Pianeta fantasma (Parte 1)

1.

Era stato deciso tutto in poche ore.

Radunammo allo Spazioporto i componenti dell’Unità di Governo Mondiale, insieme a pochi altri rappresentanti di Etnie particolari, di quelle che avevano dimostrato migliore resistenza all’epidemia.

I motori magnetici dell’astronave ronzarono brevemente, si sincronizzò la frequenza di trasporto sulla traslazione spaziotemporale, l’equipaggio prese posto nelle capsule di sospensione vitale, presi un ultimo respiro, poi anch’io mi affidai al neurocalcolatore, mi sarei risvegliato nella costellazione di Pegaso, agganciato alla torre di ancoraggio della città di Terra Futura, sul pianeta HR2550, dichiarato biocompatibile dopo le prime missioni traslazionali.

Lasciavamo la Terra, devastata dall’Epidemia, sperando di tornarci, un giorno.

Lasciavo pezzi della mia vita, e mio padre – che non vedevo da mesi – cocciutamente chiuso nel suo laboratorio di genetica molecolare in una grotta a cinquecento metri sotto il livello del mare, dentro una miniera di salgemma nelle montagne della Cucotka. Insieme a quella sparuta pattuglia di ricercatori che erano riusciti a superare o evitare il contagio, giovani mostruosamente determinati a combattere il Virus.

Era convinto di riuscire a sintetizzare un vaccino contro quel Virus che aveva ucciso 7 miliardi di persone in pochi mesi, e che aveva reso sterili la maggior parte degli animali.

Mio padre mi aveva concepito con metodi tradizionali, prima che il Congresso Eugenetico decidesse di consentire agli uomini di riprodursi solo affidando oociti e spermatozoi alle fattorie umane. Gli somigliavo, così diceva sempre, aggiungendo che da una testa di marmo non poteva nascere un figlio con una testa più morbida, non aveva torto.

Avevo avuto anche una madre, ma era morta mentre combatteva a testa bassa in un reparto di medicina d’urgenza, sopraffatta da uno dei Virus che avevano cominciato a flagellare l’umanità alla fine del XXI secolo.

Era stata una cosa improvvisa, la mattina era in Ospedale, la sera era morta, con i polmoni paralizzati, non ricordo le parole che ci eravamo scambiati durante la chiamata che le avevo fatto dal Cosmodromo, avevo pensieri che andavano troppo lontano nello spazio e nel tempo, semplicemente non avevo ascoltato cosa mi aveva detto quella mattina.

 

Nonostante la sospensione delle funzioni vitali, il flusso dei pensieri non si arrestò, continuai a ricordare quell’ultima volta nella quale ci eravamo salutati con la promessa reciproca di non arrenderci al virus, di non lasciare che la civiltà umana sul pianeta Terra diventasse solo polvere fossile.

Uno degli effetti collaterali del trasporto in sospensione vitale era che la coscienza profonda, liberata dal giogo dei sensi e delle convenzioni comportamentali, mandava in loop continuo tutti i ricordi più remoti, anche se la somministrazione di oligonucleotidi antisenso consentiva di bloccare quelli negativi e dolorosi: una scelta inevitabile dopo che una buona parte dei navigatori stellari avevano avuto turbe psichiche importanti al risveglio, causando il default di molte missioni e la perdita di vite.

Programmammo accuratamente gli androidi che avrebbero sorvegliato la nave spaziale durante la nostra assenza, inducendo in loro anche un certo livello di empatia per le nostre condizioni e istruendoli all’uso degli schermi di difesa da attacchi alieni, anche se non ci era mai accaduto durante le precedenti missioni di doverne fare uso.

Gli androidi: per molti anni erano stati loro a costituire l’unico equipaggio delle navi spaziali in cerca di pianeti ospitali, la neuroprogrammazione eliminava dal boquet dei sentimenti che erano capaci di mimare dall’umano che dava loro un imprinting genetico, quindi non erano in grado di provare tristezza, nostalgia, rimorso, rimpianto. Forse.

Volontariamente avevo regolato la pompa di infusione del mix farmacologico necessario a mantenere lo stato di sospensione vitale sul minimo, volevo rileggere i miei pensieri nascosti.

Il sogno ricorrente della prima missione, quello di camminare nudo su una spiaggia e poi finire sugli scogli fino ad essere portato via dalle onde, era stato sostituito da quello che mi vedeva in giro per i garage della città della mia infanzia a cercare un certo numero di motociclette che dovevano essere in mio possesso ma che invece erano sparite.

Era un sogno piuttosto angosciante, anche perché non avevo mai posseduto una motocicletta, erano state abolite per ragioni di sicurezza da parecchi anni. Forse era un ricordo chiuso nel DNA, un ricordo che avevo ereditato, neanche gli psicologi del Servizio di Trasporto Spaziale erano riusciti a decrittarlo

Alla base spaziale regnava una pace innaturale, sembrava non esserci traccia di presenza umana o androide. La procedura di sbarco era automatizzata, mi ritrovai a seguire i percorsi verso le uscite guidato dalle piste luminose che mi accompagnavano, con unico sottofondo il rumore dei miei passi e dei due androidi che erano scesi con me a terra. Si aprirono automaticamente porte di ascensori, si misero in moto scale mobili e nastri trasportatori, tutto funzionava perfettamente alimentato dai generatori solari che assicuravano l’energia necessaria alla base spaziale.

2.

Ritorno.

Ero un comandante di missione, uno poco abituato a restare a lungo nello stesso luogo, cosicché non appena la mia presenza non fu più necessaria riprogrammai la nave per ritornare sulla terra.

Gli androidi di assistenza al viaggio, perfettamente ricaricati di gentilezza e resistenza allo stress con nuovi software, mi aiutarono a rientrare nella capsula di sospensione vitale, i motori traslazionali si riavviarono con un leggero ronzio, la mente ridusse il livello energetico al minimo, ero pronto per viaggiare nello Spazio Cosmico e tra i miei pensieri.

Sognai i volti degli umani che avevamo trasportato sulla nave spaziale e lasciato su HR2550, sognai oceani immensi che avevo attraversato in barca a vela con mio padre, sognai di essere con lui.

Il viaggio traslazionale mi ricondusse sulla terra.

Alla base spaziale regnava una pace innaturale, sembrava non esserci traccia di presenza umana o androide. La procedura di sbarco era automatizzata, mi ritrovai a seguire i percorsi verso le uscite guidato dalle piste luminose, con unico sottofondo il rumore dei miei passi e dei due androidi che erano scesi con me a terra.

Si aprirono automaticamente porte di ascensori, si misero in moto scale mobili e nastri trasportatori, tutto funzionava perfettamente, alimentato dai generatori solari che assicuravano l’energia necessaria alla base spaziale.

Poi gli androidi si separarono da me, imboccarono un corridoio che portava alla zona dei laboratori e non li vidi più, mentre io passai attraverso i life detector, fui giudicato idoneo e mi ritrovai nell’unità delle abitazioni degli equipaggi. Le piste luminose mi condussero all’appartamento che avevo abitato prima di partire, indossai abiti adatti alla vita sulla Terra, interrogai il personal assistant sulla disponibilità di un mezzo di trasporto terrestre nel parcheggio, presi dalla cambusa una scorta d’acqua e scesi nei garage sotterranei.

Non avevo ricevuto nessun bollettino di aggiornamento sulla situazione dell’epidemia, migliaia di domande mi ronzavano nella testa, alcune le ebbi indirettamente, non appena arrivai nel garage.

Era quasi completamente deserto, tranne qualche mezzo di trasporto visibilmente inadatto alla marcia, sentii le pulsazioni aumentare e azionai il comando di apertura dei box riservati agli ufficiali. Dentro, sotto luci minime, alcuni mezzi erano collegati alle prese di ricarica. Ne scelsi uno di quelli che aveva la massima autonomia e che avrebbe potuto trarmi d’impaccio nel caso avessi incontrato strade in cattive condizioni.

L’idea era quella di partire alla volta della sperduta regione dove mio padre si era rinchiuso in un laboratorio. Il dubbio era che non ci fossero più le condizioni per raggiungere quella destinazione con mezzi di trasporto convenzionali.

Se la popolazione umana era stata dissipata interamente dal virus, come avrei potuto rifornire il mezzo di energia, quando se ne fosse presentata la necessità?

Presi posto al cockpit del mezzo di trasporto stradale, dettai al computer di bordo i miei desideri riguardo al viaggio, il motore prese vita, le ruote cominciarono a muoversi affrontando il pavimento del parcheggio e poi la rampa di uscita verso l’esterno. Non oscurai i finestrini, in modo da potermi rendere conto di cosa avrei incontrato una volta giunto sulla strada che collegava la base spaziale all’autostrada automatica e poi alla città più vicina.

Immagine generata con DALL-E
“a man standing closed in a capsule with a rounded glass wall inside a white spaceship, expressive oil painting”