Tutti i colori meno uno
Quando Sergio mi lasciò mi sentii come il verde di una foglia caduta dall’albero da diversi giorni. Conservavo ancora un po’ di quella tonalità così piena di linfa e speranza ma già invasa dall’intenso arancio che ne preannuncia la secchezza. La sensazione fu veloce e repentina. Se poco prima di entrare in casa mi ero sentito addosso una gamma di nuance accese e smaglianti, m’accorsi che le variopinte sfumature mi stavano abbandonando, ed io sbiadivo proprio come una foglia trascurata sul marciapiede.
Decisi di ricorrere ai ripari, mescolando più colori possibili. Cominciai a uscire, incontrare gente, distrarmi. Come succede in casi come questi. Seguii i consigli degli amici, le loro raccomandazioni. Ciascuno aveva pronta una soluzione. Ma il piano fallì. Troppe tinte non ne sortivano uno chiara e precisa.
Sergio lo avevo conosciuto in sauna. Era una domenica di fine mese, non tanto grigia ma tendente all’argento. Rispecchiava il mio animo: luminoso, a tratti metallico.
Una luce ovattata, calda, quasi protettiva, ci aveva avvolto. Stazionava davanti all’ingresso di un camerino, come se mi aspettasse. Mi attirò il suo sguardo intenso ma distaccato. La piega del telo, che gli fasciava l’inguine era sistemata, furbescamente, un po’ più in basso dell’addome. Quel dettaglio fu un richiamo. Non ci dicemmo niente, forse un rapido sorriso. Ma non ne sono più tanto sicuro. Le sue labbra erano morbide, a differenza dei suoi fianchi, torniti. Lo associai al mogano della buccia di una castagna, genuino e accogliente, ma dalle sfumature brillanti.
Usciti dal camerino, sazi dei nostri giochi colorati d’amore, scambiammo due chiacchiere, il tempo di una sigaretta. Mi lasciò il suo numero di telefono. Un’onda blu investì i nostri slanci.
Lo chiamai due giorni dopo. La città era già invasa dalle abbaglianti e ipocrite illuminazioni del Natale. Colori fasulli deragliavano i pensieri.
Trascorremmo un giorno a letto, spiluccando pigramente grappoli d’uva gialla. Ci raccontammo tanto di noi. Ma Sergio omise una parte importante della sua vita.
Passarono i giorni. Sentivo di stare bene con lui. Mi piaceva il suo modo di ridere e come mi abbracciava prima di addormentarsi. Stargli a fianco era come inoltrarsi in una foresta marina di coralli, così morbidi e suggestivi, inerti e in movimento, anche se, fuori dall’acqua, così blu da risultare irreale, ne avvertivo la fragilità.
Mi rivelò di essere sieropositivo una mattina. Una luce diafana invadeva la stanza. Avevamo appena fatto l’amore. Rimasi in silenzio finché non si rivestì.
Uscì di casa senza salutarmi. Una strana smorfia gli sporcava il sorriso. Quel giorno non andai in ufficio. E nemmeno il giorno dopo. Rimasi tutto il tempo a letto, rileggendo i nostri messaggi, riascoltando i vocali. Cercavo una traccia, un segno, un’esitazione. Il silenzio avvolgeva il mio silenzio. Mi sentivo tradito. Poi la paura prese corpo e consistenza.
Un bianco accecante, secco, irreale, cominciò a riempirmi l’animo. Pensai che quella tonalità avrebbe rappresentato una sorta di pagina su cui scrivere la nostra storia. Ma l’inchiostro si rivelò scadente e le pagine continuarono a rimanere vuote.
Feci un test, poi un altro. Mi confidai con un amico, poi con un altro. Risultai negativo. Non feci nemmeno caso all’arcobaleno che splendeva nel cielo.
Smisi di rispondere ai suoi messaggi, alle sue chiamate. Mi chiedeva scusa, implorava il mio perdono, un chiarimento. Imperterrito, decisi di non dargli nessuna possibilità. Volevo tagliarlo fuori dalla mia vita, raschiandolo come un colore sbagliato caduto accidentalmente sulla tela.
La mia vita assunse una gradazione imprecisa. Non la distinguevo bene. Se piangevo, scrutavo un cielo turchese, quasi brillante. Se ridevo, un nero asciutto, opprimente.
Alla fine gli concessi un incontro. La panchina grigia e ramata di un parco. Ero sicuro che quelle tinte mi avrebbero incoraggiato, concedendogli un’opportunità. Invece, mi lascia confondere. Gli inveii contro. Quel giorno l’universo aveva versato litri e litri di acquaragia, cancellando ogni aspettativa. Lo accusai, definendolo un incosciente. Volevo vederlo strisciare per terra, calpestarlo come un insetto. Fui inconsapevole della portata delle mie parole. Da alcuni amici venni a sapere che aveva preso l’aspettativa dal lavoro, che aveva tentato di farla finita. Riuscirono a recuperare la lettera che aveva scritto per me un attimo prima di ingoiare due scatole di barbiturici. Meno male che rinsavì e non lo fece.
Passarono mesi. Fu in quel periodo che troppi colori si affastellavano nella mia vita. Ma non mi riusciva di afferrarne nessuno.
Meditai un piano. Fingendo di perdonarlo, lo avrei tormentato. Aveva disatteso la mia fiducia, io avrei fatto altrettanto. Tornammo insieme.
Cominciai a tradirlo. Una volta, poi una seconda, una terza. Nel giro di poche settimane avevo perso il conto. Imperterrito, lasciavo con nonchalance tracce dei miei incontri clandestini. Uno slip azzurro nel bagno, un capello biondo sul cuscino, la suoneria dei messaggi sul telefonino come i rintocchi di una bronzea campana.
Lo esasperai. Lo esasperai fino a sentirlo piangere mentre lavava i piatti. Tutto questo, poco prima di addormentarci, mi concedeva un sordo sollievo. Pensavo che lo stessi punendo, invece castigavo solo me stesso. La stupidità è incolore.
Sergio mi ha lasciato. L’appartamento rispecchia ogni suo stato d’animo, dal più lieve al più denso. La brillantezza cobalto dei suoi sorrisi mi offusca i pensieri. Certe gradazioni, così intense e sincere, mi tengono compagnia e mi tormentano. Sarà meglio seppellire il mio cuore sotto uno spesso strato di nero. Anche se la sua compattezza non lenisce il dolore.
Immagine generata con DALL-E
“a color gradient with the colors of the rainbow and some grey in the center”