Uomo avvisato

Ô combien de siècles ais-je attendu pour étaler la sagesse des étoiles sur ton ventre rebondi!

Moore–Barrows, Providence 6.

 

 

Un vecchio ma sempre efficacissimo metodo per ammortizzare una delusione d’amore è partire per un lungo viaggio. Più brutta la delusione, maggiore la distanza che si può mettere tra te e la stronza; o, se lo stronzo sei stato tu, tra te e la tua vecchia vita, sperando di tornare con più sale in zucca. Ad oggi non so davvero dire se per la fine della mia relazione con Lucia ci sia stata una ragione, e quindi una colpa. Gli amori possono anche finire come l’Impero d’Occidente, con un soffio inudibile dopo decenni di sudore e chiasso. Una mattina di fine giugno Lucia mi dice che non ne vuole più sapere; mi lascia giusto il tempo per sbaraccare da casa, ed ecco che scompariamo l’uno dalla vita dell’altro. A inizio luglio sono in stazione a Mantova; due giorni dopo atterro a Boston.

 

Ho un amico lì, dai tempi del mio post-doc ad Ann Arbor – si chiama Clayton, è molto più giovane di me, e inizia proprio quell’anno un master con dottorato a Yale. Bravo ragazzo, molto silenzioso, un po’ burbero, ma come dicono i miei zii di Mestre: xe un fio d’oro. Quando gli ho scritto dicendo che ero a pezzi e mi serviva una vacanza urgente, mi ha detto di raggiungerlo a casa dei suoi genitori – due avvocati pieni di quattrini – e che ci saremmo fatti un giro per il Massachusetts insieme, così mi distraevo. Aveva bisogno anche lui di una pausa, ha aggiunto – e di rivedere l’oceano.

I suoi genitori abitano in un appartamento annesso al loro studio, in un grattacielo del centro; Clay, che non li ama granché, passa a trovarli solo quando sono via. Abbiamo la casa tutta per noi. Arrivo a notte fonda. Clay mi sistema sul divano; ma un po’ la tristezza, un po’ il jet lag, non riesco a chiudere occhio.

Non mi rimane che darmi da fare in cucina. Apro la valigia e tiro fuori il pacchetto che mi ha fatto rimanere fermo due ore alla dogana – la zucca delica del mio orticello fuori Mantova, la prima della stagione. Poi, chiuso in tre strati di carta – oh, l’odore che si sprigiona per la casa! – il parmigiano. Nella scatolina rossa, la mostarda e gli amaretti da tritare. Insomma mi metto di buona lena a fare sfoglia abbastanza per un centinaio di tortelli, che poi farcisco di polpa di zucca condita come se stessi ingozzando Lucia fino a strozzarla – ogni tortello è una piccola Lucia alla quale posso dire, tra una lacrima e l’altra, quanto ci godrò  quando quella vera tornerà in ginocchio a dire no Piero, ho sbagliato, ti amo, facciamo seicento figli e invecchiamo insieme. Per fortuna Clay ha il sonno pesante, e solo dopo le dieci lo vedo aggirarsi per la cucina, in pigiama, cercando il barattolo del caffè.

«Che fai di bello?» chiede occhieggiando il ripiano accanto al rubinetto, e le mie mani piene di farina.

«Tortelli di zucca»

«Ma quanti ne hai fatti?»

«Eh, mi sa più di un centinaio. La zucca era grossa»

«E sono tutti per noi?»

«Certo.»

Clay incrocia le braccia, e guarda con i suoi occhietti piccoli e imbronciati il parquet. È più basso di me, grosso ma non grasso, e ha – come sempre – il taglio di capelli alla moicana.

«Clay?»

«Mh?»

«Ricordo male o al piano attico del grattacielo c’è la piscina?»

«Sì»

«Mi ci porti? Mi lamento meglio se sono a mollo nell’acqua. Con una bibita. Anzi, anzi. Posso tagliare il cocomero? Ne ho visto uno bello grosso in frigo»

«Ti ci porto volentieri, ma poi devo fare dei giri»

«Embè?»

«Tu sai che i miei possiedono questo piano, che è casa loro, quello sopra che è lo studio, e quello sotto che è l’appartamento dei ragazzi, come lo chiamano loro. In teoria sarebbe a disposizione dei loro figli, tra cui io»

«Quindi?»

«Ieri notte tu hai dormito qui anziché giù, perché al piano di sotto ci sono Laurel e Fiona.»

Ahia, le sue sorelle. Vedo una bandiera rossa che sale sulla conversazione. Di norma in questi casi mi ritiro in buon ordine. Ma sarà la tristezza – che di solito ribalto in una sinistra esaltazione – sarà la mancanza di sonno, non mi va di mollare l’osso così presto.

«È probabile che a quest’ora, in piscina, ci siano loro due» conclude Clay.

«E qual è il problema? Sono anni che ti conosco, ho visto anche i tuoi genitori, ma loro due mai»

«Sai che non mi fa piacere avere a che fare con loro. Né che conoscano i miei amici»

«Pff»

«Poi ovviamente non mi va di tenerti segregato in casa, per cui se vuoi andare in piscina, vacci. Però preferirei che tu non lo facessi»

Incrocio le braccia mentre Clay finisce il suo caffè.

«Che strazio con queste tue sorelle, Clay. Ti rendi conto che le detesti e non mi hai mai spiegato perché?»

«E continuerò a non spiegartelo»

«Clay, lo sai che sto una chiavica. Mi devo distrarre in qualche modo. Sorelle o non sorelle, una giornata in piscina mi tirerebbe su di morale. Guardati in cuore e dimmi se veramente il problema non è aggirabile.»

Mi guarda con la fronte corrugata. Io la pianto lì e comincio a chiedergli come vuole i tortelli. Ne discutiamo per qualche tempo, parlando poi del più e del meno. Il sole è alto nel cielo e la giornata fuori è splendida. Metto il muso fuori dalla finestra della cucina, gli occhi chiusi per il riverbero della luce sui grattacieli intorno a noi. Sono al centro del mondo, è luglio, e in New England quest’anno c’è un umido allucinante.

«Vado per le mie commissioni» dice Clay a un certo punto, emergendo dal bagno vestito. «Tu ci tieni proprio ad andare in piscina?»

Lo guardo implorante. Sospira.

«Va bene. Vieni, ti accompagno.»

 

Saliamo sull’ascensore, io in costume telo e sacca a tracolla, Clay sempre con la fronte corrugata. L’ascensore si apre all’ottantesimo piano su una stanzuccia in penombra, con armadietti, panche e abiti appesi; seguo Clay fuori dalla porta, ed eccoci sulla cima del grattacielo.

Boston ha il vantaggio di essere allo stesso tempo americana e molto antica, per gli standard di qui. Non è cresciuta come un osceno bubbone, tipo New York, ma non è rimasta un gruppo di casupole nel nulla come Scanzano Jonico. Dalla cima del grattacielo, che è più basso dei suoi fratelli intorno, vedo perlopiù pareti e finestre, e negli spazi tra i rettangoli di vetro e metallo, spicchi del porto e del mare. Ma la mia attenzione è catturata dalla piscina. La piscina sul tetto di casa, capite? Dio li benedica, gli americani. Noi al massimo abbiamo la terrazza col prato finto per fare gli aperitivi. Questi mettono una piscina sul tetto. A tre diverse profondità. Con vasca di acqua bollente e idromassaggio separate. E mattonelle di terracotta sul pavimento, cabina per cambiarsi, serra di piante di appartamento, sdraio con ombrelloni, recinto protettivo di vetro lungo il perimetro del tetto, e un gigantesco fenicottero gonfiabile che galleggia e mi sorride.

Clay mi tira l’orlo della manica.

«Poi ci sali, Piero, tranquillo. Vieni, ti faccio vedere dove sistemarti»

«Ma fammi mettere sulla sdraio che mi pare, no?»

«No. Ti sdrai dove dico io»

Mi accorgo con la coda dell’occhio che dall’altra parte della piscina ci sono tre sdraio occupate da tre persone – due ragazze e un uomo – intenti a prendere il sole. Clay mi conduce a una sdraio esattamente dalla parte opposta. Poi si rivolge al trio dall’altro lato:

«Ciao ragazzi. Questo è il mio amico Piero.»

Una delle due ragazze, in occhiali da sole e bikini rosso, il braccio destro che penzola con un tablet in mano, solleva pigramente il braccio sinistro e fa ciao. L’altra, tenendosi sul davanti il reggiseno slacciato – è a pancia in giù – si volta verso di me.

Clay le ignora e continua:

«Piero, quelle sono Fiona» e mi indica quella col bikini rosso, «Laurel» e indica quella in top, «e quello è Aidan»

Aidan si mette a sedere – è un marcantonio nero come la notte – e nel raccogliere da terra il bicchiere di limonata, mi fa anche lui ciao con la mano. Clay allora torna a indicarmi la mia sdraio.

«Tu mettiti qui tranquillo, non farti notare, non disturbare. Io sarò di ritorno in un paio d’ore. Se proprio vengono a cercarti, ma ne dubito, tieniti sul vago.»

Mi siedo, malinconico.

 

Clay sarà un rompiscatole, ma è un amico e ci tiene che io non mi immischi con le sue sorelle; sicché per prima cosa mi spalmo la crema, poi mi stendo e leggo una mezz’oretta. Siccome però il sole cuoce e il romanzo è palloso, mi viene voglia di fare il bagno; detto fatto, mi volto verso l’acqua limpida.

O almeno: provo a voltarmi, ma qualcosa mi trattiene.

Per un attimo – solo per un attimo, quell’attimo che si confonde tra ricordo e sogno – mi è parso che le due sorelle di Clay mi stessero guardando. Le loro teste si voltano entrambe, l’una verso il sole, l’altra verso il suo tablet, nel momento esatto in cui entrano nel mio campo visivo. Aidan dormicchia.

Chiudo gli occhi. Mi tocco la pancia: sono sovrappeso, ho passato i trentacinque, queste sono due ventenni e c’è un ragazzone alto due metri che fa flessioni tutti i giorni. Devono reagire alla mia vista come se vedessero qualcosa di disgustoso. Forse sorridevano per lo schifo. Inghiotto una lacrima e mi metto in piedi sotto il sole, per poi arrancare passin passino verso il bordo piscina e lì calarmi in acqua, in silenzio e ignorando il contrasto tra pelle bollente e acqua fresca.

Passa un’altra mezz’ora in cui mi comporto più o meno come un ippopotamo, muovendomi a balzelloni dal fondale alla superficie. Insensibilmente vengo attratto dalla parte opposta a dov’ero e, fingendo di badare a tutt’altro, scruto i tre personaggi. Ma che avranno di strano queste due sorelle? A tutta prima niente, anzi – sono entrambe molto belle. Una delle due, Fiona, ha il profilo di Clay, che è poi quello della loro mamma; il viso di Laurel invece è evidentemente quello del padre, ma non ha la sua mascella quadrata. Fiona in questo momento è sdraiata a pancia in su e si è voltata verso Aidan, seduto accanto a lei con la musica nelle orecchie. Intrecciano tra di loro le dita delle mani, come polpi in vena di sussurri. Laurel invece, sempre a reggiseno slacciato e sempre a pancia in giù, continua a guardare non più il suo tablet ma un libro, consentendomi di notare la rotondità delle chiappe e un bottone roseo tra seno e sdraio, dolcemente schiacciato contro la parte sopra del bikini.

Mi sono messo con Lucia più o meno alla loro età; e in un batter d’occhio ecco che ho trentacinque anni, e Iddio mi mette di fronte due ragazze appena ventenni, come se al mondo fossi invecchiato solo io, e il treno del sesso avesse fatto solo una fermata utile.

Mi appoggio al bordo piscina e dico a Laurel, a bassa voce:

«Che coraggio, a leggere Saul Bellow»

Continuo a fissare l’areola rosea che spunta tra sdraio e seno, a sua volta una pera soffice come un marshmallow. Mi turbo a pensare di poter mettere il naso in quel seno e sentirne i profumi. A disagio, premo sott’acqua il bacino contro il bordo della vasca. Che non mi abbia sentito?

Mi ha sentito eccome, perché si volta e mi risponde, a bassa voce:

«Non ti piace?»

Tossicchiando, rispondo:

«Ne ho letti tre. Una fatica tremenda»

Sorride, mette il segnalibro, si alza e, sempre reggendosi il bikini al petto, viene a sedersi accanto a me coi piedi a mollo. Mentre si riallaccia il reggiseno, ho modo di sentire sulla faccia il profumo della carne nel fiore dei venti.

«Ma se non ti piace, come hai fatto a leggerne addirittura tre?»

«Ero giovane» bofonchio. «Sai a vent’anni, quanto si è cretini»

La conversazione continua sottovoce, col sole a cuocerci e il cloro a riempire ogni angolo d’aria. A un certo punto faccio notare, scherzando, che Clay è molto geloso di loro due; infatti sono anni che ci conosciamo e non ci eravamo mai incontrati. Questo la fa ridere moltissimo.

«Ho detto qualcosa che non va?»

«No, per carità, è solo che tutto sommato da Clay me l’aspettavo.»

Non mi leva gli occhi di dosso. Poi si volta verso Fiona e Aidan, che stanno chiacchierando a loro volta, e fa loro un cenno. Aidan sospira. Laurel si alza e procede a gran passi verso la mia sdraio. Annaspando come un cane buttato giù da una barca, la seguo e riemergo dalla parte opposta della piscina. Laurel intanto ha fatto in tempo a sedersi sulla mia sdraio: mi guarda con un sorrisetto che non mi torna, e ha preso in mano il mio libro. Mi siedo accanto a lei.

«L’hai lasciato al sole. Adesso è bollente»

Non mi viene da rispondere niente di meglio di: 

«La carta calda odora di buono.»

Un secondo dopo ho una brevissima fitta di mal di testa, e mi rendo conto che il libro (il Diario di un curato di campagna di Bernanos. Ma cosa mi diceva il cervello…?) ce l’ho in mano io. Non ricordavo che le mie mani, e soprattutto le mie braccia, fossero così lisce e bianche. Non ricordavo di avere un seno, o un costume rosso a coprirlo. Mi tocco il viso senza barba e le labbra divenute sottili.

Torno a guardare il volto di Laurel. Ho davanti il muso di un maschio, col nasone come il mio – anzi: col mio naso, la mia bocca e i miei occhi. Per un attimo penso di essere allo specchio: sullo sdraio c’è un tizio uguale a me. Ma qualcosa nello sguardo della mia copia non quadra. È lo sguardo di Laurel, che ha smesso di sbattere le palpebre, e mi fissa con l’intensità di un crotalo.

Quando parla, parla con la mia voce:

«Adesso ti faccio vedere una cosa, Piero»

«Cosa mi fai vedere?»

E questa è la voce di Laurel. D’istinto, aggiungo:

«Non ci saremo mica…?»

E faccio il gesto come di chi ha cambiato il posto a tavola con quello davanti a sé. Ma Laurel non smette di fissarmi, anzi mi mette addosso le mie braccia, più muscolose delle sue.

«Ti faccio vedere una cosa bellissima. È un gioco. Ma devi continuare a fissarmi. Altrimenti ti distrai e non viene bene.»

Usando le mie mani come pinze, Laurel afferra i suoi seni, che adesso sono i miei. Con la coda dell’occhio mi accorgo del seno florido e dritto, da ventenne, che ho sul mio petto completamente glabro. Il bikini rosso, a triangolo, non schiaccia e non allarga – sono proprio le mie tette, solo che non sono le mie. Le sento gemere sotto le dita invadenti di Laurel.

Accanto a me ora stanno in piedi Aidan e Fiona; Aidan si china e mi offre una canna.

«Ti va? Distende»

«No» lo ammonisce Laurel. «Il corpo è mio e non ci voglio schifezze dentro. A parte questa che sto per metterci»

E indica il suo costume. Riconosco il mio coso che lo tende dal di dentro.

«Ma dai, Laurel» esclama Fiona. «Che ti fa un po’ d’erba?»

Laurel ribatte che anche se adesso ci sto dentro io, il corpo è comunque suo e se lo gestisce lei; sua sorella capisce l’antifona e la pianta lì. Con delicatezza, ma facendomi anche sentire la forza del mio corpo maschile, Laurel mi costringe a sdraiarmi. Aidan ci copre con un telo.

«Tu rilassati. È divertente» fa Laurel, sempre fissandomi. Incastrato in quello sguardo, sento una strana dolcezza che mi percorre dalla punta dei piedi alle orecchie. Con Laurel sopra di me, corro per un attimo con le mani sul corpo che ora abito, e sento i fianchi stretti, le gambe lunghe e lisce, e una mancanza vistosa nel mio inguine.

Laurel dal canto suo, tenendomi fermo con un braccio, con l’altro si sfila il costume, e poi mi toglie il mio. Fiona intanto si è seduta accanto alla sdraio, facendo partire sullo smartphone Love you so bad di Ezra Furman. Aidan tiene fermo il telo e sbadiglia. Io sento qualcosa di dritto e duro che bussa molto in fondo, nella tenebra sotto il tessuto; e solo quando entra realizzo che ho un’apertura proprio in mezzo alle cosce, di cui sapevo l’esistenza in astratto, e in cui sono pure stato più volte, ma che – maschio cis – non ho mai avuto io personalmente. Imputo a questa mia ignoranza la sensazione, un pizzico dolorosa, di essere eviscerato come un pesce al banco frigo.

«Mi fa male, Laurel» sussurro.

«Rilassati e guardami», impone Laurel fissandomi. Sento il peso del mio corpo sopra di me, e la mia voce che ansima e grugnisce. Non sapevo di suonare così simile a un maiale. Con la coda dell’occhio, acchiappo lo sguardo di Aidan, che dice:

«Lo fa sempre anche Fiona con me, sai»

La guardo con aria ebete, cercando, per il disagio, di non essere lì con la testa.

«Eh?»

«Questa cosa di scopare coi corpi scambiati» dice lui. «A loro piace così»

«Loro chi?» domando io sempre più inebetito.

«Laurel e Fiona» risponde.

Fiona prende la parola:

«Senti, pare che stiamo qui a farti un dispetto. Si capiva lontano un miglio che volevi scopare con me o con mia sorella. È precisamente quello che sta succedendo»

Con le lacrime agli occhi, mugolo:

«Proprio precisamente, no»

E Fiona, sollevando il telo:

«Io dico di sì. Guarda: regolare come in un manuale di anatomia. Sei fidanzato, Piero?»

«Lasciato da poco»

«Adesso capisco perché ci guardavi così famelico. Non vedevi l’ora, eh?»

«Io quando mi sono lasciato con quella prima di Fiona, pensavo solo a scopare. Ma sempre, capisci? Ossessionato» interviene Aidan. 

«Ma non potreste usare un dildo, anziché scambiarvi di corpo?» rantolo mordendomi il labbro, mentre Laurel nel mio corpo ansima e urla.

«Non è la stessa cosa» risponde Fiona. «La sensazione di avere un pene è completamente diversa dall’avere uno strap-on. Pensa a quanto sei stranito tu, ora, di avere una vagina»

E mi tocca concordare. Però sono sempre più a disagio. Laurel-nel-mio-corpo viene con un ruggito. La sento uscire da me e sdraiarmisi addosso. Aidan toglie il telo. Due corpi nudi su una sdraio, prima accaldati, prendono improvvisamente il vento fresco della sera. Meccanicamente stringo Laurel. Non mi ero reso conto di avere tanti peli.

Laurel pare sonnecchiare per un po’, accasciata su di me; poi apre gli occhi, e:

«Fai il bravo e non dire niente a Clay. Lui non ama quando giochiamo con i suoi amici»

«Ok.»

E un secondo dopo sono di nuovo grosso, peloso e accasciato sul corpo di una ragazza di vent’anni che mi guarda con un ghigno malvagio, triangolare. Lentamente mi alzo, mi metto le mani all’inguine, lo sento arrossato e viscido come dopo un grande piacere. Indietreggio, incespico, indosso il costume, mi risiedo sulla sdraio, preda di un tremito incontrollabile. Laurel, anziché rimettersi il bikini, si alza in piedi nuda e trionfante; alza le braccia, chiude gli occhi, e assapora la forza del vento che viene dall’oceano, indorata dal sole.

«Non sei stato male, coso»

«Piero»

«Piero, scusa. È stato divertente giocare, ce l’hai anche grosso. Se ricapita l’occasione, penso che farò il bis. E non fare quella faccia, hai appena trombato»

Deglutisco qualcosa di orribile in gola. Laurel non aspetta la mia risposta, che è comunque perfettamente superflua; si rimette il costume e se ne torna alla sua sdraio, lamentandosi che le brucia un po’ la pelle attorno al perineo – colpa mia, ero troppo rigido.

 

Passo le successive ore a fingere di dormire, rannicchiato in posizione fetale; ho un groppo in gola e vorrei singhiozzare, ma ho talmente paura che non emetto un suono. A ogni rumore che sento, mi scappa un gemito sottilissimo: e se una delle due stesse tornando per la seconda razione? Finalmente, al tramonto, ritorna Clay scusandosi del ritardo. È in costume e ha con sé un telo; si siede sulla sdraio accanto a me. Io, che fingevo di dormire quando l’ho sentito arrivare, fingo di aprire gli occhi solo in quel momento.

«Ehi, ciao. Bentornato»

La voce suona rugosa, come uno che non parla da anni.

«Ciao Piero. Tutto bene qui?»

«Sì»

«Le mie sorelle non ti hanno dato fastidio?»

«Non ci ho proprio parlato, sai? Mi sa che ho dormito tutto il tempo»

«Puoi dormicchiare ancora un’oretta, se vuoi» mi dice Clay con un sorriso, mettendomi una mano sulla spalla. «Poi ti porto fuori a cena.»

Per poco non sono scoppiato a piangere quando mi ha toccato. Mentre si sistema sulla sdraio e apre il tablet, gli do le spalle, sempre raggomitolato. Ma così non posso fare a meno di vedere, dall’altra parte della piscina, Laurel Fiona e Aidan. Laurel per caso incrocia il mio sguardo e mi fa ciao con la mano, sorridendo. Allora mi metto a pancia in giù e chiudo gli occhi, aspettando che cali il sole.

Immagine generata con DALL-E
“a swimming pool with an inflatable pink flamingo, a deckchair by the pool with a girl sunbathing on her back, impressionist style painting”