Una storia normale

Venerdì 7 luglio ci incontreremo per la prima volta a metà strada tra casa mia e casa tua.

Prenderemo un gelato e ci siederemo a chiacchierare su un muretto, nient’altro. Io ti chiederò qual è il tuo film preferito, tu mi dirai che mi vedresti bene come organizzatrice di matrimoni. Mentre saremo l’uno davanti all’altra, e tu te ne starai con le gambe divaricate, sicuro di te, a cavalcioni, io cercherò di guardarti negli occhi, ruotando un po’ il busto. Avrò indossato il mio vestito bianco di pizzo (il più carino che ho), e mi toccherò i capelli in continuazione. 

Sarò agitata.

Inizieremo a sentire questa incredibile chimica, e cominceremo a farci domande sempre più intime e incalzanti: allusive, certo, ma non troppo, perché in fondo non ci conosciamo e nessuno dei due vorrà dare l’impressione di essere rimasto colpito dall’altro. Andremo avanti così a lungo e si farà notte fonda: saremo gli unici ancora in giro.

Da questa istantanea non c’è modo di capire che, per un mese e quattro giorni, io e te condivideremo qualcosa che per me sarà bello e vero e sincero. Non lo saprà nessuno. Tu mi tratterai bene, benissimo, tutte le sette volte che staremo insieme. Sarà la nostra personale variante del mito della Creazione.

Ma di quelle gambe penzoloni, ai due lati di un muretto di pietra, non resterà altro che la mia immagine mentale: Reebook bianche ai piedi di un ragazzo che adesso non mi amerà mai e che non mi darà più i bacini sul naso.

Venerdì 7 luglio pomiceremo appassionatamente davanti alla mia macchina, dopo che io avrò provato a scansarmi per baciarti sulla guancia (sarà un tentativo maldestro in cui non crederò nemmeno un po’). Quando tornerò a casa, seduta al posto del guidatore e con le mani sul volante, non avrò alcuna voglia di tornare alla mia vita. Da sola, in auto, mi sembrerà strano, ma mi sentirò anche euforica. Non riuscirò a smettere di sorridere e invierò un messaggio alla mia migliore amica per dirle quanto mi sento bene.

Lunedì 10 luglio ci vedremo ancora. Mi dirai che ti sembra di conoscermi da un sacco di tempo e sarà bello da sentire, una vera delizia. Sarà come fare il bagno nello yogurt alla fragola. Mi verrà da sorridere a pensare che c’è stata un’epoca in cui non ci eravamo nemmeno conosciuti e mi chiederò: ma cosa stavo aspettando? Di chi mi sono accontentata? Come ho fatto a sprecare tutto questo tempo? Mi domanderò cosa può mai combinare nella vita una persona da sola. Penserò al mito platonico delle metà mancanti e nella mia testa sarà tutto incredibilmente sdolcinato. 

Lunedì 10 luglio mi bacerai prima lento e poi veloce sul Ponte di Santa Trinita, e ce ne fregheremo della gente intorno a noi. Quando ti fermerai a guardarmi, nelle pause tra un bacio e il successivo, io non riuscirò a non fissare i tuoi occhi verdi da cucciolo. A pensare che sei bello, e dovrai perdonarmi per lo stato di trance libidinosa in cui precipiterò. Mi sembrerai talmente cremoso che vorrò mangiarti a cucchiaiate come una coppa gelato. Ma anche farti le carezze. Ci baceremo con intensità per davvero molto tempo e parleremo di un sacco di cose: di com’eravamo al liceo e degli sport che abbiamo fatto da piccoli. Mi racconterai del tuo amato professore di Lettere. Rideremo tanto che non te lo immagini. 

Nei lunghi istanti di silenzio mi concentrerò sui dettagli del tuo viso. Esaminerò linee e ombre, scrutandole nei minimi particolari, e capirò che ogni forma contiene in realtà un universo. I capelli saranno un fondo di caramello bruciato o un’antica anfora ritrovata nel mare da un palombaro. Le ciglia nere sfarfalleranno ricoperte di miele, faranno esplodere i bagliori delle luci dei lungarni come una piccola colorata commozione cerebrale. I tuoi occhi, il pigro fondale di un lago. Le orecchie risplenderanno per l’anellino d’argento: fumo e lama scintillante. La pelle sarà al tempo stesso lattea e di platino, ci saranno il sangue e la neve. Le tue lentiggini una galassia di ruggine da percorrere con calma. Guarderò le tue labbra e non avrò dubbi: sottili e bagnate di saliva. Spicchi semiaperti su un inferno aspro e dolce, di pesca. Vorrò succhiarle.

Lunedì 10 luglio mi prenderai per mano e, anche se è una cosa che ho sempre odiato, non lo odierò. Mi farà strano, e ci penserò una volta rientrata a casa, in cucina, appoggiata al piano dei fornelli a cincischiare con l’etichetta della bottiglia dell’acqua a notte fonda. Perché rendo sempre tutto complicato? penserò, prima di andare a dormire.

Domenica 16 luglio, non so se sarà per il vino che berremo a cena o per l’aria fragrante del solstizio incipiente, o se magari è una cosa che può capitare, a volte, ma acquisirò dei superpoteri. Sarà una serata di risate, vita, sesso e carezze e corpi sbattuti addosso: combatterò con i pugni e con i denti contro i miei demoni – veri e propri demoni neri senza volto strafatti di tramadolo alti come grattacieli. Rimarremo svegli e sarà già lunedì. In quel parco a guardare il panorama e sparare cazzate mi farai sentire come se fossi fatta di sabbia magica, satolla e serena, farcita di senso come un bignè, e ogni OGNI! parte del mio corpo sarà attratta da te. È la ragione per cui cercherò di proporti una versione di me condita da una certa dose di spacconaggine. Roba come “non sei così importante” o “la mia vita è un casino ma mi piace com’è” e puttanate simili che ci raccontiamo per sfangarla a fine giornata. Farò la gran fica che ha scopato e si è drogata – quando si dice i traguardi – e ti racconterò della mia vita a Helsinki, della galleria di corpi solitari che era diventato il mio letto quando avevo vent’anni, e che non ho mai amato nessuno, e quanti ne ho fatti soffrire, voglio dire, e non dirò che ha fatto male ogni volta che vi siete rivestiti in fretta, ci rivediamo, allora? Sì, certo, ti scrivo, dai, questo è un periodo pieno, ho molte cose per la testa, mi faccio vivo io, va bene?

Mi sono sentita uno schifo ogni volta. Appunto. Ma come fanno le ragazze, – mi chiedevo – come riescono, ad essere sé stesse?

Domenica 16 luglio sarò lusingata dalle tue attenzioni e dalla tua mano sinistra sulla mia coscia destra. Il tuo “Vieni a casa mia?” riuscirà addirittura a rendere gustosa quella schifosa insicurezza che mi ha tenuta inchiodata per un’ora davanti allo specchio, a passare e ripassare il rossetto, a sfumare la matita sulle palpebre per far sembrare naturale il risultato di un esercizio tecnico.

Quando mi dirai che sono bella, un brivido mi arpionerà la bocca dello stomaco e sentirò il basso ventre contrarsi perché avrò smesso di sentirmi invisibile.

Appena sfiorerai la punta del mio naso con la punta del tuo, le mie sinapsi andranno completamente in tilt. Molto in profondità, molto piccina, molto spaventata, ci sarà una bambina bisognosa di quella delicata gentilezza. 

Domenica 23 luglio mi sembrerà di non doverti spiegare nulla perché in realtà sai già tutto. Sarà una sensazione confortevole. Una cosa semplice che ti fa stare così bene.

Domenica 23 luglio mi porterai in quello che dirai essere uno dei tuoi posti preferiti, e io ci crederò perché divento un po’ scema quando si parla di certe cose. Non penserò, in modo razionale, che si tratta della balla fumante che vendi a tutte le ragazze che frequenti, e mi sembrerà un sogno quel tuo generoso atto di condivisione, una cosa magica. Perché sono sempre così merdosamente disponibile a credere a ciò che mi fa comodo. 

Ci sdraieremo l’una sull’altro. Appiccicatissimi su quel lettino. Potrò sentire distintamente il cuore batterti nel petto e saremo le uniche due anime nella notte. Misurando il ritmo del tuo respiro e studiando le pieghe della tua camicia, non sentirò il freddo o le ore. Vorrò allungare quel momento perfetto, vederlo dilatarsi ed esplodere in schegge luminose di anni luce. Mentre ci baceremo, respireremo a fondo, e quando le nostre lingue si intrecceranno, sentirò un brivido delizioso diffondersi nella pancia e risalire rapido su per la spina dorsale. Sentiremo l’una il calore dell’altro. Mi sboccerà nel cuore. La mia bocca si poserà su ogni centimetro della tua pelle scoperta; tu mapperai con i polpastrelli i luoghi di piacere sul mio corpo e mi dirai che sono liscia e sexy. Sarò bagnata, anzi, allagata, anche se non ci toglieremo i vestiti. L’odore del desiderio impregnerà l’aria: saprà di terra umida e fiori strappati. Con il ginocchio sinistro premuto contro la tua erezione, non potrò fare a meno di pensare che il tuo corpo sia un pianeta sconfinato di territori da esplorare: prati su cui banchettare e gole in cui sprofondare, viva ed eccitata. Vorrò farti provare qualcosa di più e darmi alla pazza gioia su di te. Tu mi accarezzerai i fianchi e i capelli. A un certo punto, mentre saremo stretti in silenzio ed avremo smesso per un attimo di baciarci, guarderò in su e proverò una sensazione nuova, bella ma incerta. Non vorrò scappare. Non mi sentirò in colpa. Fantasticherò per un attimo sul domani, mi abbandonerò a questo lusso, per una volta, senza avere paura. Niente mi sembrerà vuoto e non mi era mai successo. 

Non proverò dolore e tutto sarà dolce.

Giovedì 27 luglio, mentre starò già guidando per venire da te, mi telefonerai per dirmi che hai avuto un contrattempo: vorresti stare a lungo con me, le volte in cui ci vediamo, ma quella sera – sei mortificato – non riuscirai. «Però non t’incazzare, per favore» mi dirai. «Scusami».

Aggiungerai che ti andrebbe di parlare, di stare un po’ al telefono, ma io non ne avrò voglia. Mi chiederai di chiamarti più tardi, quella sera, ma andrò al cinema e non ti chiamerò affatto. Proverò rabbia e delusione. Mi sentirò vagamente triste. Un fantasma invisibile da avvisare all’ultimo. Mi ero vestita carina.

Nei giorni successivi sarai molto bravo a recuperare terreno. Sceglierai le parole migliori per scusarti di nuovo e io cancellerò tutto. Ti perdonerò. 

In fondo non ci sarà molto da perdonare. Gli imprevisti possono capitare.

 

Martedì 1 agosto partirò per le vacanze. Una settimana in solitaria, originariamente.

Ma mercoledì 2 agosto salirai sul tuo camper e guiderai 7 ore per raggiungermi. Arriverai tardi, ben oltre l’orario di cena. Ti aspetterò, comunque. Mangeremo la pizza e faremo l’amore. 

Sesso. 

Scoperemo (?).

Mangeremo la pizza e scoperemo sul letto a una piazza della mia stanza d’hotel, in cui ti sarai intrufolato di nascosto. 

Scoperemo ancora, sempre sul letto singolo, sempre nella stessa posizione. Mi chiederò se farlo da dietro ti piaccia così tanto perché ti rende più facile immaginare che io sia qualcun’altra. 

Giovedì 3 agosto e venerdì 4 agosto esaurirò il tuo corpo. Lo berrò. Tu farai lo stesso con il mio, e sfiorerò l’orgasmo più di una volta, ma più di una volta non verrò. Toccherai e guarderai tutto di me, entrerai dentro di me, ti farò sentire al caldo, tu mi farai sentire al sicuro. Io non lo sapevo. Che il mio corpo potesse sentirsi al sicuro sotto quello di un uomo.

Non lo sapevo.

Tu non saprai mai perché non lo sapevo, non basterà il tempo per spiegarti.

Mercoledì 2, giovedì 3 e venerdì 4 agosto mi sentirò davvero molto nuda ed esposta. Ma non per il sesso (o non solo per quello). Mi sentirò come il cassetto della biancheria in cui dei ladri hanno rovistato indebitamente, alla ricerca di soldi o gioielli. Il Museo di Me Stessa aperto, in orario di visita, le porte spalancate e ogni opera appesa al muro o dentro una teca o su un piedistallo. Illuminata brutalmente dalla luce calda dei fari a led; due righe in croce per spiegare di che pezzo si tratta. Cristo quanto farà paura questa stramba versione di me al microscopio. Illustrata e dissezionata.

Per tre giorni rimarrò affamata. Carnecuoremente. Di continuo. E la fame investirà tutti quanti i miei sensi ogni volta che percorrerai con le dita o con la lingua i miei vasi sanguigni violacei. Ogni volta che la tensione si romperà in una risata a grappolo. 

Ah, quanto rideremo! Una cosa che non ho mai visto. In certi momenti non riuscirò neppure a guardarti senza rischiare di pisciarmi nelle mutande.

Ogni volta che mi guarderai inarcando le sopracciglia, io penserò: wow, cristo. Smettila. Vorrò cullarti e divorarti. Farmi piegare come un vecchio maglione infeltrito. Spalmarti la crema sul viso e graffiarti la schiena, assaggiarti tutto, TUTTO! Mi sentirò debole ma anche molto forte. Bella, poi di colpo mostruosa. Una cosa terrificante. Un desiderio tale che mi darà la nausea e vorrò vomitare, mozzarmi la testa e guardarla cadere nel cesso. Splash. Una tenerezza tale che vorrò spalmarti sul pane come burro caldo, inginocchiarmi faccia a terra e versare le mie lacrime, smarginata e fusa nell’abbraccio totale di un padre infinito. Non me lo merito non me lo merito non me lo… merito.

Le tue amarene asprine, diosantissimo. Quando inizierai ad ansimarmi sul clitoride dovrò staccare il cervello per riuscire a contenere tutta quella generosa elettricità e non saltare in aria. Avrò i muscoli sciolti in una vampa di calore. Con due dita dentro mi sentirò troppo sensibile, giuro, un ordigno: avrò bisogno di chiudere gli occhi, sazia e beata con le braccia gettate all’indietro e la bocca spalancata in vocali piene di piacere. Sarà come avere il vuoto in testa e sentirlo uscire con un fischio dalle orecchie. Ci abbracceremo e ci baceremo teneramente sulla bocca, poi. Sarà caldo e sicuro. Diventerà nucleare.

Per tre giorni, con te, sarà un’esistenza subacquea senza tempo. Né passato né presente né futuro. Somiglierai all’immagine di un ragazzo che mi piace, uno con cui mi sento davvero bene. Il tuo mistero… non mi era mai successo. Somiglierai ad un sentimento. Uno talmente piccolo e impaurito che potrebbe viaggiare nel flusso sanguigno e scorrermi nel corpo per chissà quanto.

Quando, dandomi le spalle, mi racconterai delle tue cicatrici passate e presenti, la tua voce suonerà diversa, e io capirò che nasconderti è un favore che credi di fare a te stesso. La tua studiatissima sicurezza, una maschera d’argento sopra un dolore profondo. Osservando le tue parole scoppiettare come scintille e cadere a terra alla ricerca di una tana, proverò il desiderio di raccoglierle e chiuderle a chiave dentro di me. Ti guarderò – tu non mi vedrai – come a voler dire calma, non serve che aggiungi altro. Ho capito. Anche le cose che non ti va di spiegare… le ho capite. Lasciale scivolare via, ecco, lascia che se ne vadano, che precipitino in qualche posto lontano da qui.

Per tre giorni vorrò conoscerti a fondo e lo bisbiglierò ad ogni piega del tuo corpo. Sarà un bisbiglio sottile: cerchi disegnati con il pollice o le altre dita sotto al mondo superiore delle cose. Prenderemo in giro un sacco di persone e inventeremo storie su di loro: mitologie tragicomiche di cui, alla fine, non ci importerà niente. 

«Lo sai che so fare i cerchi di fumo con la bocca?» dirai, e io dirò: «Fammi vedere».

E finirà così. 

Le serate passate insieme erano in realtà una prova generale per la gran pièce di agosto. Lo capirò l’11, quando, per telefono, mi lascerai dicendomi che non avevi mai conosciuto una persona come me, che non ti era mai capitata una cosa così, ma non sei pronto. Non per una cosa seria

Ti sento biascicare questa parola – “seria” – come bolo appiccicoso. Chew Chew. Non sono pronto per una cosa seria. Ma che cazzo vuol dire? 

Comunque, non importerà. Io mi sarò tenuta pronta: tutto mi avrà spinta impercettibilmente verso questo momento. La tua dolcezza, le tue parole, il tuo gran gesto romantico, il futuro di cui mi avrai parlato, prova solo a pensarci. Non dirò che mi verrà da piangere, una volta chiusa la telefonata. O che mi sentirò cancellata. Annullata. Una che non è mai esistita. Una da cui hai preso qualcosa indebitamente, che hai derubato e non lo sapeva. La vecchietta che fa entrare in casa l’impiegato dell’azienda del gas. Quella a cui sparisce la pensione e chissà chi gliel’ha presa. Forse il bel ragazzo gentile? Il mio cuore nudo ferito. Non avresti dovuto.

Ma non pronuncerò nessuna di queste frasi melense da poveretta. Dirò così, invece:

che, quando sarà mattina, e i tre giorni saranno passati, all’alba di sabato 6 agosto, noi non esisteremo più. La nostra storia o quello che era. Non esisterà più. Bruciata come un insetto attratto dalla luce. Ci saremo dati un ultimo bacio la sera prima, nel parcheggio bagnato di pioggia, ma il 6 agosto torneremo ad essere sconosciuti. Saremo due che si sono a malapena incontrati, e l’11 non arriverà. 

È stato bello, e chissà… magari riuscirai persino a concordare. Forse è stato il momento ad essere sbagliato, dopotutto siamo due persone diverse, con storie diverse, e forse ho deragliato. Ma sì, dev’essere stato così: ho preso una sbandata, mi sono infatuata (scema!) e ho frainteso tutto. Cose che capitano, in fondo, non vuol dire che abbiamo sbagliato o che siamo cattive persone. Sto usando il plurale, vedi? Perché magari è stato difficile anche per te, non importa che fossi su un’app di incontri una settimana dopo avermi lasciata. Una foto molto bella quella che hai postato là sopra, peraltro, con gli occhiali da sciatore… l’hai scattata quando eravamo insieme, io stavo a dieci metri da te. Ma non mi hai inquadrata, hai fatto bene ad usarla. Il tuo fottuto i-Phone. Già, scusa se ti ho spiato. Scusa. Ché poi, a proposito, com’è che hai smesso di seguirmi sui social? Cioè, sì, insomma, non che ci tenga, a questo punto, figurati, che cosa ridicola da dire, ma ecco… davvero t’importava così poco di me? Meno di zero, intendo. Davvero non hai saputo-voluto trovare uno spazio, un pertugio piccolissimo per me in mezzo a 945 fottutissimi seguiti? È proprio così sterminato questo nulla… che sono? Aahh, non importa! Non è colpa tua. Siamo esseri umani deboli, fragili, tiriamo avanti in circostanze improbabili e ci può stare che io sia stata un effetto collaterale. Sicuramente non volevi farmi male. Succede di ferire la gente, no? E questa ferita che ho adesso non è niente, in fondo: poco più di una sbucciatura o un taglietto con la carta, una cosa talmente piccola, voglio dire… e se lo ripeto più volte e con sufficiente convinzione, riesco addirittura a crederci. Dopotutto cosa pensavo? Veramente ci avevo sperato? Veramente ho creduto speciale un’affinità come la nostra? Ma no, no, figurati. Anzi, sai che ti dico? È stato meglio così: chiudere subito, prima che potesse succedere il peggio e qualcuno si facesse male sul serio. Grazie per avermi fatto il minimo male possibile, per aver limitato i danni. Se lo scrivo posso crederci. Che andrà bene. Sempre tutto bene.

Me lo ripeto. 

Che quello che abbiamo avuto io e te è stato un niente, un lampo durato un attimo. Una luce remota che si è accesa una volta e ha illuminato le cose del mondo prima di spegnersi per sempre. Un fatto casuale – mistero raro –, una cosa che di certo non succederà più. 

E, se non faremo attenzione, il buio finirà per inghiottirci vivi.

Immagine generata con DALL-E
“a men and a woman are sitting on a wall while eating ice cream see from behind, oil painting “