lo indossavo però non le prendevo mai, mi sentivo calma, felice, protetta; credevo che fosse quella corazza a fiorellini a difendermi dalle ‘serate storte di papà’, come le chiamava la mamma. I fiorellini: se solo avessi potuto confidare ancora in loro. Il pensiero si interrompe con la sciarpina che fluttua leggera sul mio petto, me la sta drappeggiando lei, amorevole. Non posso, mi difendo, faccio per levarla convulsamente, lei mi prende le mani, mi frena. Protesto, mi schernisco, prevedo la furia di lui una volta a casa, la paura sale, la fretta ritorna, vorrei andarmene, fuggire, ma sento le gambe rigide, non mi ubbidiscono. Allora avverto il pezzo di carta ancora stretto nel mio pugno e qualcosa si inceppa dentro di me: pensieri, parole, azioni, tutto si sospende come in una fotografia e mi sento dire a fil di voce che devo fare la prova, devo vedere se è vero che i fiorellini funzionano.

Lei non può sapere esattamente a cosa io mi riferisca, ma comprende di aver aperto in me una crepa, forse proprio quella giusta, dopo averci provato per anni infiniti.

 

Davanti a me c’è la finestra aperta, l’aria lieve della sera mi sfiora il viso gonfio e tumefatto. Intorno aleggia ancora il rimbombo dei suoi insulti grevi mischiato al fragore assurdo dei cartoni animati che arriva dall’altra stanza.

Mi immagino seguire la sciarpina, volata di sotto, raggiungerla, ricomporne i brandelli, e ritrovare la forza dei myosotis, che lui ha neutralizzato strappandomela di dosso con furia incomprensibile, prima di andarsene a smaltire al bar. Sì, sarebbe la via più facile, fluttuare ad ali aperte anche io giù da quella finestra, finalmente lieve. Atterrare poi sul prato, tra quei fiorellini, farmi avvolgere da loro per sempre come in una tenera corazza azzurra. E non dover più incollare ogni volta i pezzi per fingermi intera e ingoiare a forza tutto questo dolore. 

Ma non è quella la strada giusta, grida il sangue che mi martella nelle contusioni. Sono ancora viva, sì, e per quanto ancora? Non posso aspettare un minuto di più. Non sono sola. C’è Aldino, il mio pulcino spiumato: a lui, almeno a lui, devo insegnare a volare alto sopra a tutto questo schifo.

 

Adesso finalmente leggo il foglietto stropicciato con l’indirizzo evidenziato, quello che mi ha dato lei.

Mi aveva detto di non guardare indietro, invece eccome se ci guardo: dietro di me c’è la porta, dietro di noi c’è la vita.

Dentro le mie mani, una borsa, un bambino e un’unica possibilità.

 

Corri Aldino corri: ti porto dove i cartoni animati saranno solo cartoni animati, dove i fiorellini saranno solo fiorellini. Ti porto via, a conoscere il tuo futuro di solo vero amore.

Immagine generata con DALL-E
“a white scarf with a pattern of violet little flowers flies in the sky, impressionist style”