Come il mentore sparì

Il Mentore è uguale a me, solo a uno sguardo attento riusciresti a scorgere le differenze. Per esempio, il Mentore è sempre rasato alla perfezione, mentre io lascio incolta quella che non ho il coraggio di chiamare “barba”, più per pigrizia che per senso estetico.

Lo vedo entrare dalla porta del bilocale, vestito con la sobria eleganza che non abbandona neanche durante questo luglio così caldo e asfissiante (una camicia bianca dal buon taglio, rimboccata con cura dentro dei pantaloni neri a sigaretta, e delle scarpe di vernice, nere come la cintura, ovviamente). Neanche un filo di sudore. Mi guarda con il suo solito sguardo freddo, implacabile.

Io sono sprofondato nel divano letto, in mutande e con una maglia dell’Inter umidiccia appiccicata alla pancia, un po’ troppo gonfia se confrontata con la linea fine del Mentore. I miei capelli grondano sudore, e gli occhi sono appesantiti.

«Cosa stai facendo?» mi chiede inquisitorio, come se non vedesse.

«Niente, mi annoio un po’»

«Non devi prepararti per l’esame?»

«Sono già a buon punto. Con questo caldo e questa stanchezza pensavo di prendermi il pomeriggio libero»

Posso sentire il suo rimprovero entrarmi in testa prima ancora che apra bocca. Tante volte il Mentore deve martellare le mie tempie con le sue sentenze. Il suo giudizio è sempre molto severo.

«E come pensi di laurearti in tempo, farti accettare come ricercatore, andare dall’altra parte del mondo e farti conoscere, se ti prendi delle pause? In questo modo rimarrai sempre un signor nessuno, un fallito.»

Mi ritrovo a succhiarmi le labbra, come se la bocca volesse ribaltarsi prima di affrontare di nuovo questo attacco, che lui sa essere la mia piaga. Tocca sempre gli stessi tasti, e in poche parole riesce a strappare i punti con cui ricucio la stessa ferita. Lo guardo negli occhi, o almeno ci provo. Poi lo distolgo, sento il suo sguardo che mi trapassa il cervello. Temo che il Mentore torni a ossessionarmi.

Trascinando i piedi, mi dirigo comunque al tavolo della cucina, che mi attira come fossimo legati da un destino inesorabile. Mi siedo, con il Mentore accanto, riapro il computer, gli appunti e i manuali.

È difficile spiegare la presenza del Mentore a chi non l’ha mai conosciuto. Mi sono sempre trovato d’impaccio nel descrivere come passo le mie giornate, il mio impegno quasi carcerario suscita un apprezzamento da parte dei miei interlocutori.

Si congratulano per la mia dedizione, il mio rigore, i miei risultati ottimi all’università. Non sanno che di mio c’è ben poco, è tutto merito del Mentore e della sua costante pressione. Senza di essa, chissà come passerei le mie giornate. Probabilmente a zonzo, a fare niente di che, a vivermi addosso in modo così inconsapevole da avere l’apparenza di essere felice, o almeno di essere in pace.

Quando il Mentore lo consente, la sera mi vedo con Gigio e Jack (il “triumvirato”). A quei due non riesco a nascondere niente. Mi leggono la stanchezza e la preoccupazione tra le righe del volto. Dicono che dovrei prendere una pausa.

«Dai ragazzi, tra poco avrò finito la sessione, devo solo stringere i denti.»

Gigio e Jack si guardano, storcono la bocca e la discussione finisce lì. Il bar si riempie di conoscenti e persone di cui conosco soltanto il nome. L’intimità si guasta e cominciamo a parlare dei fatti di gente che ignoriamo.

Al mio ritorno, il Mentore mi aspetta, in piedi, vicino alla porta. Le mie spalle curve non possono sostenere il confronto con la sua postura eretta, magnifica. 

«Hai fatto un po’ tardi stasera» constata.

«È solo l’una»

«Vai a letto muoviti, che domani la sveglia è alle sette» risponde brusco, «domani devi recuperare ciò che non hai fatto oggi.»

Mi dirigo in bagno. Spazzolo i denti fino a far sanguinare le gengive, mi spoglio e mi butto a letto, il momento che segretamente ho aspettato tutto il giorno. Sentendo il tepore sulle gambe delle lenzuola fresche, mi addormento.

Con le lenzuola avviluppate come un boa intorno alle gambe, mi sveglio e la stanza perde la sua fisionomia abituale. Il bilocale è quasi tutto il mio mondo, lì vivo per la maggior parte del tempo per la maggior parte dei giorni. Stanotte invece è al tempo stesso familiare e sconosciuto, distorto come guardare il fondale marino da fuori. Sono totalmente fradicio e il mio petto brucia per le unghiate che mi hanno raschiato la pelle, come volessi strapparmela di dosso. Le pareti si innalzano di più sempre di più, si ingigantiscono. La porta è spalancata e il Mentore mi guarda. Non dice niente. Anche lui sta diventando enorme, si staglia su di me. Mi punta un dito contro, io supino a malapena riesco a muovere la testa e le lenzuola mi immobilizzano e stringono. Nel buio, non riesco a mettere a fuoco il volto del Mentore, l’unica cosa che si distingue chiaramente è il dito che sempre di più si avvicina quel dito gigantesco che si allunga e si ingrossa diventa un ramo un bastone una trave che punta verso il mio petto si poggia proprio sul centro dello sterno e spinge non respiro e il dito spinge e le ossa si incurvano sotto il suo peso ho la bocca aperta per urlare ma esce solo un rantolo e il dito spinge mentre non riesco a muovere neanche le mani e l’enorme campanile che è la stanza collassa come un castello di carte e mi crolla addosso ed è tutto nero.

Al mattino, una debole luce mi ridesta. Sono le sei, ed è tutto spaventosamente normale. Vado in sala, per scoprire che fine ha fatto tutto il resto della casa. Il Mentore è seduto sul divano-letto, composto, con gli occhi chiusi, le braccia incrociate e sembra che dorma. Di nuovo di una dimensione consona, e il dito appoggiato sul bicipite non si erge più minaccioso. Il cuore si calma, smette di voler scappare lungo la gola, e prendo qualche profondo respiro. Chiudo gli occhi e sento l’aria che passa per il naso, la laringe, la trachea. Riempie tutto il mio corpo. Andrò a fare una camminata oggi, ascolterò il consiglio di Gigio. Approfitto del fatto che il Mentore dorme ancora.

Indosso dei bermuda verdi orribili e spiegazzati, una maglietta nera dell’Hard Rock e le Stan Smith, prendo le chiavi della macchina e me ne vado via. 

Sul piazzale del Campo dei Fiori, sul Sacro Monte, la vita sembra svegliarsi più tardi che a valle. Non c’è ancora nessuno e la brezza leggera tiene lontana la canicola che più tardi percuoterà l’asfalto del parcheggio. Mi dirigo al parcometro contando le monete, ma poi mi ricordo che, essendo meta soprattutto di picnic domenicali, durante i giorni feriali non si paga. Le monete scorrono dentro la tasca del portafoglio e mi inoltro in un sentiero quasi nascosto dalle piante. 

Il sentiero prosegue per qualche decina di metri dentro una fitta macchia boschiva, che in questa stagione calda è rigogliosa e ricca dei suoni. Tortore che non sono ancora partite per il Sud, il lamento delle cicale, il ronzio aggressivo di tafani, api, cervi volanti. A un certo punto questo tunnel si riapre, in una piccola radura, un ridotto slargo che gli alberi non raggiungono. È il mio posto preferito per osservare la valle, perché so già che non verrò disturbato. Si vedono le montagne alte in lontananza ancora spruzzate di bianco, i monti più vicini con i loro sempreverdi freschi. Poco sopra di me, la grande croce di ferro a ricordare il punto per cui passava la Linea Cadorna durante la Prima Guerra Mondiale. Posti che conosco, in cui mi sono avventurato soprattutto con Luca, e insieme parlavamo di Storia, di fatti noti e poco noti, di guerrieri e di come nonostante le loro ridotte possibilità gli uomini di allora fossero in realtà più forti e potenti, tanto potenti da quasi autodistruggersi. 

In basso, Varese. Le sue ville, i suoi palazzi, le sue strade larghe sembrano da quassù una città di piccole formichine. Si vedono dei puntini che si muovono veloci, sono le macchine. Dentro quelle case, quelle macchine, ci sono delle microscopiche persone. Davvero è tutto così piccolo se solo saliamo di qualche metro? Non resisto alla tentazione di pensare anche me laggiù, ma con la possibilità di guardare tutto con questi nuovi occhi. Farei fatica a vedermi, a dir la verità, non avrei modo di sapere se quello che sto guardando sono davvero io. Forse non mi vedrei neanche.

La città minuscola mi appare adorabile. Se vivo in quella piccolezza, vuol dire che sono minuscolo anche io. Talmente minuscolo che gli affanni, i dolori, le lacrime vengono cancellati da una nuova innocenza. Dall’alto vedo un mondo puro, su cui nonostante tutto splende il sole.

Quali errori può fare un uomo per tormentare la pace che si respira quassù? Come può una scadenza non rispettata, un impegno posticipato, un’amicizia che finisce, un amore tradito, una vita che muore far smettere ai puntini di muoversi, al sole di scaldare? Questa consapevolezza mi travolge con tutta la sua gentilezza. 

Ritornando sui miei passi, mi accorgo che è passata un’ora. Salgo in macchina e vado verso casa. Apro la porta e non c’è nessuno. Il caldo si è fatto anche peggio di quello di ieri. Farei di tutto per un po’ di frescura. Ma, in fondo, perché no? Prendo il telefono e scrivo a Jack e Gigio:

Piscina?

Immagine generata con DALL-E
“a dramatic painting of a hand with an accusatory pointing index finger illuminated by a bright light”