Requiem (vol.2)

Sta seguendo una di loro fuori dalla città, oltre i quartieri che conosce e oltre le vie che sa percorrere dall’inizio alla fine. Fuori dal grigio, fuori dai confini sicuri e solidi dei palazzi di Milano, sente che si avvicina a un caos brulicante che non ha un’origine vera, ma che si irradia confusamente ovunque, come i cerchi prodotti nell’acqua da un sasso che cade. La superficie resta intatta. Sotto, tutto si muove.

La prima volta che si sente così sta risalendo le scale della metro in Porta Garibaldi. È nel momento in cui strizza gli occhi uscendo dal buio, inghiottito da un sole acido e fastidioso che cerca di spaccare Milano senza toccarla davvero. Marco sta per superare l’ultimo gradino, sfiora con il palmo il corrimano d’uscita e solo allora vede il barbone che lo fissa: sporchissimo, irsuto, avvolto in una nuvola di umori troppo pesanti e vivi per la città. È seduto su un pezzo di cartone sudicio e slabbrato, avvolto in una coperta che pare ruvida anche da venti passi di distanza, e i suoi occhi sono spalancati. Marco non sa che altro fare se non continuare a camminargli incontro: dovrà passargli di fianco per entrare al lavoro, e forse può allungargli qualche centesimo per spingerlo a distogliere quello sguardo così sicuro. Si fruga nervosamente in tasca alla ricerca di una monetina che non c’è, anche se ha già capito che l’uomo non cerca soldi, vuole proprio guardarlo. Non ha scampo: gli arriva vicino, annusando la sua puzza e ringraziando che l’ingresso del palazzo sia così vicino, e si è allungato rapido per spingere la porta a vetri e rifugiarsi dentro, quando il barbone gli sorride. Gli sorride e poi gli strizza l’occhio come se lo conoscesse. Marco si catapulta oltre la porta dell’azienda:

lo strano brivido che lo pervade ha un centro caldo che gli parte in petto e gli dà la sicurezza immotivata di essere visto, davvero visto, ma anche la sensazione terrificante che a guardarlo sia un gigantesco occhio dietro la lente di un microscopio.

La sera stessa esce dal lavoro pieno di tremori, timoroso di incontrare di nuovo quell’uomo. Il marciapiedi però è vuoto, e l’odore non c’è più. La giornata successiva comincia nella maniera candida e piatta in cui tutte le sue altre giornate cominciano. «Buongiorno, Marco. Caffè?» È Monica, con cui condivide la scrivania. Monica lavora qui da quando lo hanno assunto, e non gli ha mai chiesto come sta. «Buongiorno. Sì, grazie. Passato un buon weekend?» «Ottimo, grazie.» Monica si alza, accende la macchinetta, ci infila una cialda. «Hai visto che bel tempo c’è oggi?» «Magnifico.» La macchinetta ronza. Un ronzio un po’ troppo forte. Com’è che non ci ha mai fatto caso? «Peccato per tutte quelle persone.» «Quali persone?» Dal beccuccio esce il caffè, e un odore di bruciato si sparge per la stanza; ronza, ronza, sempre più forte, sempre più forte.

«Le persone là fuori. Peccato ce ne siano così tante.»

Monica si volta verso di lui: ha due caffè in mano, la crocchia stretta sulla nuca e un sorriso sadico in viso, sanguinario. Marco si appiattisce contro il muro dell’ufficio. Gli trema il petto e la vista gli si sfoca. Monica muove un passo verso di lui. «No?» Poi, d’un tratto, la rimette a fuoco: e Monica è solo Monica. Gli porge uno dei caffè, lo osserva un po’ stupita, arretra verso la sua postazione di lavoro. «Come, scusa?» «Niente, Marco, lascia stare. Ti vedo un po’ per aria oggi.» Marco deglutisce rumorosamente, il bicchierino di caffè stretto tra le dita artigliate, la giacca ancora addosso, la valigetta abbandonata per terra. Si leva il giubbotto, si siede alla scrivania, accende il computer e la sua giornata inizia di nuovo. Gli cade tutto addosso quando riprende la metropolitana per tornare a casa.

Prima temeva solo gli angoli tra due viali affollati, o il momento grigio tra l’uscita dal lavoro e l’ingresso nel sottopassaggio. Ora, mentre sta in piedi in un vagone particolarmente zeppo, gli sale come una scossa dal petto, un desiderio improvviso e violento di saltarsi fuori dalla pelle.

Sta accadendo qualcosa in un punto imprecisato attorno a lui, anche se non riesce a vederlo; una fonte di pericolo lo circonda, lo mette in allerta, ma non riesce a identificarla. Con un guizzo rapido, tutto diventa sensibilissimo: Marco volta disperatamente gli occhi da una faccia all’altra, si rivolge ai passeggeri sui sedili, accanto alle porte, appoggiati ai pali, e le rughe sui loro volti sono abissi infiniti dentro cui, se non sta attento, potrebbe affondare. Le mani degli sconosciuti, attaccate ai sostegni del vagone, sono fatte di pietra; ma non deve toccarle se non vuole prendere la scossa, e può concentrarsi solo sul rumore assordante che gli entra dalle orecchie, dagli occhi, dal naso, e lo fa sentire inchiodato a se stesso. Alla fine si lancia giù dal vagone e fuori dalla metro, alla ricerca di silenzio e aria in una città che però manca di entrambi. Appoggiato con entrambe le mani allo schienale di una panchina, il respiro ancora affannato per la corsa, li vede: sono tre, in piedi dall’altro lato della strada trafficata, e lo guardano con quegli occhi minuscoli e nascosti dalla sporcizia, che però sono potenti come cannocchiali. Telescopizzato, binocolizzato, appuntato contro il cemento come una rana pronta per essere dissezionata: questa volta Marco non può scappare. Non ha altra scelta se non lasciarsi guardare. Dopo qualche attimo, uno dei tre barboni alza cautamente la mano in segno di saluto, con il fare di chi si accosta a una bestia rara. Marco sente il brivido salire e capovolgergli lo stomaco, ma quasi subito una strana calma si impadronisce di lui – una calma folle, lucida. Solleva il braccio in risposta, si stringe la milza con la mano e ridiscende lentamente in metro. Si sta facendo buio. Ora lei lo conduce per una strada sporca, piena di cartacce e rifiuti che galleggiano nei canali di scolo, e le case intorno sembrano tutte abbandonate. In fondo s’intravede una macchia di verde, ma la notte che cala gli impedisce di vedere bene. A Marco pesa non saper più usare gli occhi: gli pare di non potersene più fidare, perché hanno iniziato a ingannarlo. Segue quella di loro che è venuta da lui – quella che lo ha tirato per un braccio in mezzo alla strada e gli ha sorriso con i denti tutti marci e ha iniziato a parlargli e lui ha capito tutto, improvvisamente. Dopo un altro centinaio di metri, Marco capisce che la macchia verde in fondo è un bosco. Accelera il passo. Da Monica non si è più fatto offrire il caffè, dopo quella volta. Smette anzi di berlo del tutto, e adducendo una connessione lenta si fa spostare in un ufficio tre porte più in là, insieme a Giancarlo e Franco. In un’altra vita avrebbe preferito di gran lunga il picchiettare dei tasti di Monica alle loro conversazioni sul calcio e sulla fica e su come il successo è uno state of mind più che il risultato delle circostanze, ma nel nuovo ufficio non ci sono finestre, Marco non vede il sole e l’asfalto e non c’è nulla a ricordargli i barboni che lo seguono e lo aspettano agli incroci o il numero di persone che la sua collega (forse era lei, forse no) vorrebbe eliminare. Così sta seduto alla scrivania ad annuire in silenzio mentre Giancarlo si lamenta di che rottura sia tornare a casa e ascoltare il racconto della giornata della sua compagna, però è tanto bello trovare la cena pronta. «Quant’è ormai che dura? Cinque, sei anni?» «Eh, ormai son sei. Ci siamo messi insieme che lei ne aveva ventisette. Le rimangono ancora un paio d’anni buoni.» «Dai, più di un paio!» Franco e Giancarlo ridono e ridono, e intanto picchiettano sui tasti del computer, e ridono e picchiettano, ed è allora che Marco sente un suono orrendo e gorgogliante venire dalla loro gola: come di minuscoli chiodi ferrosi che precipitano giù per un tubo arrugginito, e un risucchio simile al gozzo di un enorme serpente marino. Marco cerca le finestre ma non ce ne sono, prova a tapparsi le orecchie ma teme di sentire le lingue dei suoi colleghi infilarcisi dentro. Li lascia ridere, tenendo lo sguardo fisso sulle file di numeri impilate nel foglio di lavoro, finché non sente i bulbi bruciare e lacrimare e poi scattano le cinque e quando alza gli occhi la stanza è vuota. L’ultima giornata che era riuscito a iniziare si era aperta con lui impalato davanti al palazzo aziendale, terrorizzato all’idea di entrare, terrorizzato all’idea di restare fuori. Monica lo aveva oltrepassato, “Buongiorno Marco, caffè?” E lui aveva annuito ma non si era mosso; Giancarlo lo aveva oltrepassato, Franco lo aveva oltrepassato e Marco aveva iniziato a sentire quel malessere montare come la marea finché qualcuno non lo aveva toccato. Si era voltato e si era trovato davanti una di loro. Era sporca, sporchissima, ed emanava un odore fetido che Marco aveva respirato a pieni polmoni. Lei gli aveva afferrato un braccio con una presa sorprendentemente forte, e gli aveva detto:

“Lo so. Ti osserviamo da un po’, e abbiamo capito che sei uno di noi. Puoi venire con noi. Questo non è il posto per te.”

Gli si era mozzato il respiro per l’emozione. “Ma chi è noi?”, le aveva chiesto. “Noi”, aveva risposto lei, con una voce chiara e limpida che gli aveva fatto venir voglia di scoppiare in lacrime; “noi”, e poi aveva fatto un cenno con la testa. Marco s’era girato e aveva visto, in piedi contro un palazzo, i due uomini luridi e barbuti che lo avevano salutato. Aveva fatto un altro respiro e aveva allungato la mano verso la donna, che l’aveva afferrata e aveva iniziato a condurlo con sé. Avevano camminato per il corso e poi si erano infilati in un vicolo, e in un altro, e un altro ancora, e a ogni nuova svolta qualcun altro si univa a loro. Le donne avevano tutte i capelli impastati e sudici, qualcuna spingeva un carrello pieno d’immondizia e trascinava i piedi; gli uomini avevano barbe incrostate e si portavano dietro dei grossi pezzi di cartone sporco, e avevano i pantaloni macchiati di piscio e polvere. Marco si è lasciato condurre per ore, fino a quando il sole non ha compiuto un altro pigro giro attraverso il cielo e loro sono sbucati fuori dalla sicurezza dei quartieri che conosce, tra le scogliere dell’hinterland. Ora marciano spediti verso quella macchia di alberi, quel bosco incompleto e buio in cui però si intuisce un gran movimento. Accanto a lui la donna gli indica la strada, mentre gli altri stanno intorno, a vicinanza fraterna. Si avvicinano al cuore del bosco e piano piano iniziano a udirsi fruscii sommessi, rumori di foglie spostate e rami piegati: Marco fatica a vedere oltre il suo naso, ma quando alza gli occhi vede chiaramente, stagliate contro il cielo, le sagome degli alberi. Sono rachitici, ma solidi. Portano il peso delle foglie, e il peso delle strane forme mobili che saltano da un ramo all’altro: Marco quasi inciampa nei suoi piedi mentre cerca di distinguere le mani degli uomini arruffati e sporchi che balzano di ramo in ramo, si appendono come gibboni e si dondolano dalle cime. Finalmente arrivano davanti a un edificio dal tetto sfondato, con mille assi inchiodate a coprire i buchi nel muro e le finestre tutte crepate, i vetri così sporchi che non si riesce a vedere dentro. Si capisce però che oltre le mura c’è fermento: si sentono piccoli tonfi e rumori di passi, e un battere cadenzato, poco distinguibile. Dal tetto divelto spuntano le cime degli alberi, che ci crescono dentro e ne piegano la struttura. Sui rami qualche figura si muove tra le fronde, arrampicandosi. Davanti alla porta c’è lui, il primo, quello che gli aveva strizzato l’occhio. Ha la barba incrostata di biancastro e gli rivolge lo stesso sorriso folle di quella volta. «Benvenuto.» Allarga le braccia come un guru, e il vestiario informe che lo infagotta sembra una tunica sacra, una divisa da mistico di altri tempi e altre terre. L’uomo gli si avvicina e gli poggia una mano sulla spalla. Marco la sente appiccicarsi al tessuto dei vestiti. «Sapevamo che saresti venuto.» «Sì?» «Ti abbiamo guardato, ti abbiamo visto. E sappiamo che lo sai anche tu: là fuori, nessuno sa niente. Nessuno è degno di niente. Sappiamo come ti inghiotte la marea; il lavoro non è vita. Non gli si può sopravvivere.» Si avvicina di un altro passo. Anche stavolta, Marco respira a fondo. «Ma noi, qui, abbiamo creato qualcosa di diverso. Qui, tra gli alberi, lontani dall’inferno e lontani da tutto quello che non ci serve, custodiamo l’unico luogo di vita vera rimasto sulla terra. E abbiamo scelto te per entrare a farne parte.» Marco sente di nuovo gli occhi umidi. «Ti prego» si sente dire con voce liquida e tremante; «ti prego». Il barbone gli stringe di nuovo la spalla e gli fa un altro sorriso. «Non preoccuparti» gli dice conciliante. «È tutto finito.» Poi apre la porta, e tutto s’illumina. Verde e marrone, alberi e legno, foglie e frasche e un nugolo di figure impazzite che corrono da una parte all’altra. Sono tutti sporchi, tutti incrostati e sudici e l’odore è così animalesco, così selvatico e penetrante che gli gira la testa. Si spostano in fretta attraverso le stanze, alcuni stanno seduti e si muovono ma Marco non capisce subito cosa stanno facendo. Poi, dopo qualche secondo, li mette bene a fuoco: in equilibrio su dei tavoli mangiati dai tarli stanno dei pezzi di lamiera, e qualcuno ci sta davanti e batte sul tavolo con le dita, ticchettando. Qualcuno corre con le braccia cariche di carta straccia. Qualcun altro raccoglie un sasso da terra, se lo poggia all’orecchio e inizia a parlare. Si volta verso il suo uomo, il suo guru, e con lo sguardo gli fruga il volto: l’uomo irradia ancora un’euforia luminosa, gira la testa attorno e non lo degna più di un’occhiata. A Marco sale un nuovo suono dal petto, un nuovo brivido che ancora non ha mai sentito. Sfiora uno dei tavoli smangiati e lo sente molto più tiepido di quelli di plastica del suo ufficio. Le lamiere non gli faranno mai dolere gli occhi se le fissa troppo a lungo, non avrà mai problemi di connessione lenta e non avrà bisogno di collegare i sassi alla corrente. Un’emozione tiepida gli cresce lentamente dentro, mentre si fa strada in lui la convinzione che forse è vero, forse è proprio questo il paradiso. Attorno e sopra di lui i barboni si arrampicano e saltellano sugli alberi, lanciando pietre e portando comunicati stampa. Marco allunga le mani sul tavolo, inizia a battere su una tastiera invisibile, e finalmente, finalmente, si gode un po’ di silenzio.

Immagine generata con DALL-E
“an abandoned palace conquered by vegetation, reailistic painting”