Svariate fermate prima del capolinea
Sono in piedi sull’autobus affollato. Mi reggo agli appositi sostegni. Non mi guarda nessuno. Qualcuno soltanto scivola distratto con lo sguardo sulla mia inquietante figura poi niente, sono tutti calamitati al cellulare o hanno gli auricolari tatuati all’orecchio. Butto una domanda al centro del veicolo, chiedo se: «Qualcuno ha idea di che tempo farà oggi?». In due mi hanno visto, hanno scosso la testa e sono tornati a farsi gli affari propri tra il distaccato e il perplesso. L’ho chiesto perché sono vestito a caso, per sana curiosità e perché l’autunno è già arrivato e tra qualche giorno cambierà l’ora legale. Quando succede m’incupisco per le successive due, tre settimane e divento buio presto anche io, la miopia ci mette lo zampino ed io mi sento ancor più a disagio nel mondo, sia in autobus che nel percorso fino alla mia fermata. E quando sono a disagio mi succedono cose assurde che sono incapace di gestire.
Il cambio dell’ora è un lasciapassare all’inverno, un’ouverture dissonante, non lo sopporto, sancisce sempre l’incombere di qualcosa di malvagio. Dover accendere le luci di casa così presto, veder sbocciare neon dappertutto che scoppiettano nel bel mezzo del pomeriggio col loro rumore gasato - pic pic pipipic - fuochi d’artificio flosci e di un solo colore, sommergono spazi, cose e persone sotto ad un mare di latte insapore.
Fuori, nei riquadri delle finestre, si scorge una pioggerella sottile ed inesorabile, le case diventano celle iperbariche con porte blindate chiuse dall’esterno, dall’eterno. Se piove, poi, nessuno ha voglia di fare un cazzo, si chiudono tutti dentro casa ad inebetirsi, neanche fossero mammiferi in letargo.
Le teste dei passeggeri ondeggiano al sobbalzare del bus sulle buche. Io sono immerso in questo marasma, zitto. Osservo senza capire. Dentro di me la tempesta, fuori di me nulla, zitto! Cerco di muovermi il meno possibile. Privo del coraggio di ripetermi qualunque verità. Mi ero detto ‘la verità ad ogni costo’ e l’unica cosa che ne ho ottenuto è una caduta clamorosa e due grosse ferite sanguinolente sulla schiena. Sono in piedi, mi reggo ad un apposito sostegno, sono tutto storto ma non ho il coraggio di chiedere il posto a qualcuno, non ho raggiunto ancora quell’età in cui puoi avanzare questa richiesta ma soffro e mi incazzo, mi sento un idiota: tanto per cambiare un’altra impresa fallita. Faccio un profondo respiro, mi duole tutto, faccio un altro respiro più breve, comincia a funzionare: si prega di non poggiarsi alle porte.
La porta in salotto è a vetri e quei vetri sono specchi così quando sta aperta, nessuno in famiglia la chiude mai, riflette camera mia. Per la precisione: chiunque sia seduto sul divano in salotto, voltando leggermente la testa può benissimo vedere riflesso nella porta chi c’è sul letto in camera. Mia. E viceversa, seduto sul mio letto posso vedere chi sta sul divano. Guardando adesso, dal lato del divano, vedete me che parlo da solo, seduto al centro del mio letto che, con lo sguardo triste ma risoluto, parlo a me stesso in un mesto bisbiglio. È domenica mattina, tra poco andremo a mangiare dai nonni, fuori è bel tempo ma in casa c’è odore di tempesta. Si è appena esaurita una tempesta: ho preso l’ennesima sgridata per il mio rendimento a scuola. È calato un mesto silenzio, sono confinato nella mia stanza, mia madre si sta preparando per uscire, mio padre è seduto sul divano. Sì, proprio là. Porta, specchi, letto: maledetta triangolazione attuata. Io sto parlando a me stesso a bassa voce. Non lo faccio mai, è la prima volta – e forse anche l’unica in tanti anni – che lo faccio. Sto parlando con me a bassa voce, mi sto ripetendo le sagge parole di mia madre, la sgridata clamorosa per i bassi voti e il comportamento distratto e poco serio. Sto dicendo a me stesso che la devo smettere, che devo comportarmi bene e studiare, che devo essere come Showa che si diverte come un matto – be’ è matto — ma prende sempre ottimi voti! Mi sto descrivendo il nuovo me quando sento un’altra voce poi un rombo. Mio padre sta correndo verso di me ed io lo vedo minuscolo nello specchio della porta del salotto poi ingrandirsi nella realtà fino a piombare accanto al mio letto:
«Ma cosa fai? Il verso alla mamma???»
Io non sono capace di rispondere a questa domanda.
Mio padre alza la voce, sente anche mia madre che arriva di corsa dal bagno truccata a metà. Non so come reagire allora piango, sono giovane, non più piccolo, ma nemmeno grande, calpesto il fragile istmo che mette in comunicazione le due età. Mi sgridano ancora, peggio di qualche minuto prima, forse piange anche mia madre, sono entrambi pieni di rancore, non immaginano che la loro lezione sia già stata impartita, ingerita, digerita ed espulsa: un bambino stava ammettendo a sé stesso il proprio errore e decideva di cambiare.
Ma io non dico la mia versione.
Non dico la verità certo di non essere creduto.
Non immaginavo di venire frainteso a tal punto.
La distanza siderale dalla realtà mi ha lasciato senza parole.
Come un cielo senza sole.
Mio padre mi ha costretto a seguirlo e a fargli da assistente. Ci siamo trasferiti sull’isola e ci siamo rimasti molti mesi per costruire pazientemente un labirinto infinito e complicatissimo dal quale uscire sarà impossibile, così dice lui, e che contiene, al centro, una bestia avida di carne di vergine. La sua bocca produce rumori che fanno tremare la colonna vertebrale, rutta e puzza e sbuffa mentre la povera vittima urla mentre viene divorata viva.
L’abilità massima di mio padre è quella di costruire muri, di restringere il punto di vista, di creare svolte, ridurre lo sguardo - e gli istinti – in direzione della svolta errata. Tutto a terra, con i piedi ben saldi sul terreno, a complicare un enigma che deve condurre all’orrore sommo, la perfezione del male condensato in un animale, il massimo cui si possa aspirare al termine del complicatissimo labirinto da lui costruito.
L’ho aiutato a confezionare quest’obbrobrio di malvagità di cui conosco ogni centimetro, mi ha spiegato tutto, il suo lascito per il mio futuro roseo, ecco il mio posto fisso. Sono anni che va avanti così, ho imparato a costruire un labirinto, ora siamo in due sulla terra a saperlo fare ma mi annoio a morte. Sono sicuro che quello che posso imparare qui è finito, è un po’ che l’ho capito quindi approfitto del tempo in cui non ho nulla da fare e lo trasformo in tempo libero. Progetto, costruisco, creo appendici, attrezzi, sudore, tagli, tentativi e un salto oltre un muro che si tramuta in un decollo.
Voglio rilassarmi un attimo, voglio godermi il volo, le ali sono ben salde sulla mia schiena, le ho fatte grandi e posso volare velocemente e molto in alto. Ho perso di vista mio padre ma lo sento in lontananza urlare di non prendere quota. L’emozione che provo è cento volte più elettrizzante di qualsiasi altra cosa abbia mai provato prima, volo ancora più in alto, il blu del cielo è tutto intorno a me, ancora più in alto, l’aria è purissima e fredda, poi sempre più tiepida, volo più in alto, ora è calda, non ho mai visto il sole così grande, brucia, più in alto, ci sono quasi, la luce brucia, eccolo vicino, eccolo qui, il sole, il sole, sono tutto sole!
Quello che chiunque chiama precipitare per me è un tuffo, tra le mani ho una crosta di coraggio raschiato via dalla superficie del sole.
Le unghie rotte, le mani bruciacchiate, cado a velocità furibonda e impatto l’acqua, vado a fondo e tutto il calore e la luce che ho sentito e visto poco fa si trasformano nel freddo e nel buio che sento e che vedo adesso. Non so cosa provo quindi cedo, mi lascio risalire come un palloncino stracciato. Lentamente arrivo a trovare l’equilibrio tra il fuoco e il gelo sul pelo dell’acqua. Sbuco appena con la testa poi riesco ad emergere anche con le spalle sopra al lungo filo che divide l’ossigeno dall’asfissia. Si sono formati tantissimi cerchi attorno al mio tuffo, via via più ampi e lenti. I primi, più vicini a me, piccoli e quasi frizzanti, sono circondati di minuscole bolle bianche, in lontananza, invece, l’acqua produce increspature pigre, a mala pena visibili, che si confondono con le onde dell’instancabile mare. Un’ala è completamente strappata e dell’altra rimane un tragico mozzicone, una cosa smangiata utile a niente che balla in balia dell’acqua. Ho la schiena collosa, ricoperta di una patina ridicola che non lascia respirare la pelle, brucia come lava la pelle esplosa. Mi fa male tutto il corpo, foderato di lievi lividi e il sale rode ognuna delle mie abrasioni come se nell’acqua potesse vivere anche il fuoco ma ci sono riuscito, sono scappato dall’isola, non vedrò più il labirinto, non sentirò più i lamenti delle vittime, le mandibole del mostro, i miasmi di sangue e morte regolari, quello era il mio calendario, la voce inconsistente e cadenzata di mio padre.
Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta. Esulto e nuoto felice come un bambino, mi strappo via quel che rimane dell’ala, la pelle della schiena ribolle, mi sento rodere da un’orda di topi, sono tutto lacerato ma chi se ne frega, resto orizzontale, l’acqua salata purifica tutto, faccio il morto in acqua, accolgo immobile ogni declinazione del dolore. Guardo in alto e vedo un punto nero che fa ombra al sole, ha qualcosa di familiare, faccio il morto in acqua con gli occhi spalancati, il punto si allarga e si avvicina, è mio padre, le sue ali non si sono staccate, lui vola sempre basso, mi viene a cercare. Io faccio il morto ad occhi spalancati e lui ci crede, se ne va senza tante storie, con le sue poche storie, mi lascia stare morto.
Aspetto alcune ore, la corrente mi porta dove vuole, io ho finito i desideri, attendo già dolorante che ne arrivino altri,riesco a fare alcune bracciate per andare da qualche parte, la mia schiena è da buttare e sento un odore familiare che mi provoca i conati. Riesco a piegare un braccio e ad arrivare dietro di me, ho la mano striata di rosso. Ne è valsa la pena, mi dico ancora, il mio mantra guaritore. L’acqua di mare lava subito le mie mani sporche e bruciacchiate. Continuo a nuotare ma la schiena, lambita dai raggi del sole, brucia e ribolle. Decido di alzarmi in piedi, cammino sulla battigia, non mi ero nemmeno accorto che la spiaggia fosse così vicina.
Cammino piano come se niente fosse e nessuno mi vede. Mi avvicino ad un ombrellone lasciato vacante e rubo un telo a caso e una maglietta. Continuo a camminare come se niente fosse e nessuno mi vede. Le vibrazioni della mia energia sono impercettibili, qualunque azione io compia non scalfisce la superficie del presente. Cammino piano mentre cerco di mascherare il mio corpo ferito e mostruoso.
Non so dove mi trovo ma orientarmi non è difficile, qui non ci sono muri e il litorale è più vasto dell’isola da cui provengo, vista la deferenza, il clima e qualche stramba presenza potrebbe essere il sud della Francia. Mi aggiro in una realtà priva di rumori, io non avverto nessun brusio prodotto dal genere umano che abbraccio con lo sguardo. Oltre la barriera del mio corpo tutto è silenzio. Vado verso il mio scopo, a passo svelto, qualcosa di magico, fuori dall’ordinario. Vago in un diorama o in un presepe vivente, non ci capisco niente. I miei piedi affondano pochi centimetri nella sabbia chiara e fina, indosso pantaloni marroni, bruciacchiati e lisi. Incrocio una coppia che si dirige al mare, sorridono senza rumore, lui sembra avere pressappoco la mia corporatura, sul suo lettino ha abbandonato gli occhiali da sole, indossarli mi dona un sollievo inaspettato, prendo anche i suoi mocassini che mi calzano stretti. Sbollita la rabbia, si divertiranno come matti a fare shopping assieme per ricomprare quel che ora è diventato la mia maschera.
Continuo ad avanzare su una passerella lastricata di grosse piastrelle, il capo chino, il cuore vuoto. Ai tavoli del bar pochi clienti sono nascosti dai quotidiani aperti o hanno metà dei visi nascosti da tazze per cappuccini, abbandono l’asciugamano ormai cucito di fuliggine e sangue, rimedio una camicia scura e una giacca di lino di qualche taglia di meno, qualunque cosa andrà bene per lenire le periferie dei miei dolori. Il mondo pian piano riprende suoni e colori. Supero l’edificio principale dello stabilimento. In una tasca trovo un portafoglio, butto via documenti, biglietti da visita e foglietti sono alla ricerca di qualunque cosa tranne che di una nuova identità, rimangono diversi contanti, una dose di buona fortuna.
La sirena di un’ambulanza mi riporta alla realtà, il suo suono basta a farmi capire il cambio di velocità. Compro un biglietto e salgo sul primo autobus che passa da questo lato.
L’autobus si avvia rapido in un sibilo d’energia elettrica, compie spedito il suo giro fermandosi di frequente, costeggiando il mare senza mai variare. Mi si chiudono gli occhi ed io lascio cadere la cortina pesante delle mie palpebre senza più ciglia.
Dopo un po’ di tempo mi sveglio e mi alzo, l’autobus continua a macinare fermate tra un semaforo e l’altro. Controllo nervosamente l’orologio anche se si è sfilato nell’impatto con l’acqua.
Sono un essere umano che ha un pessimo rapporto con il tempo, sono regolarmente in ritardo e trovo la puntualità una forma di ossessione.
Riguarda l’educazione, è vero, chi tocca quel tasto vince, però a me lascia del tutto indifferente arrivare con cinque minuti in ritardo ogni tanto. Mi reggo agli appositi sostegni. Il mio corpo debole ondeggia fin troppo accuratamente ad ogni svolta del mezzo. Un uomo elegante, super accessoriato, sale di fretta e si siede nell’unico sedile che si è appena liberato sull’autobus ora completamente affollato. Pesta un piede ad una donna che si faceva spazio piano, insieme al suo bambino, non se ne accorge, sta parlando ad alta voce di bot e titoli di stato. Non ce la faccio a parlare, ho troppo male, mi avvicino, catturo la sua attenzione con un sorriso tipo paresi, gli indico la donna che mi vede e lo guarda dritto negli occhi, lui se ne va scocciato, continua a parlare mentre guarda altrove, sentendosi superiore, mi reggo agli appositi sostegni, mi passa vicino ed io lo fisso, cerco i suoi occhi, voglio la sfida ma l’indice Nasdaq mi relega in seconda posizione, ultimo.
È piccolo, è un gesto piccolo, un’azione piccola, fatta di poche semplici parole. Ma ogni gesto ha un valore che smuove il resto delle cose. Senza parlare cerco la verità fuori, in piccoli frammenti che vado pazientemente a raccogliere, ci vorrà tempo, non è più tempo per voli pindarici. Se non sono morto so di essere fortificato. Per capire un’inezia bisogna compiere azioni enormi, gli esseri umani sono così, lenti e stupidi.
«Scusi che fermata è questa? »
Il signore a cui ho parlato alza lo sguardo dal telefonino e mi guarda come se fossi un appestato, mi squadra dalla testa ai piedi e, visto che siamo vicini, il suo capo compie un ampio e lento movimento: «Non so» mi risponde in un accento che non riconosco.
«Allora è la mia fermata. Grazie.»
È già tornato al suo cellulare, non credo abbia ascoltato la mia risposta, meglio così. L’autobus in frenata fa un piccolo saltello all’unisono con le teste molli di tutti i passeggeri a capo chino, i freni a disco sibilano una specie di lamento, il rilascio dei pistoni spalanca le portiere centrali ed io posso finalmente posare i piedi a terra. Mi infilo in un centro commerciale schifoso quanto il labirinto di mio padre, prendo altri vestiti per coprire il mio corpo martoriato. Scappo di fretta dall’uscita, corro male, dolorante e felice. Mi tengo sempre il sole di fronte, l’ombra darà un po’ di sollievo alla schiena mentre cammino calcolando il perimetro della città usando tutto il tempo che mi ci vorrà.
Immagine generata con DALL-E
“a labyrinth on an island seen from above, painted in the style of Dali”