Cicchetti

«E Fhilippo beh tu ci sei Fhil vero», farfugliò Gustavo col sigaro in mezzo alla domanda, con l’amico imbambolato, «Ah sì», nel seguire le chiappe strette di un’Augusta.  La facciata dell’Odeon scuriva a macchie sulle sagome degli otto uomini impalati sul marciapiede. Spensero prima i neon fluo dall’insegna, poi il giallo sporco delle vetrate, infine l’ampio abbraccio di luce disciolto nel salone. In quel tratto di via Tico i lampioni funzionavano a singhiozzo, quindi il gruppetto si trovò a cicalecciare in penombra, voce controllata per non seccare il vicinato, eppure nessuno s’azzardò a tagliare la corda, manco per scherzo, tutti a fare quadrato di fronte al cinema chiuso, che una notte così brava tutti insieme quando sarebbe ricapitata, ma quando mai, nelle sere in famiglia intorno a zio Netflix, tra i viaggi di lavoro imprevisti consolati dalle escort, lungo le sciatiche infiammate da febbri da cavallo, gli accordi tentati e disfatti, la voglia scialba di nuotare in acque già scorse, mescolate ad altre e oramai irrecuperabili, oltre il collo di un imbuto troppo stretto per vite mosce e adipose come le loro. 

L’accendino di Osvaldo frizzò in un cono di buio verso Mimmo, «Idee, Pornazzo, Nah», niente d’interessante, a parte il rigetto di uno sciacquone dal palazzo accanto. Mimmo ripose in tasca il telefono col browser già pronto, mentre l’ombra di un gatto grattava lische dal pattume. Silenzio e mormorii da chi aveva atteso quel momento troppo a lungo per farsi trovare pronto alla bisogna. Sguardi interrogativi senza risposte. Finché Mario portò tutti al suo ristorantino che sì, era giorno di chiusura, ma chi se ne fregava. Entrarono dal retro con le chiavi agganciate al mazzo pesante, fila indiana sui mocassini, accesero luci fioche e tirarono giù le sedie rovesciate sui tavoli, alcuni a coppie perché due ernie sempre meglio di una, brigava Osvaldo col pudore sulla fronte, allora Gustavo spezzò due grissini offerti dalla casa e il gruppo si mise a studiare un piano di battaglia attorno alle tigelle che arrivavano dalla cucina, «Ancora ancora», chiamavano i più avidi con le dita affondate nella mollica.

Due degli otto amici non avevano ancora fiatato, avvolti nelle sciarpe dietro ai baveri ritti, lo avrebbero fatto solo al commiato a notte fonda, ora muti a scolare i cicchetti di sambuca.

Negli occhi di Aldo, il più anziano dei due, il vetro rifletteva un’immagine storta. Come un ellisse. Il cerchio schiacciato di una luna di miele lattiginosa e pallida, lontanissima, caduta per sbaglio nell’Oceano Indiano. Piccole onde calme. Poche piccole onde calme sdraiate sulle spiagge di Giava. Il nostro bel viaggio di nozze. I cinque fusi conficcati nelle tempie. Ci stavamo riprendendo, tante cose da fare, finché Delia si era sentita poco bene. Forse un indigestione di frutti di mare, o magari le stava tornando il ciclo. Mi disse di andare al massaggio che aveva prenotato al check-in, che tanto era offerto dal resort e sprecarlo era un peccato, «No amore vai tu, Ma su sei sicura, Mi gira la testa, Lo posticipiamo, No poi lo perdiamo, Io in SPA mi vergogno, Non stai mica nudo, Va bene ci provo», con ciabattine bianche e accappatoio, le stelle d’oro trapuntate sul taschino vuoto, il percorso di fiaccole vive tra i gusci dei bungalow, le onde calme sulle fronde spiaggiate dalla risacca, gli inchini della receptionist al bancone, oltre il separé di bamboo, nella stanzetta impregnata di flauti e patchouli dove mi aspettava Sura, così aveva sorriso fasciata nel suo camice giallo, prima di sfilarmi l’accappatoio e invitarmi cortese sul lettino. Le sue mani erano calde e unte, lente e curiose. Al tocco rilassavano le mie spalle e indurivano l’inguine. Senza fretta. «Va bene così, Lei è bravissima», parlava quel tanto che basta col poco di italiano che sapeva, il resto lo faceva col palmo sulla schiena sui lombi sui glutei, finché mi fece voltare e le sue dita scorrevano tra le costole, sui polpacci, intorno al glande ormai gonfio da esplodere, mentre Delia era in camera, forse dormiva davanti alla pubblicità e il massaggio terminava in un fiotto caldo dentro un bicchierino trasparente, colato fino all’ultima goccia. Sura lo bevve avida, leccandone il bordo con la piccola lingua molle, «Tuo figlio delizioso», sussurrò, poi un inchino porgendo asciugamani ai piedi della doccia fredda. Fausto esplose in una risata fragorosa, seguita da pugni d’approvazione sui tavoli. Io avevo perso il filo e non seguivo, non capivo, anche se tanto era sicuro l’ultima prima di riordinare piatti, bicchieri e sedie. Ognuno prese qualcosa e la mise a posto. Quel che si poteva fare lo avevamo già fatto, o almeno se n’era parlato un po’, a spizzichi e bocconi, in fondo la stessa cosa a ragion veduta, scorrendo piano e in superficie, come tutto il resto attorno a noi inghiottito da quella notte in un bolo mansueto. 

«Comunque il film deludente», concluse Filippo calciando un sassetto dall’asfalto verso il cielo. Poi ciascuno si lasciò tornare a casa.

Immagine generata con DALL-E
“eight elderly men are sitting around a table in a closed and dark restaurant, van gogh style painting”