Come il sole dietro le nuvole

Quando piove le gocce d’acqua trovano dimora su ogni superficie e i finestrini delle auto, dei bus, dei treni diventano la loro pista da corsa preferita. È una gara provocata dal cielo che segna il suo passaggio sulla terra. Non ci sono primi posti, si gareggia con la sola voglia di solcare il vento e scivolare senza controllo.

Il treno del binario 12 parte puntuale da Napoli, corre veloce come sempre e la pioggia ha voglia di correre insieme a lui, è il connubio tra la superficie del treno e l’acqua a dare il via alla gara. Luigi, un uomo anziano distinto e ben curato sceglie il posto vicino al finestrino, anche se non gli spetta, e quando piove, come fa quando si sposta in pullman, osserva ogni goccia prima di sceglierne una. Oggi si è affezionato a quella più lontana dal traguardo e inizia a tifare per lei. È piccola ma va spedita, acquisisce sempre più velocità divorando le sue sfidanti. 

All’improvviso però lo sfondo della corsa cambia, tutto intorno diventa buio, le gocce si fermano e iniziano a tremare.

Luigi distoglie lo sguardo dal vetro ormai scuro e scorge nella penombra di fronte a lui una bambina dal vestitino rosso che ha un dito fermo sul finestrino e sembra voglia spostare, invano, qualcosa dalla sua superficie.

Le sagome dei passeggeri intorno sembrano assomigliarsi tutte e si muovono in una frenesia coinvolgente lasciando traccia di ogni movimento. La signora con le braccia conserte seduta qualche fila più avanti picchietta ritmicamente il piede a terra, l’uomo che le siede di fianco preso dal ritmo isterico della sua compagna inizia a guardarsi intorno preoccupato, si alza, passeggia avanti e indietro, si siede, si rialza. Le due ragazze in piedi dopo il lieve sobbalzo in avanti si stringono con forza le mani l’una con l’altra e restano in silenzio. Una donna anziana trova conforto nella preghiera e inizia a recitare il rosario ad alta voce, lasciandosi scivolare la corona tra le dita. Un neonato percepisce il trambusto e con il suo pianto spezza il rumore, che in quel momento diventa una baraonda.

«Che succede? Perché siamo fermi» chiede un ragazzo seduto dall’altra parte del treno.

 «Quando ripartiremo?». A ogni domanda se ne aggiungono altre che non trovano risposte.

Il cane dal pelo scuro, legato con il guinzaglio all’ultimo sedile si alza di scatto e come se volesse aggiungere una nota in più a quella musica senza direttori, ulula.

Luigi si sta lasciando andare a questa danza spietata della paura, la sua pelle rugosa del collo inizia a traballare, i piccoli occhi nascosti dietro un paio di lenti ne seguono il ritmo. Nei suoi settantotto anni di vita aveva preso il treno solo due volte: la prima era stata tanto tempo fa per un viaggio durato circa un’ora e la seconda è oggi e, il treno sul quale si trova si è appena fermato in galleria.

Lei, la bambina delle gocce, sembra impermeabile a tutto quel caos isterico, guarda a lungo Luigi e percepisce tutta la sua agitazione, decisa ad aiutarlo poggia la sua piccola mano sul dorso di quella dell’uomo.

Vittoria gli picchiettava le mani quando voleva chiedergli qualcosa, le ricorda benissimo quelle mani calde. Ricorda bene quando con quelle stesse mani si copriva gli occhi e giocava a nascondersi, erano il suo posto preferito, la sua salvezza, il buio che impediva gli altri di trovarla.

 Lui girava per tutta casa, recitando la parte del ricercatore. 

«Forse la troverò nascosta qui, sotto il divano» e nonostante i dolori alla schiena si inginocchiava per guardare in quella piccolissima fessura. 

«Strano, non è nemmeno qui. Ah, forse si nasconde in questo vaso». il recipiente era piccolo piccolo, ma dopo aver sbirciato anche lì dentro ritornava sui suoi passi. Lui a quel gioco ci giocava sul serio. Nell’aria si udiva una risatina smorzata, ed era quella di una bambina che sapeva di avercela fatta di nuovo. Al suono di quella risata il cuore dell’uomo velocizzava la corsa e il sorriso, in un attimo, si impadroniva del suo volto.

Le stesse mani, un po’ più cresciute provavano a trascinarlo alle giostre, quelle che montavano in occasione della festa patronale. Lo portavano su quelle più vertiginose, quelle da cui lui era terrorizzato tanto da coprirsi gli occhi per tutta la durata del giro. Lei invece urlava di gioia e rideva guardando la paura di suo padre, e urlava ancora e alzava quelle piccole braccia al cielo cercando di trascinare con sé anche quelle pesanti del suo adulto preferito.

Era una bambina estroversa e possedeva la capacità di stare bene sempre. Sembrava che la libertà fosse una sua fedele compagna, inventava sempre una storia diversa da raccontare alla maestra, sulla disgrazia occorsa ad un familiare, per evitare che le assegnasse troppi compiti, così aveva tempo per cavalcare farfalle, urlare al cielo aperto e ascoltare l’eco della sua voce ritornarle indietro.

«La tua ha un nome?». La bambina allontana la mano dall’uomo e porta il dito sul finestrino provocando un fastidioso stridore che le fa rizzare i peli di tutto il corpo.

«Come scusa?» Luigi riemerge dai ricordi e con mano frenetica accarezza il bastone in mogano, sul viso rugoso inizia a spuntare un tenue sorriso.

«Signore» risponde lei sporgendosi sul sedile e provando ad avvicinarglisi sempre di più all’uomo «dicevo» la sua voce aumenta gravosamente di volume «se, anche quella là» e indica il finestrino « ha un nome?» Ogni parola è sottolineata da un gesto delle piccole mani che si librano di qua e di là solcando l’aria pesante nel treno. Sembra di assistere ad una scena teatrale illuminata da una luce solare che le proviene da dentro. 

«Ahh…» con un cenno del capo e con stupore risponde «Il mio nome? Il mio nome è Luigi Renato Rossi. Invece il suo è?»

Resta a bocca semiaperta come se volesse farsi prestare dalla bambina altre parole per continuare. «Certo che ha proprio un nome difficile, la mia invece si chiama nuvola, nuvola e basta, perché mangia tutte le gocce che cercano di arrivare prima di lei e si riempie il pancino sempre più di acqua» si ferma un attimo per prendere fiato e poi aggiunge «Non è stata colpa sua se si è fermata, ma è stata la pista, però anche la tua sembrava molto veloce nonostante il nome così lento.» Di colpo Luigi Renato Rossi perché quello è il suo nome, diventa rosso e per non far conoscere a tutti il suo gioco segreto si sposta in avanti, come aveva fatto poco prima la sua compagna di viaggio. Adesso sono in due ad essere illuminati dalla calda luce teatrale, mentre tutto il resto è in ombra nel caos. «E qual è il tuo nome invece?». Il signore che passeggia senza tregua si ferma di scatto davanti i sedili dell’uomo e della bambina e guarda con sgomento prima l’uno poi l’altra. Non dice nulla e se ne va nella sua camminata frenetica.

«Mi chiamo Arianna A-r-i-a-n-n-a» la testa da il ritmo a quello spelling e le dita ne dirigono l’orchestra. «…è come se avessi due nomi fusi in un unico nome. Aria e Anna. Capito? I doppi nomi ce li hanno tutti i bambini che hanno genitori indecisi, che non sanno se dare l’uno o l’altro nome e quindi li danno tutti e due.» 

 A questo punto si sbilancia ancora più in avanti e sussurra un segreto all’orecchio dell’uomo «tu anche sei uno molto indeciso coi nomi.»

Quanto calore lascia il fiato di quel segreto all’orecchio.

«Viaggi sola in treno?» chiede Luigi alla bambina ma quella domanda è diretta, come la spinta troppo forte del vento estivo «ah, sì certo io viaggio sempre sola. Io non ce li ho i genitori» si ritrae.

 L’energia delle parole si è spenta per un istante, poi però è tornata più elettrica di prima. «Lo sai che io non sono andata a scuola oggi? E non ci andrò nemmeno domani e per tutta la settimana. Quando arrivano le giornate prima del Natale non si va mica a scuola, non so se lo sai ma la scuola dei bambini è troppo noiosa.»

«Perché pensi sia noiosa?»

«Ma come perché? Non lo sai? La scuola è un posto terrificante. È fatta di tante stanzette tutte di un colore giallo scolorito e illuminate da una luce fredda e neanche troppo luminosa che fa venire il sonno agli occhi non appena cala il buio fuori. Ogni ora entra dalla porta che cigola una malefica robusta strega per insegnare a tutti quei poveri bambini, compresa me, delle maledizioni diverse costringendoci ad impararle tutte a memoria, una ad una. Io mica sono scema, quelle cose là non le imparo mica».

Parla con lo sguardo di chi intuisce il dispiacere di colui che ascolta per la prima volta una storia così terribile. Con gli occhi chiusi, le sopracciglia alzate e la testa che si muove su e giù aggiunge:  «la scuola non è un posto per bambini».

Luigi scoppia in una risata assordante che per un attimo zittisce quel mormorio di fondo: «Quando io andavo a scuola non era così terribile».

«Forse le cose prima erano più belle perché erano tutte in bianco e nero e una cosa valeva l’altra ma adesso il mondo si è colorato e si possono vedere tutte le sfumature. La scuola non ha preso proprio un bel colore, è sempre così sbiadita come se fosse malata, mentre le cose fuori sono coloratissime e ti viene voglia di uscire. Chiedilo ai tuoi figli, nessuno direbbe che quello è un bel posto».

La luce teatrale, su quei due ha problemi di intermittenza, va e viene, è la scia delle parole che hanno lasciato andare, ora è spenta.

Il buio ha la meglio su quel corpo d’uomo maturo, scivola sulle sue mani sottili e artritiche, ne accarezza il palmo, gli offusca la vista, si riposa sulle sue spalle. È freddo ormai e sembra essere morto. Ma è una di quelle morti apparenti in cui il dolore prende il sopravvento.

Luigi conosce bene quella sensazione di vuoto che si espande tra gli spazi accuratamente riempiti negli anni. Altre volte si è ritrovato a essere un corpo svuotato, senza viscere, né muscoli, né ossa, ma solo pelle, come quelle degli animali ma senza animali.

Capiva quando stava per precipitare quando nemmeno più le parole riuscivano ad avere importanza.

«Papà devi correre il più veloce che puoi» sotto la luce decadente delle sette correva veloce Vittoria, con tanta esperienza sulle gambe sbucciate «così, guarda!» e la voce si perdeva nelle raffiche di vento, mentre le piccole gambe correvano più che potevano tra i ciuffi di erba alta. Era divertita nel guardare la figura di lui così impacciata mentre provava a raggiungerla.

«Dai, va bene» tra un affanno e l’altro riuscì a completare la frase e si fermò chino con le mani sulle ginocchia: «mi arrendo». Lei era troppo veloce e si affidava all’aria intorno per continuare la corsa, ma il bosco era scuro e lui non aveva nessun vento a favore per affrontare quell’oscurità.

«Vittoria dove sei?» sentì una stretta al cuore quando da quella domanda non ricevette risposte.

«Vittoria? Vittoria non farmi nessuno scherzo perché mi sto spaventando davvero. Vittoria?». 

È devastante immaginare la scomparsa in senso letterale del termine e poi inserirla nella vita reale. 

Scomparire. Una parola che ha un sapore amaro che non va via dalla bocca. Scomparire significa giocare a nascondino in eterno, significa esserci e non esserci. Scomparire significa morire ma senza morte. Una morte senza un corpo, senza ferite, senza malattie, senza incidenti.

È il vapore che non vedi ma che ti ustiona. Era quello che provava Luigi quando in quel momento esatto comprese la parola “scomparire’’. Scomparve Vittoria, come il sole tra le nuvole, scomparvero tutte le emozioni felici, scomparve la paura che provava delle altezze, perché la tristezza, constatava, è il fondo dell’abisso e non puoi andare oltre. Scomparve la sua persona, il futuro di lei e automaticamente anche quello di lui.

Anche in quel treno lui è scomparso nel buio. 

È una piccola mano piena di graffi a prelevarlo e riportarlo alla luce, è di nuovo lei, quella strana bambina. Arianna lo prende per mano e lo picchietta, «hei!» urla la bambina all’orecchio di Luigi. Luigi non risponde, ma diverse gocce di sudore gli compaiono sul volto. La bambina guarda quella goccia e poi osserva il finestrino, si accorge che fuori non c’è più traccia delle loro piccole corritrici ma sono lì, su quell’uomo. Continua a chiamarlo, ma questa volta usa il nome della sua goccia «Luigi» e poi ancora «Renato» a questo punto la voce le aumenta gravosamente «Rossi» e quel cognome così comune rimbalza come una pallina pazza lanciata velocemente nell’orecchio dell’uomo in catalessi. 

 

«Rossi, è questo il mio cognome»

«Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?» 

«Ve l’ho già detto, e-e-e-e-eravamo in quel campo e…» 

«So che è difficile, si calmi faccia prima un respiro profondo e poi se riesce continuiamo»

«Eravamo in quel campo, c’era il tramonto o forse era già finito. Le gare sono, erano… il nostro gioco preferito.» 

Singhiozzava e le parole non riuscivano ad uscire, si bloccavano in gola mentre quelle che si presentavano alla bocca erano troppo forti, troppo dolorose per poterle pronunciare. Tutte rimandavano a lei, a quell’assenza straziante. Pensava e ripensava alla sua distrazione e all’attimo in cui si era chinato verso il basso per riprendere fiato, l’attimo esatto che gli ha fatto perdere di vista sua figlia. Una frazione di tempo, associata all’idea della breve durata, è stato il rimorso che si è portato per tutta la vita.

«Poi che è successo?» Riprese la parola quel poliziotto che aveva gli occhi di uno che non capiva.

Luigi alzò lo sguardo tremolante di lacrime, lampeggiato dalle luci blu e pronunciò una parola. Una semplice parola che per lui rappresentava il peso eccessivo del malessere accomodato su ogni via respiratoria del suo corpo, il suo dolore portava quella parola lì.

Scomparsa.

 

Arianna osserva quel tremolio del volto e la pioggia che produce, pian piano anche il petto sembra rianimarsi, respira di nuovo e poi quella strana macchina a vapore umana produce qualcosa. Sono lacrime.

Luigi sta piangendo. 

Nessuno nel treno sembra accorgersi di lui, troppo presi dalle loro personali disperazioni, tranne la donna anziana con il rosario tra le mani, che riprende più accanita la sua preghiera.

Sembra che la gara delle gocce sia ricominciata, non più sui finestrini del treno ancora fermo, ma sul volto rugoso di quell’uomo stanco. Si rincorrono, alcune si perdono nella profondità di quella pelle montuosa, altre schizzano via dalla pista. Questa volta è una gara provocata dal dolore, che solca quel volto immobile. Arianna vorrebbe mettere un dito su una di quelle gocce per farla diventare la sua “nuvola” ma non ci riesce. 

Piove nel treno.

Piove da quel volto gelido, da quelle mani sudate. La pioggia tocca i sedili ancora asciutti. Precipita sulle mani di Arianna che sorride e si lascia bagnare. Poi si sente un tintinnio che si espande nelle orecchie di tutti i viaggiatori, che incantati smettono di parlare.

Arianna urla, urla forte: «Luigi Renato Rossi sei dappertutto».

Quel cielo in malora cessa di rovesciare acqua dopo molto tempo ed emana un suono lieve, quasi impercettibile. È ill sibilo delle parole che vogliono uscire dalla bocca, è l’urlo di sollievo che si fa spazio nella testa per potersi liberare e si libera.

“Vittoria. Si chiama Vittoria la mia goccia. Insieme sareste state velocissime’.’

Il treno riparte, la gara continua. Il sedile di fronte Luigi è vuoto ma sul finestrino resta incollata l’impronta di una mano piccola.

Immagine generata con DALL-E
“raindrops run down a train window, oil painting”