Lo scrigno

Nella fabbrica in cui lavoravo ci si ammazzava per rendere felici migliaia di bambini, come aveva fatto mio padre, otto ore al giorno a spruzzare vernici su orrendi pupazzi e a fumare le sue sessanta Camel, le stesse che mi sono costate mezzo polmone, tranciato di netto, marchiato dallo stesso male che aveva ucciso mio padre.

Di lui odiavo persino il ricordo. Mi sembrava ancora vederlo rincasare di sera, il suo tanfo di sudore, colpi di tosse potenti quanto cannonate. Giunto in cucina, esibiva un ringhio sdentato e inchiodava gli occhi su mia madre, impietrita ai fornelli, incapace di alzare il capo.

Io restavo nascosto in un angolo, durante la cena neanche osavo sfiorare con un’occhiata mio padre, insediato a capotavola a ruminare il cibo servito da mia madre. Di notte, mentre io e lei dormivamo, lo udivano trascinarsi nel corridoio assieme alla tosse. Precipitava sul suo trono in cucina, accendeva il televisore e la casa veniva appestata da gemiti di piacere, urla di donne e la voce di mio padre che strillava: «Ti piace il cazzo, puttana!»

Solo nel vederlo steso a letto, privo di vita, mi ero sentito felice. Aveva l’aspetto di un ridicolo fantoccio, della sua brutalità non era rimasto altro che un mucchio di ossa incollate da pelle grigiastra fetida di aceto.

Al funerale, a ogni vangata precipitata sulla bara avvertivo un fremito lungo la schiena, un orgasmo di cui avrei voluto gioire, invece di restare muto al cospetto delle lacrime di mia madre, prostrata di fronte alla fossa dell’uomo che le aveva rubato la vita.

Non ero riuscito a comprenderla allora e non la capivo adesso, devota a un figlio che aveva sfiorato la sorte toccata a quell’uomo. Per anni mi aveva spiato, senza che le fosse permesso di penetrare in un mondo dove scandivo il tempo con sorsate di vino e boccate di sigarette. Esiliata dal ruolo di martire, la sua vita aveva ritrovato un senso quando mi avevano diagnosticato un tumore: il lascito di mio padre. Dopo l’operazione, veniva ogni giorno a casa mia, passava il tempo incollata ai fornelli, la sua vita era un continuo sgrassare, sfregare, cucinare: si fiondava sui mobili per lucidare ogni macchia, volava sul soffitto pronta a spazzare via briciole di polvere e poi planava sul pavimento, lustrandolo con la pelle. Ma in camera mia non poteva mettere piede.

All’inizio si presentava alla porta, una macchia dietro al vetro. Non respirava, piangeva soltanto.

Ormai le sue parole erano ridotte a sguardi saturi di tristezza, un’accusa che avrei voluto spazzare via mentre sprofondavo nel buio scolandomi cartoni di vino e rivelando la mia presenza solo grazie ai colpi di tosse che si mischiavano a quelli di mio padre, affossato nell’oscurità a spiarmi.

Almeno aver perso mezzo polmone mi aveva concesso un lavoro che permetteva di stare il meno possibile a casa: custode nella fabbrica dove ormai nessuno ricordava il nome di mio padre. Arrivavo alle undici di sera, un’ora prima della chiusura. Ogni volta trovavo Cesare, il capo reparto, piantato nell’androne, da una porta spalancata provenivano sbuffi infuocati che ne esaltavano la figura canuta, così esile da sembrare uno scarabocchio. 

Mi fissava con occhietti avvampati di odio.

Filavo su uno scalone e giungevo al primo piano, da un arco di pietra si intravedeva una sala piena di macchinari che sbuffavano e decine di operai affannarsi nel raccogliere teste, braccia, gambe e torsi di bambolotti sputati fuori da bocche di metallo. Al secondo piano, in un corridoio dal soffitto a volta, altri uomini andavano avanti e indietro per rigirare plastica fusa in dei calderoni. Nessuno badava a me. Zaino in spalla, salivo fino al terzo piano, l’ultimo. Tutto era buio. Ai lati di un piccolo andito c’erano due cancellate. Come ogni sera mi fiondai sulla porta a sinistra e guizzai in un lungo corridoio, da una fila di finestroni i bagliori provenienti dalla strada sfioravano scrivanie colme di scartoffie. Lasciai lo zaino in una stanza e tornai in fretta nel corridoio, di colpo mi avventai su una vetrata e ci schiacciai contro la faccia: la luce di una camera al primo piano del palazzo di fronte era accesa, ma lei non si vedeva, c’era solo quel ciccione russo che a vent’anni viveva a carico di sua madre. Al secondo piano la solita vecchia cucinava in intimo e al terzo una famigliola guardava la tv, così come le due studentesse al quarto piano: ridicole stronze che tenevano sempre le persiane calate.

Scostai lo sguardo sul palazzo accanto: il B&B al secondo piano aveva le luci spente. 

«Dannate troie» farfugliai, tornando a fissare l’appartamento del moccioso russo.

Infilai la mano nelle mutande e strinsi il cazzo.

«Cagna!»

Lei stava lì, indossava già il pigiama e parlava con quel demente.

Sfrecciai nel corridoio, senza badare al fiatone. Picchiai su una finestra e calcai il volto sul vetro, ma le imposte delle finestre del palazzo ad angolo del vicolo erano chiuse, bardate come tombe. Mi allontanai alla svelta e iniziai a girare avanti e indietro nella sala, da giù si udivano ancora dei rumori, . Cesare sarebbe potuto salire e scovarmi al buio, era sempre l’ultimo ad andarsene. Prima di lasciare l’edificio alzava lo sguardo verso il terzo piano, quasi sapesse che io stavo appiattito contro una parete. Appena andava via, attraversavo i corridoi e salivo e scendevo scalinate di pietra, ridotto a una macchia, inseguito solo dalla mia tosse. Mi fermavo a ogni finestrone e appena vedevo la luce accesa in una camera infilavo una mano nei calzoni.

«Lo vuoi, troia?»

Ma il più delle volte non vedevo nulla, eppure loro c’erano. 

Filavo avanti e indietro nel corridoio del terzo piano, in mano un cartone di vino e tra le labbra una sigaretta accesa, poi precipitavo verso l’altra sala e guizzavo tra le scrivanie fino a crollare su una finestra, nella speranza che il giovane palestrato al primo piano del palazzo di fronte fosse con qualcuna o magari che la studentessa rossiccia si fosse decisa a infilarsi le dita nella fica, ma di rado vedevo qualcosa. Solo alle sei e mezza mi acquietavo. Ubriaco, strisciavo nella stanza dove avevo lasciato lo zaino e ci infilavo dentro i cartoni di vino vuoti. Aprivo le finestre per far volare via il fumo prima che apparisse Cesare. E lui veniva sempre, fatalmente. Arrivava alle sette in punto, si fermava nel cortile e fissava il terzo piano.

Appena rincasavo, mia madre attendeva sulla soglia della cucina, gli occhi lucidi di lacrime fissi su di me a ostentazione del suo martirio.

Filavo nella mia stanza e mi spogliavo alla svelta, incespicando tra le bottiglie vuote, per poi sgusciare sotto le coperte e stringermi il cazzo in mano, rimembrando quei corpi intravisti nella penombra, venature di carne che afferravo con ingordigia.

Quando mi svegliavo, mia madre era in cucina a prepararmi il pranzo. La salutavo a malapena con qualche colpo di tosse e lei sorrideva, fingendo di non udire la voce di mio padre e addossandomi con il suo affetto la responsabilità di sopravvivere. Solo la sera trovavo pace, l’abbandonavo in quella tomba e andavo in fabbrica, pronto a correre di corridoio in corridoio tracannando vino, senza fermarmi neanche quando sentivo i polmoni accartocciarsi.

Ma una notte la vidi. Una luce mai notata prima, sopra l’alloggio del ragazzo palestrato. Dietro una tenda balenava il riverbero blu di un televisore; in un’altra camera la luce di un lampadario si scagliava su un letto matrimoniale. Non c’erano scatole né valigie, tutto sembrava fosse lì da sempre, un regalo che accolsi abbassando i calzoni e stringendo il cazzo in mano.

«Su troia, fatti vedere.»

Attesi fino all’alba incollato alla finestra, ma non venne nessuno. Quando si presentò Cesare ero seduto nella solita stanza, affannato, i capelli sfatti e gli occhi arrossati. Studiava ogni brandello della mia faccia. 

Nel lasciarmi alle spalle l’edificio avvertivo uno strano malessere attanagliarmi la pancia, quasi stessi abbandonando lì dentro un pezzo di me. Portai una mano sul fianco destro e sorrisi. Cercai di affrettare il passo, a ogni colpo di tosse sentivo il torace comprimersi come una spugna. Arrivato a casa, precipitai nella mia stanza, mi tolsi tutto da dosso e corsi sotto alle coperte, iniziando a masturbarmi.

Vedevo solo quella luce, indelebile.

Durante il pranzo mia madre stava ai fornelli a preparare la cena. Sorrideva, non osava posare gli occhi su di me, seduto a capotavola a biascicare il cibo. La vedevo consumarsi nel servirmi, avrei voluto che morisse solo per avere il diritto di distruggermi.

In serata mi presentai al lavoro in anticipo ma Cesare era già nell’androne. Non disse nulla, lo superai e corsi lungo le scale, mantenendomi il petto con una mano. Il terzo piano era deserto, tutto era buio. Mi fiondai sulla grata a destra e filai lungo le scrivanie, fino a franare su una finestra. E lei era lì, mi fissava. 

Sbottonai i calzoni e lo presi in mano.

«Dai, fatti vedere.»

All’improvviso udii dei passi dietro di me, feci appena in tempo a ricacciarlo dentro prima di voltarmi e vedere Cesare, i suoi occhi di brace fissi nei miei.

Cercai di sorridere, tremavo.

«Ho sentito dei rumori in strada…»

Gli passai accanto, non si mosse. Corsi nella mia stanza e mi ci chiusi dentro, impaurito al pensiero che lui avesse visto. Ma Cesare non venne. 

Dopo un’ora, agguattato contro una finestra del corridoio, lo vidi in strada, gli occhi puntati su di me.

Ero certo che mi vedesse.

 

*

 

Trascorsi la notte a fissare quella stanza, tra sorsate di vino e sigarette, ma non vidi nulla. Ogni tanto correvo nell’altra sala e mi gettavo su qualche vetrata in cerca di qualcosa, di qualcuno, ma non c’era anima viva. Sfrecciavo lungo il corridoio scrutando ogni finestra, insinuandomi nell’oscurità di quelle case in cerca di un minuscolo ritaglio umano, poi correvo nell’altro salone e mi appiattivo contro la finestra a scrutare quella luce, smisurata e inamovibile.

Quando tornò Cesare il fumo si addensava ancora sul soffitto, simile a una creatura viva. Si guardò attorno disgustato e mi abbandonò senza degnarmi di un’occhiata.

Una volta a casa entrai in camera e neppure mi spogliai né andai a letto, tolsi i calzoni e iniziai a masturbarmi con ferocia, in piedi, pensando al culo della giovane russa e alla studentessa rossiccia che saltava su di un cazzo e a tutte le coppie che avevo visto fottere nel B& B: pezzi umani che si aggrovigliavano formando creature senza faccia, senza voce, solo carne.

Uno schizzo di sperma si abbatté sul vetro e scivolò lentamente: una lacrima, il pianto di mia madre.

Crollai sul letto, raggomitolato come un bambino. Temevo che se mi fossi voltato avrei trovato accanto a me mio padre, lì a decretare con la sola presenza che mai avrei depennato la sua condanna.

Quando mi svegliai ero zuppo di sudore, il cazzo duro a ricordarmi l’immagine immarcescibile di mio padre.

Mia madre puliva pentole e stoviglie in cucina, sulla tavola mi attendeva il pranzo fumante.

Corsi via di lì, appena sbattei la porta di casa rividi la lapide crollare sulla fossa di mio padre e udii il pianto di quella donna investirmi. Mi affrettai in strada, avanzavo tra i vicoli mantenendomi il fianco destro con una mano e scrutando le finestre dei palazzi in cerca di un corpo, una forma, una sagoma; arrancavo lungo viuzze ignorando gli sguardi dei passanti, su di me si intrecciavano di balcone in balcone ragnatele di zinco da cui penzolavano abiti profumati. All’improvviso notai una finestra aperta al primo piano di una palazzina. Crollai dietro a un cassonetto e affondai una mano in tasca, tastandomi con forza il cazzo e fissando quei due corpi che si attorcigliavano su di un letto.

A un tratto scorsi una bambina davanti al portone del palazzo: i suoi enormi occhi tondi erano fissi su di me, tra le dita stringeva il braccio di una pupattola che penzolava nel vuoto.

Mi tirai su alla svelta e ripresi a correre nei vicoli, finché di colpo mi bloccai e sbarrai gli occhi dal terrore: seduto su un muretto, sotto le braccia spalancate di una statua di Cristo crocifisso, uno straccione portava alla bocca un cartone di vino, esibendo due file di denti marci.

 

*

 

Girovagai tutto il giorno, spiando ogni finestra. Dopo aver comprato del vino andai in fabbrica e trovai Cesare al solito posto, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di diverso: brillava un’ebbrezza animalesca che non capivo, mi spaventava. Eppure, giunta mezzanotte a stento sbirciò verso il terzo piano, quasi io neppure esistessi.

Appena andò via mi avventai su di lei, su quella luce. Rannicchiato a terra, un cartone di vino in una mano, continuavo a fissare quello strano bagliore, non esisteva altro.

Non vidi nulla neanche quella notte, e quella seguente e l’altra ancora. Andavo al lavoro sempre prima, passavo tra gli impiegati in cerca del momento per appoggiarmi a quella finestra e vedere se lei ci fosse: e lei c’era sempre, immutabile.

Cesare non mi seguiva più. Lo vedevo solo al mio arrivo: una statua piantata nel pavimento a fissarmi con occhi sempre più febbrili, sul volto un ghigno carico di compiacenza. Era ingrassato, la pelle rossa come quella degli ubriaconi: come quella di mio padre. 

Una volta a casa, crollavo a letto e restavo rannicchiato a fissare una parete, dalla cucina giungeva il profumo del cibo appena cucinato ma non mi importava, quasi non mangiavo più. Mia madre lasciava i pasti fuori alla porta, un’offerta che puntualmente rifiutavo. Non si dava pace, la sentivo trafficare di continuo con le padelle, alcune volte la trovavo ferma dietro al vetro della porta della mia camera o raggomitolato sotto al tavolo in cucina a piangere. I suoi occhi erano due spilli, sembrava persino più piccola, la pelle le si stava spaccando come malta al sole. Puzzava di morte. Finché una mattina la trovai ai piedi del mio letto, la testa riversa sul materasso come una bambola rotta.

Mi alzai di scatto e la spinsi via, lei crollò a terra ma non si mosse, le pupille erano fisse sul soffitto, prive di vita.

L’abbandonai tra mozziconi e bottiglie e corsi in bagno a sciacquarmi la faccia. Appena alzai lo sguardo verso lo specchio urlai dal terrore e gli lanciai contro una saponetta, riducendolo a pezzi.

Paralizzato, la bocca ancora spalancata, vedevo riflesso nei vetri sul lavello il volto di mio padre. Mi fissava.

*

 

Decisi di tumulare mia madre in cucina, tanto presto sarebbe svanita. Almeno ora non poteva più vedermi, si contavano le costole tanto ero dimagrito, quasi riuscivo a scorgere il polmone mozzato: quella griffe che in eterno mi avrebbe unito a mio padre.

Lui di giorno si aggirava nel corridoio, ne sentivo i passi, i colpi di tosse si mischiavano ai miei, ma non si lasciava vedere. Mentre dDi notte gli sfuggivo per accasciarmi ai piedi di una finestra a fissare quella luce che non si decideva schiudersi in una forma viva, stringendo in una mano il cazzo ridotto a un cuore avvizzito.

All’alba Cesare mi aspettava sulla soglia d’ingresso, gigantesco e sanguigno, le mani villose strette sugli stipiti e un ringhio sdentato puntato su di me. Filavo sotto le sue gambe e una volta a casa correvo da mia madre. Lei mi attendeva dietro quella lapide di cemento, ridotta a un pallido alone. Le sue dita grattavano contro al muro in cerca di me.

Le concedevo di annusarmi, mentre mio padre si aggirava nel corridoio: un’ombra che si ingrossava sulle pareti ed esplodeva fino al soffitto in ventate di colpi di tosse. Ne scorgevo appena la sagoma disperdersi nell’oscurità assieme al fumo che mi usciva dalla bocca, ogni volta che tossivo lui sembrava risorgere e per quanto schiacciassi la mano sul fianco non riuscivo a trattenerlo: scalciava, pretendeva di nascere.

Un giorno, prima di andare al lavoro, decisi di dare fuoco alla casa, e a mio padre.

Ammucchiai in un angolo della mia stanza i cartoni di vino e cosparsi tutto di alcool, una vampata balzò in aria e si schiantò sul soffitto. Guizzai fuori dalla camera, inseguito da una fiammata, e nel buio del corridoio lo vidi: mio padre, enorme, una macchia nera che si gonfiava tra le fiamme. 

Con un ruggito mi spazzò via, non riuscivo a smettere di tossire. Nel sollevare il capo vidi una parete di macigni ricoprire la porta di casa, ma un ultimo residuo della vita di mio padre la frantumò con un grido, scaraventandomi in strada. Ruzzolai fino a un cassonetto dei rifiuti e mi tirai su in fretta, boccheggiando e tossendo; dietro di me folate di mio padre spazzavano via in raffiche di fumo e le persone nei vicoli e accartocciavano le serrande dei negozi, le auto esplodevano e sacchi d’immondizia volavano al cielo come tanti corvi arsi, i palazzi franavano investiti da ondate di tosse.

Filai lungo i vicoli di Forcella e raggiunsi la fabbrica. Nell’androne trovai Cesare ad attendermi, mastodontico, i piedi piantati nel pavimento e le braccia conficcate nelle pareti. Mi fissava senza occhi e digrignava i denti marci, le carni si liquefacevano in gocce di grasso e sangue.

Sollevò un braccio, sradicando un muro e cercando di afferrarmi, ma guizzai sotto le sue gambe e corsi sulle scale. Dietro di me udivo il soffitto franare e Ciro piangere come un bimbo, un lamento assordante che mi inseguiva assieme ai colpi di tosse di mio padre mentre avanzavo tra zampate di fuoco, ansando e tenendomi il petto con una mano. Spalancai una delle grate al terzo piano e sfrecciai tra le scrivanie, al buio, per poi avventarmi sulla finestra e schiacciare la faccia sul vetro, le pupille piantate su quella luce smisurata. Lasciai cadere jeans e mutande e iniziai a masturbarmi, l’altra mano sul fianco destro.

Il soffitto franava e le pareti si sgretolavano divorate dalle fiamme, ma continuavo a masturbarmi sempre più velocemente, il polmone pulsava nel petto al ritmo dei colpi di tosse di mio padre e dei miei.

Quando a un tratto la vidi: appena un’ombra che veleggiava nella camera da letto.

Digrignai i denti e strinsi forte il cazzo.

«Su, fatti vedere!»

Una fitta al fianco destro mi fece spalancare la bocca in un urlo muto. Crollai sul vetro, annaspando l’aria e tenendomi il petto con una mano e il cazzo nell’altra, gli occhi sbarrati sulla finestra di fronte e su quell’uomo che si masturbava fissandomi con i miei stessi occhi, la mia faccia.

Solo adesso lì notavo: i tratti di mio padre scolpiti sul mio viso, ineluttabili.

Un’altra fitta al fianco mi fece piegare in due dal dolore. Strisciai sul pavimento, gocce di fuoco colavano dal soffitto e fiammate divampavano sulle pareti, a ogni colpo di tosse sentivo le urla di mio padre crescermi nel torace. 

Agguattato in un angolo, infilai una mano sotto la maglia e mi strinsi il petto. Di colpo sgranai gli occhi e impallidii. 

Non sentivo più il cuore. 

Spinsi le dita sulla carne ma affondarono in una poltiglia gelatinosa, fino a sprofondare nel vuoto.

Non c’era nulla, solo un infinito buio.

Appena estrassi la mano, una folata di fumo esalò dal torace e si schiantò sulla parete di fronte, gonfiandosi come una’ enorme medusa al ritmo della mia tosse, un turbinio di fumo in cui scorgevo braccia, gambe, un volto.

Poi esplose in un urlo e un’ondata caliginosa mi spazzò via.

Quando riaprii gli occhi, un manto di nebbia avvolgeva la stanza, dal soffitto cadevano briciole di cenere e le pareti erano divorate dalla muffa. 

Si udiva solo la mia tosse.

Schiacciai un palmo al suolo per tirarmi su, ma le ossa si sbriciolarono e il braccio franò sul pavimento. 

Precipitai a terra, piegato su di un fianco, con la sola mano rimasta cercai di stringermi il braccio ma non c’era più: solo cenere, la stessa che pioveva su di me tra refoli di nebbia in cui vedevo avanzare una figura, a passo lento.

Mio padre.

Mi fissava con disgusto, le labbra irrigidite in una smorfia di disprezzo e gli occhi appannati dalla pena. Non disse nulla, voltò il capo e andò via, lasciandomi lì, un insetto insignificante.

Accasciai la faccia sulla parete, la pelle si sbriciolava e volava via assieme a mio padre, e a mia madre. Non sentivo più neppure i colpi di tosse. Tutto ciò che restava di me era un polmone abbandonato sul pavimento che palpitava, uno scrigno in cui mio padre sarebbe rimasto vivo per sempre, al posto mio.

Immagine generata con DALL-E
“a man from behind in a dark office looks out of the window at a building with some illuminated rooms, oil painting”