Giulio

 

«Dov’è mio fratello?»

«Ma cosa stai dicendo? Non hai ancora smaltito?» ridacchia Giacomo, allamandomi con quegli occhi sgranati, quelle pupille che ora le vedo, alle prime luci, ancora dilatate.

Sento un grumo d’ansia aggrapparsi alla gola. Tanto fa da sola, non la controllo, non l’ho mai controllata. È da un po’ di tempo però che è peggiorata: posso solo sfogarla e allora lo spintono forte e «non mi prendere per il culo: dov’è Giulio?» gli abbaio dietro mentre barcolla, un piede gli slitta sull’erba bagnata, poi crolla a terra scagliandomi addosso un «oh ma che fai?» a denti stretti.

La scintilla: così chiama Serena quel qualcosa che fulmineo mi fa montare la rabbia ma che poi altrettanto rapida si eclissa e infatti «scusa» gli dico affannato intanto che Lisa si accovaccia su di lui velandogli mezza faccia con la sua cascata rossa. I due si guardano, fissano me, poi «ecco il Barba» cerca di dirottare il discorso lei «che fuori di testa: questa notte era vicino al fuoco e bruciacchiava il manico della chitarra» sghignazza.

Fuori di testa penso, sono tutti fuori di testa qua: se non la reggono la roba che continuano a fare? Rischiano di vaporizzarsi il cervello. L’unico impermeabile sono io, e un po’ anche Giulio. Non mi faccio certo fottere, basta fermarsi un po’ prima e la genetica certo aiuta: se hai le sinapsi e i neurotrasmettitori belli stabili quello è il loro equilibrio, a voglia scombinarli, poi in assetto ci tornano, a neuro mi sono beccato un ventotto, mica poco.

Giulio però un po’ fuori lo è di suo, è sempre stato come dire, alternativo, sopra le righe, e mi sembra di vederlo, era con il Barba sicuro. Sì dai non me lo sono sognato, era con noi questa notte, quindi questo vuol dire una sola cosa che «ti immagini i tuoi quanto si incazzano quando ti vedono?» anticipa i miei pensieri il Barba rifilandomi una pacca sul collo.

Ha la faccia di Leonida sulla locandina di trecento, soltanto rotonda, una luna piena sopra l’amorfa palla gigante del corpo, e la fronte sembra sudata, è sempre così estate o inverno e, se la tocchi, te ne accorgi che è sebo: trasuda grasso ovunque.

«Era con te vicino al fuoco stanotte? Lisa ti ha visto bruciare la chitarra» dico additando l’unica ragazza rimasta fino all’alba.

«Salsicce». Il dono della sintesi del Barba è leggendario, ti vomita addosso monosillabi con la faccia di chi sta svelando l’arcano e, se te ne resti lì a bocca aperta aspettando una parola in più, ti fissa in silenzio, poi si asciuga la fronte con una manica o un lembo della maglia: sei tu che devi chiedere e, dopo averti elemosinato una sigaretta, fumeggia vaghe spiegazioni.

Abbrevio il rituale: pinzo una paglia dal pacchetto, gliela ficco in bocca e avvicino la fiamma facendo attenzione a non sfiorare la foresta di peli che gli colonizza il mento.

«Abbrustolivo un po’ di salsicce con il manico della chitarra: la cosa ti disturba?» sbuffa fuori assieme a una massiccia nube di fumo.

«Te sei bruciato» atterra da dietro una voce di donna, mi volto: Serena, capelli viola arruffati che piovono sopra una maglia dello stesso colore, il suo congelato sorriso sempre lì, abbozzato fra occhi turchini e bocca.

«Non eri andata a casa?» le fa Giacomo assestando pacche decise ai pantaloni.

«Macché» fa e addita la strada sterrata a un centinaio di metri da noi, «ero in macchina: avrò dormito un paio d’ore, tre al massimo».

«Boia di una cane, volete farla finita? Dov’è mio fratello? Cos’è si è vaporizzato?»

«Tuo fratello?» chiede Serena stupita mentre il suo sorriso si sgonfia.

Allamo il suo sguardo smarrito e «mio fratello, mio fratello, ti sei bruciata il cervello anche te Sere? Se non la reggete la roba chiudetela qui, basta, ma forse è troppo tardi» sputacchio intercettando i loro sguardi che si cercano con occhi sgranati «mi state prendendo per il culo? Lo volete capire che non c’è da scherzare? Che faccio torno a casa senza lui? Sapete che c’è? Vado a cercarlo, da solo» riattacco. Volto le spalle a tutti e prendo a correre giù per il campo annaffiato dalla guazza mattutina.

Basta poco e rallento il passo, il fiato manca, calo ancora, ancora, sono fermo: maledette sigarette penso e sento un «aspetta, aspetta» sopraggiungere alle spalle, poi unghie smaltate di viola mi artigliano un polso.

«Cosa vuoi?» faccio affannato a Serena.

«Vengo con te» mi alita a una spanna dal viso.

Profuma di viola, anche il suo respiro, non come il fiore ma proprio come il colore: è da un po’ che sento gli odori dei colori.

«Livio» fa lei puntellando gli occhi sui miei.

Rimango appeso al suo sguardo mentre penzolo al pensiero di toccare le sue labbra polpose.

«Livio» riattacca «cos’hai intenzione di fare? Dove stai andando?»

«Devo cercare Giulio, boia di un cane, cosa c’è da capire? Tu lo vedi? No. E allora? Dove si sarà cacciato? Era in macchina con me, siamo tutti qui. Non può essere tornato a piedi. Saranno» singhiozzo, adocchiando il cumulo di piccoli quadrati che si intravede a valle oltre le cime di alcuni alberi spelacchiati, «saranno quattro o cinque chilometri anche solo in linea d’aria, se non più, che se li è fatti tutti a piedi? Dai per favore Serena. La prossima volta io fumo e voi mi guardate perché non lo reggete proprio manco quello».

Si abbandona a un «andiamo» corredato da uno sguardo che sembra turbato.

Sì lo so, non devo avere un bell’aspetto, forse strascico anche un po’ di parole ma qualche postumo lo potrò accusare anch’io, no? Lei poi non è mica una Santa, non sta certo a guardare, quindi potrebbe togliersi questa faccia da maestrina, potrei dirglielo ma adesso devo concentrarmi su Giulio, non può essere andato chissà dove: sicuro è qui vicino penso.

Con lo sguardo scandaglio attorno: sono quasi al centro di questo campo verde di fieno corto. Davanti a me scende bello inclinato, che poi come faranno a non ribaltarsi con il trattore quando lo arano. A destra, a poco più di un centinaio di metri, c’è la strada sterrata da cui siamo arrivati questa notte, la riconosco. Dietro ecco il Barba, Giacomo e Lisa che sembrano parlottare additandoci, incorniciati dal bosco verdastro sullo sfondo e a sinistra, sì deve essere andato là, penso, non appena intravedo uno specchio d’acqua da sopra i cespugli che lo accerchiano. «Il laghetto» grido e strattono Serena per una manica, «scommettiamo che è laggiù?».

Poche falcate, con Serena alle spalle che a stento tiene il passo, e raggiungo questa pozzanghera gigante dove si specchiano alcune nuvole. Per un attimo, le fisso, bianche, vaporose, poi la vertigine e la sensazione di precipitare verso l’alto.

Chiudo gli occhi ingoiando la bile che rapida è risalita dallo stomaco. La testa gira o gira il mondo? Pochi istanti e la giostra si ferma. Riapro gli occhi e li instrado in una rapida perlustrata tutt’intorno: Giulio non c’è.

Serena ingabbia il mio sguardo e «Livio» sospira «cosa stai cercando?»

«Mio fratello Sere, ma scherzi? Ancora con questa storia boia di un cane?»

«Livio fermati ti prego» la voce le trema e, con occhi che sembrano umidi, singhiozzando lo dice: «Livio non hai un fratello, non l’hai mai avuto e lui non c’è più: lo sai bene».

«Cosa? Chi non c’è più?» chiedo ma poi, in un istante, realizzo mentre «Giulio» risponde lei piangendo e come un macigno mi frana di nuovo addosso la sua assenza che mi tallona da anni, senza tregua, come la colpa, le mani che formicolano, le cose che vedo solo io, il cuore che galoppa, i pensieri che si attorcigliano, la luce blu delle sirene, la sua mano fredda sotto il telo bianco, tutto ciò che non ritornerà, le nostre feste, quella maledetta festa, i suoi anni, le notti in bianco, le notti, ora, che non dormo e tremo.

Immagine generata con DALL-E
“some white and fluffy clouds are reflected in a lake, painting in the style of turner”