Sfioriremo

Ventuno rose e cinque parole: vorrei sfiorarti, ma non oso. Stavano scritte con calligrafia nervosa, maschile, sul bigliettino bianco pinzato alla confezione trasparente dei fiori. Le parole, se si vuole essere precisi, erano sette. Il biglietto riportava infatti anche il nome della destinataria: Claudia Barca. Nient’altro. Nessuna firma. Nessun mittente. 

Che cretino, pensò Claudia. Non so chi è stato ma è un cretino. Adesso tutto l’ufficio ne parlerà; verranno a chiedermi chi le ha mandate, se Dario deve farsi perdonare qualcosa, se è il nostro anniversario. No, non è il nostro anniversario e sì, forse qualcosa da farsi perdonare ce l’ha, ma questi non sono fatti loro. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che ho un amante, le venne in mente all’improvviso. Magari un vecchio, uno che fa ancora queste cose. O peggio uno che lavora qui.

Staccò il biglietto dalla confezione e chiese alla ragazza della reception quando avessero consegnato i fiori.

«Cinque minuti fa» rispose quella con un sorrisetto. 

«Ha detto qualcosa il tizio delle consegne?»

«Ha detto: lavora qui Claudia Barca?»

«Solo questo?»

«Sì. Cioè no. Ha detto anche: ci sono dei fiori per lei»

«Chiaro. Senti, posso tenerli qui?»

La ragazza ci pensò un attimo; faceva fatica a capire la freddezza di Claudia.

«Appoggiali sotto al desk» disse alla fine.

«Grazie. E… non mettiamo i manifesti per favore.»

Senza aspettare risposta, Claudia girò su sé stessa e andò via. La ragazza della reception quasi le urlò dietro: «Magari li avessero regalati a me.»

Arrivò alla scrivania e si mise a fissare il vuoto. Chi è che vuole sfiorarmi ma non osa? Cercò di riportare alla mente tutte le persone di sesso maschile a cui aveva dato confidenza nelle ultime settimane – davvero poche. Dario lo escludo a priori: lui può sfiorarmi quando vuole ma non lo fa mai. Più che altro mi accarezza. Non come si accarezza una donna però; come si accarezza un cane. Mi liscia i capelli senza intenzione, distrattamente, pronunciando nomignoli che non hanno più significato. E comunque, a parte tutto, non è la sua scrittura. Escluso il fidanzato passò in rassegna i clienti, tutte persone con le quali doveva essere carina per contratto. Il maggior indiziato era Federico Ciattaglia, direttore finanziario di una grossa catena di fast food: uno perché le scriveva mail con frequenza sospetta, due perché le chiudeva con bacioni, abbraccioni e altre abnormi dimostrazioni di affetto. Claudia aveva chiesto alle colleghe se anche con loro Ciattaglia facesse così e sembrava di no; sembrava che con loro fosse più trattenuto, più professionale. Ti ama, concludevano con immancabile scambio di occhiate. Che palle, rispondeva Claudia troncando il discorso. Ma perché mi sono scelta questo lavoro? Io che non riesco a essere carina neanche con le persone che mi piacciono. Ciattaglia era di certo un candidato plausibile, tuttavia la frase scritta sul biglietto faceva pensare più a un collega, a qualcuno con cui condivideva gli stessi spazi. Vorrei sfiorarti ma non oso significa siamo spesso vicini, sento il tuo profumo, il cuore comincia a battermi, vorrei allungare la mano fino a toccare la tua ma non lo faccio perché non so se ti farebbe piacere, perché non so se poi continueresti a salutarmi. O no? Fatto sta che non le veniva in mente nessuno in ufficio che potesse aver scritto quelle parole per lei. Con la sola eccezione, forse, di Vincenzo lo stagista. Mi fissa sempre quel cretino. Mi fissa e quando lo scopro a fissarmi comincia a sorridere con quella faccia da ritardato che si ritrova. Lui sì che potrebbe mandarmi dei fiori; o almeno potrebbe desiderare di farlo, perché guadagna così poco che ventuno rose non può nemmeno permettersele. Lanciò un’occhiata verso la postazione dello stagista e per una volta lo trovò intento a guardare il computer. Si sentì una stronza e si rimise a lavorare.

Passarono pochi minuti e improvvisa arrivò un’illuminazione: e se fosse stato Giulio? Giulio sedeva a tre scrivanie dalla sua ed era forse l’unica persona, tra le cinquanta dell’open space, che le piacesse davvero. Non può essere stato lui, non mi guarda mai. Neanche io lo guardo a dire il vero, eppure mi piace. Forse non lo guardo proprio perché mi piace, e così fa lui. Avvertì un’esplosione di calore al petto e le sue guance si colorarono di rosso. Si guardò intorno per paura che qualcuno potesse intuire la potenza dell’incendio che le bruciava il cuore. Tutti, però, sembravano concentrati sui loro portatili. E se fosse stato davvero Giulio a fare questa cosa stupida? Se l’ha fatta lui, le venne il dubbio, forse non è così stupida. Magari il problema sono io: troppo rigida, troppo attenta a scomparire. Forse non è così scontato che ti devi vergognare se uno sconosciuto ti manda dei fiori in ufficio. Guardò verso la scrivania di Giulio, che quel giorno non c’era, e cercò di capire se il suo carattere fosse compatibile con un gesto del genere. Giulio era gentile, aveva un sorriso timido e camicie sempre un po’ spiegazzate. Non era come gli altri commerciali che avevano la sensibilità di un estratto conto. A volte, quando si trovavano allo stesso tavolo in mensa – insieme ad altri colleghi, ovvio – lui la prendeva in giro per l’erre moscia. Che hai peso oggi, le aveva detto un giorno, un pimo? Lei era arrossita, ma poi gli aveva risposto: sì, me lo posso permettere io, e aveva lanciato uno sguardo sarcastico verso la pancetta di lui, lasciandolo senza parole. Ma questo non significava niente. La realtà era che lo conosceva troppo poco per giudicare. Il fatto che quel giorno Giulio non si trovasse in ufficio, però, faceva aumentare le probabilità che il corteggiatore fosse lui. 

Guardò di nuovo il biglietto: vorrei sfiorarti, ma non oso. Si chiese se quella fosse la calligrafia di Giulio. Dovrei trovare uno dei suoi blocchi di appunti per fare un confronto. In generale mi sembra un po’ sciatta, ma non si sa mai. Era ancora impegnata ad analizzare il bigliettino quando la voce di una collega arrivò a distrarla.

«La donna più corteggiata dell’ufficio.» 

Era Flavia, una delle risorse umane che faceva l’amica con tutti. Si sbrigò a nascondere il biglietto e rispose che erano solo fiori. 

«Solo? Ventuno rose rosse…» 

Le sembrava di leggere i pensieri di Flavia: ma come cazzo fa una così fredda a piacere agli uomini? Che ci trovano in lei? Secondo me è pure frigida.

«Vieni a pranzo?» chiese Flavia.

«No, salto. Sono rimasta un po’ indietro»

«Distratta dall’amore?”

Vaffanculo stronza, pensò. Ma rispose: «No, figurati. È che non mi sono sentita bene»

Flavia la fissò più a lungo del dovuto per farle capire che non le credeva, poi si allontanò. Come lei anche gli altri stavano scendendo a mensa, tanto che in pochi minuti Claudia rimase da sola nell’open space. Fece allora quello che, senza ammetterlo neanche a sé stessa, aveva già programmato di fare: si guardò intorno, controllò che ogni singola scrivania fosse vuota e, quando fu sicura che nessuno la stesse guardando, si avvicinò alla postazione di Giulio. Non era da lei frugare negli oggetti degli altri e proprio perché non l’aveva mai fatto il cuore cominciò a batterle forte. Si sforzava di sembrare disinvolta, come se stesse lì semplicemente per cercare una penna, ma ogni piccolo rumore che sentiva la faceva sobbalzare. Era sicura che non avrebbe trovato niente perché la scrivania di Giulio appariva, come tutte le altre, quasi vuota; eppure sentiva che doveva provare. Sul piano c’erano una confezione di Gaviscon mezza finita, qualche foglio stampato e una tazza con la Tour Eiffel disegnata sopra; il portatile no, perché tutti dovevano riporlo in un armadietto quando andavano via. Esaminò i fogli uno ad uno per vedere se avevano delle scritte, degli appunti sopra, ma niente: sembravano tutti appena usciti dalla stampante. Devo aprire la cassettiera, devo vedere se dentro c’è un quaderno. Posso farlo? Devo farlo. Ma devo sbrigarmi. Controllò che non arrivasse nessuno, trattenne il respiro e aprì il cassetto in alto cercando di fare meno rumore possibile. Ci mise una frazione di secondo a capire che era vuoto, e lo richiuse. Guardò di nuovo verso l’ingresso dell’open space e passò al secondo cassetto. Lì qualcosa c’era: un astuccio trasparente con dentro spazzolino e dentifricio, un cubo di Rubik non risolto e un CD vergine probabilmente risalente agli anni Novanta. Cose inutili. Sto sbagliando tutto; sto rischiando di essere scoperta senza motivo. Richiuse anche il secondo cassetto e, usando le stesse precauzioni, aprì il terzo e ultimo. All’inizio non capì bene cosa fossero quelle cartelle blu impilate una sopra all’altra, poi guardò meglio e comprese che erano le cartelline che usano le cliniche per custodire i referti medici. Sono cose private, non posso guardare. Mentre formulava nella testa quel pensiero, la sua mano stava già scostando la copertina. Non cerchi più la sua scrittura, ammettilo; allora perché continui a frugare? Saltò le pagine con grafici e tabelline e andò diretta al foglio con la diagnosi. Dovette concentrarsi molto per comprendere a pieno il significato di quello che c’era scritto. Adenocarcinoma pancreatico di alto grado. Rilesse quelle cinque parole almeno altre cento volte – sicuramente più di quanto non avesse fatto con le prime cinque, quelle scritte sul biglietto dei fiori. Adenocarcinoma pancreatico di alto grado. Vorrei sfiorarti ma non oso. Le frasi nella sua testa cominciarono mischiarsi, tanto che ben presto si convinse che tra le due dovesse esserci un nesso, che l’autore delle cinque parole che accompagnavano i fiori dovesse essere per forza la stessa persona a cui erano riferite anche le cinque della diagnosi. Adenocarcinoma. Vorrei sfiorarti. È chiaro: mi ha mandato le rose per farmi capire che non può più aspettare, che non ha più tempo, che dobbiamo avvicinarci. Pensò ai fiori, pensò a Giulio che la sfiorava con le dita tremanti – non sapeva se per l’emozione o per la malattia. La sottile peluria bruna che velava le sue braccia si sollevò elettrizzata.

I fiori, le mani che si sfiorano. La verità è che sfioriremo tutti, pensò.

Rimase immobile accanto alla scrivania di Giulio per cinque minuti, fin quando un rumore poco lontano la destò. Non era nessuno, solo una stampante che prendeva vita per chissà quale motivo, ma bastò per farla tornare alla realtà. Chiuse il cassetto e con gli occhi umidi scappò al suo posto, lasciandosi cadere sulla sedia senza forze. Devo scrivergli. Devo mandargli un messaggio. Devo ringraziarlo per i fiori, dirgli che dobbiamo vederci lontano da qui, che dobbiamo parlare non solo dell’erre moscia.

Devo dirgli che dobbiamo sfiorarci, che non dobbiamo sfiorire. Soprattutto che non dobbiamo sfiorire.

Prese il telefono con già chiare in testa le parole che doveva usare. Quando sbloccò lo schermo, la prima cosa che vide fu la notifica di Dario.

Era un messaggio e diceva: Piaciuti i fiori?

Quali fiori? Non sei stato tu a regalarmeli.

Non fece in tempo a rispondere che arrivò un secondo messaggio del fidanzato: Hai riconosciuto la frase? Te lo scrivevo sul quaderno quando sedevamo vicini all’università.

Ma quella non è la tua calligrafia, obiettò; e lo scrisse.

È quella del fioraio, rispose Dario con un terzo messaggio. Allora che fai, mi perdoni?

Perdonarti? Non lo so se ti perdono. Proprio adesso che cominciavo ad amare quei fiori.

Immagine generata con DALL-E
“a bouquet of red roses is placed on an office table next to a laptop, oil painting”