Matrioska
L’unica, vera, occasione straordinaria che riguardasse l’acquisto di quella macchina, era la possibilità di finirci giù in una scarpata. Questo, il venditore avrebbe dovuto scrivere a caratteri cubitali e in giallo fosforescente sul parabrezza di quel catorcio in offerta. E, forse, loro due avrebbero dovuto prestare attenzione a quanto farfugliava il venditore riguardo al fatto che, con qualche probabilità, non avrebbe superato la prossima revisione.
Massì, cosa vuoi che succeda? Questo: ecco cosa succede.
E mentre l’auto rotolava giù, e i tonfi metallici scandivano il tempo di un vorticoso countdown, Tecla faceva i conti con le occasioni straordinarie, e con la sua vita, e anche piuttosto in fretta, perché chissà poi quanta gliene sarebbe rimasta.
E Zoe, una volta tanto (quella giusta) aveva messo la cintura di sicurezza e non aveva lasciato il piede sul cruscotto ad ondeggiare a ritmo di musica, a volte la fortuna. Era come accartocciata sul lato passeggero, Tecla la vedeva sobbalzare ad ogni capovolta della macchina ma non riusciva a capire se fosse cosciente o meno. Viva, oppure no.
Un viaggio insieme era quello che ci voleva, dopo una serie di tragedie a matrioska. “Dicesi “a matrioska” quelle tragedie che, in maniera sequenziale e proporzionata, si susseguono con un ritmo incalzante, inglobando ogni volta quella più piccola.
Il lato positivo di questa tipologia di tragedie è il cambio di punto di vista, così rapido da permettere di superare il trauma da penultima tragedia, che appare insignificante rispetto alla più recente. Quello negativo è che la matrioska, per tradizione, si compone di un minimo di 3 bambole, fino ad un massimo di sessanta. Sessanta.
Ecco che, quando tutto va a gonfie vele, ti muore una persona, sì perché muore a te, la morte non tocca solo la subisce ma anche (o soprattutto?) le persone attorno. Ed è a lei che muore qualcuno, a Zoe.
Qualche anno di convivenza, un gatto, una quotidianità condivisa e tanto desiderata e poi un incidente improvviso che interrompe tutto. Quel che segue è un colpo al cuore, quando riconosci il corpo, quando lo saluti per l’ultima volta anche se sai bene che quello non è lui, non è più lui, quando pianti un salice in riva al lago, perché era quello il luogo che sognavano entrambi per la loro vita e che, ironia, sarcasmo, crudeltà della sorte, qualche giorno successivo all’incidente, proprio lì, nella cittadina lacustre, per loro sarebbe cominciato un nuovo lavoro, una nuova vita.
E si finisce con un pugno sulla schiena quando fai le valigie, lasci quella casa e, con il gatto sottobraccio, torni dai tuoi.
Tecla, ti devo parlare, è urgente. Chiamami subito, e compratelo un cazzo di telefono: messaggio scritto su un post-it e attaccato sulla parete del bar del quartiere torinese in cui, in quel periodo, viveva Tecla, in una
grande casa abbandonata e occupata dalla comune di cui faceva parte. E lei aveva il suo posto fisso in quel bar che sembrava essere rimasto fermo agli anni ottanta.
Adorava quel bar, forse perché conservava ancora la cabina con il telefono a disco color oliva. Le ricordava quei giorni di inizio estate quando, appena conclusa la scuola, la loro mamma le portava al lago. Ogni tardo pomeriggio avveniva la telefonata di rito di mamma e papà e le due gemelline se ne stavano lì a giocare, ai piedi della madre, sfogliando le pagine bianche, le pagine gialle e tossendo non poco in mezzo a quella nebbia di sigaretta sputata fuori da donne con grossi occhiali fumé, capelli gonfiati da permanenti spietate e unghie smaltate di fresco.
«Voglio venire da te, ho ancora in testa la sua immagine in obitorio, ho preso tutta la mia roba e il gatto e sono tornata da mamma e papà e poi la pandemia, trascorro le giornate in cameretta, fra le mie e le tue cose, ho bisogno di te». La voce spezzata di Zoe, Tecla la conosceva bene e non le piaceva per niente.
Già, perché, ed ecco il secondo livello matrioska. Una pandemia di portata altamente nefasta si scaglia su questo pianeta come una maledizione, e il dolore pare non avere vie d’uscita perché si sta in casa, barricati, terrorizzati da ogni possibile contatto. Si frequenta scuola e si lavora, per chi ancora un lavoro ce l’ha, attraverso lo schermo di un pc, tablet o cellulare. Flussi di persone sono regolati dagli annunci alla tv, il panico collettivo, invece, quello è fuori misura.
In tutto questo Zoe elaborava nella camera della sua infanzia un lutto personale.
Zoe, che non si era mai fermata davanti a nulla, piuttosto oscillava, cadeva e si rialzava, e spesso si faceva un gran male su quelle minute gambe già abbastanza martoriate dalle molteplici operazioni, ora era completamente a terra, ferma.
«Vieni qui, ci organizzeremo per un viaggio, io e te, poi, è da tanto che non trascorriamo del tempo insieme», propose subito Tecla.
Un viaggio in piena pandemia aveva il sapore di una fuga dalla realtà, di un circospetto e vietato spostamento verso un altrove non concesso, ma questo non era che un dettaglio, per entrambe.
Quel viaggio, per loro, era soprattutto un inevitabile quanto necessario ritorno. Anche se ora poteva sembrare soltanto l’ennesima, pessima idea.
Doveva essere un ritorno a condividere intere giornate, pranzi, cene, letti. Come tornare bambine ma con giochi più grandi e complicati fra le mani. Non succedeva da almeno un decennio; certo, ognuna faceva visita all’altra, ma un viaggio insieme sarebbe stato tutta un’altra cosa.
Proprio poco prima, in quel pomeriggio del terzo giorno di viaggio, il cielo sembrava aver preso il sopravvento sul grigiore cittadino. Tecla guidava con una sigaretta di tabacco poggiata nell’angolo della bocca, Zoe giocava ad interpretare le nuvole di diversa consistenza e forma che si sovrapponevano come le macchie di intonaco in parte sgretolato ad altri strati di colore su di una vecchia parete di una casa dimenticata.
Poi, all’improvviso, uno stridore acuto, un tonfo metallico, e la macchina spalancò il guardrail come una latta di cibo in scatola, e giù.
Tecla guardava i tatuaggi di Zoe perdere contorno e definizione, in quella centrifuga senza tasto pause. Tatuaggi e cicatrici sul corpo della sorella erano come coordinate spaziali di un campo di battaglia personale: sulla gamba e sull’anca destra si stagliavano, come profonde trincee, delle lunghe cicatrici, mentre qua e là, un albero della vita di un verde brillante, una forbice chirurgica, un occhio circoscritto in una lente di ingrandimento, un sinuoso serpente e la scritta Iron Lady indicavano una possibile chiave di lettura di quell’esile e cocciuta personcina.
E, mentre, la macchina rotolava lungo la discesa erbosa, i ricordi di Tecla si susseguivano numerosi e rapidi, come a dover trovare, in qualche punto preciso di un nastro mentale, il senso delle loro vite, di quell’incidente, del poco tempo che può rimanere da vivere.
Tecla aveva deciso di lasciare la famiglia dopo le superiori, per intraprendere la vita di studentessa universitaria fuori sede, fuori casa, fuori dalla famiglia: fuori da qualsiasi conoscenza o legame che le potesse far sentire una qualche appartenenza. Avrebbe voluto dissolversi nel nulla e, contemporaneamente, esistere in ogni cosa.
Zoe era conosciuta nella sua cittadina brianzola e nei dintorni, fino al lecchese. Stupiva di lei la rete di conoscenze che le permetteva di collegare persone diverse e disparate per provenienza, interessi, età e stili di vita. Era un’istituzione.
Così, dopo infanzia e adolescenza a dividersi ogni cosa, il distacco. Una volta al mese, Zoe le piombava addosso all’improvviso, con la forza e la velocità di una palla demolitrice in azione. Radeva al suolo quella amanuense pratica di costruirsi spazi propri, realtà personali della sorella. Lei arrivava carica di entusiasmo, e prendeva quello che le piaceva, fosse un modo di dire, un modo di fare, un po’ di tabacco e tutta l’attenzione di chi aveva intorno.
Questa volta Tecla si aspettava che la palla demolitrice arrivasse ad una velocità supersonica. Ne aveva ogni ragione. E l’urto prepotente che attendeva da quasi dieci anni, sapeva sarebbe arrivato, sarebbe stato imminente, ineluttabile e, solo ora, poteva pensare, necessario.
Così è cominciato il viaggio delle gemelle a bordo di una malconcia station wagon, acquistata per pochi spiccioli da uno sfasciacarrozze di dubbia levatura morale. Direzione sud, in cerca di sole e acqua salata che, si sa, guarisce le ferite più profonde. Ma il viaggio si era interrotto prima ancora di poter vedere una striscia blu sottolineare il paesaggio, anche solo da lontano.
La macchina rotolava, Tecla sbobinava ricordi. Pensava a quel loro modo di scherzare fatto di parole chiave che solo loro due potevano capire. Pensava a quel ristorante vicino al lago che loro avevano ribattezzato Bellavista, e non per il panorama, bensì perché, quando avevano circa dodici anni, una domenica a pranzo, mentre si trovavano lì con la famiglia, una signora estremamente elegante in coda verso il bagno ha perso la gonna, rimanendo in mutande davanti a tutti.
I ricordi si alternavano al resoconto della sua vita. Pensava di essersi sentita, per tutto quel tempo, che sperava non dovesse necessariamente coincidere con tutta la sua vita (ma, se così doveva essere, meglio tirare le somme), come un pezzo di puzzle che non voleva avere un’estremità concava o convessa, ma liscia, come quelle lungo il margine esterno. Voleva bastarsi, misurarsi senza dovere paragonarsi a nessuno.
Intanto l’auto si era fermata, adagiandosi sopra un prato come un gatto sul divano. E i suoi pensieri atterravano in un luogo della memoria remoto e placido.
Immaginava la sorella nei suoi atteggiamenti abituali. In una qualsiasi automobile cominciava ad agitarsi incrociando le gambe sul sedile o allungando sul cruscotto, alla ricerca continua della posizione ideale per quella porzione di corpo tagliata, tatuata, asimmetrica, spesso dolorante per le tante cadute, perché non risparmiava loro nessuna esperienza.
Solo qualche ora fa i suoi piedi segnavano il ritmo della canzone alla radio battendo sul cruscotto, mentre cercava il profilo social della nonna soprannominata dalle gemelle Frankie Dettori, il fantino più famoso del mondo, perché la nonna, quando si trattava di scattare, assumeva la posizione di un fantino e la manteneva per un tempo inverosimilmente lungo, per altro.
Ai tempi del trasferimento a Torino, Tecla aveva pensato che, allontanandosi, entrambe avrebbero trovato il loro posto nel mondo, senza quel gioco di specchi in cui erano abituate a vedere ognuna il riflesso dell’altra.
La immaginava, la vedeva mentre camminava, con la sua ostinazione. Camminare era la sua prova di forza quotidiana. Con il suo passo, dettava il ritmo a chiunque avesse a fianco, e il suo incespicare si traduceva in una brusca sospensione collettiva, per poi riprendere, con ancora più decisione, qualche secondo più tardi.
Era sempre stata così: a tre anni, nonostante avesse già affrontato un paio di operazioni per livellare le asimmetrie tra i due lati del suo corpo, si ostinava a camminare e poi a correre insieme alla sorella, e, se innumerevoli erano le cadute a terra, altrettante erano le partenze. Lei non si arrendeva mai e Tecla la aspettava, le tendeva la mano e, spesso, cadevano di nuovo, insieme.
Tecla usciva ora di corsa dalla propria testa per rendersi conto che, in tutto quel metallico roteare, la radio non si era mai spenta.
Zoe era priva di sensi. Doveva essersi protetta con il braccio sinistro tanto era ricoperto da tagli e schegge di vetro. Anche la gamba sinistra sembrava leggermente sovrapposta a quella destra e il bacino leggermente ruotato.
«Dev’essere stata proprio questa la tua posizione quando eravamo nella pancia, ti stavo addosso, togliendoti spazio, procurandoti la displasia, proprio così», sussurrava Tecla guardando la sorella, e, improvvisamente, in quell’abitacolo tutt’altro che rassicurante, aveva la sensazione di aver risolto un grande enigma.
«Avrei voluto darti tutto lo spazio che ti ho tolto, e invece ti ho privato di una parte di me e ho tolto a me stessa una metà. Come inspirare senza espirare, avere sete e non bere, voler piangere e non avere lacrime, avere ragioni per ridere di gusto e trattenersi».
Le sue sovrastrutture erano andate in pezzi insieme alla carcassa metallica che stava guidando e ora non le era rimasta che la constatazione, semplice quanto spietata, dello stato delle cose.
«Tu lo sai, lo hai sempre saputo che queste siamo noi, così spietatamente vere e senza colpe, lo sapevi già che non c’è nulla da correggere, da perdonare, e, anche ora, in un momento del genere riesci ad insegnarmi, tuo
malgrado, qualcosa».
«Stai ancora pensando alla mia displasia? Basta Tecla, perdonati, non è colpa tua…anche se, ora che mi ci fai pensare, questo incidente potrebbe essere un secondo tentativo di farmi fuori…ma la finisci di fare la stronza?» rispondeva la sorella con la sua intaccabile ironia, suscitando lo stupore di Tecla che la credeva svenuta.
Aveva sentito ogni cosa, e Zoe si sentiva rotta, e riparata, contemporaneamente, e finalmente. «E se volevi distrarmi dal periodo di merda che sto vivendo, a livello personale e cosmico, sappi che ce l’hai fatta, a tuo modo, magari discutibile, un tantino eccentrico eh, ma ce l’hai fatta», Tecla cercava di farla ridere, aveva capito che bisognava disinnescare il moto di implosione in cui Zoe ciclicamente ricadeva. D’altra parte, lei, sin da bambina, aveva intuito che la natura e la biologia non hanno morale, e la sua artrogriposi congenita faceva parte di lei quanto i suoi occhi, le sue mani e la sua bocca, e sua sorella. Fare i conti poi, con il proprio bagaglio fisico, mentale ed emotivo, è tutta un’altra storia.
Un rivolo di sangue, intanto, le sgorgava dalla tempia, le segnava il contorno del volto e le scendeva lungo il collo, per poi formare un piccolo lago di forma circolare nel punto in cui si incontrano le clavicole.
«Hai ragione, ora basta, davvero. Voglio godermi questo tempo insieme, sistemiamo questo casino, e poi ci organizziamo di nuovo. Ora Valencia, Barcellona, oppure l’Abruzzo. Rimani con me?»
«Rimango, sempre se non cerchi di uccidermi per la terza volta, il feto perde il pelo ma non il vizio, a quanto pare».
E ridono, e piangono, e ridono.
Le due sorelle, mentre il carro attrezzi caricava quel che rimaneva dell’auto, facevano il calcolo dei danni, il resoconto dei rischi e un’ipotetica lista di insulti materni alla quale non si sarebbero facilmente sottratte, e, al netto di un mondo in recessione, di un’umanità dolorante e germofobica, di lutti familiari e sfighe a matrioska, constatavano quanto, in fondo, ora tutto fosse al proprio posto.
E anche la radio, che continuava a funzionare in completa autonomia rispetto alla ferraglia su ruote, trasmetteva quella canzone, proprio la loro canzone.
Immagine generata con DALL-E
“a broken car on a tow truck, realistic oil painting”