Preferirei morire nella vasca

I pesci. I broccoli. Le foglie di insalata. I fagiolini, non solo quelli bio. Le mutande dei costumi in maglia ricamata. La carta da macerare. Gli spinaci surgelati. Il basilico fresco congelato e scongelato. I pomodori secchi, l’uvetta, i pinoli; il pane raffermo quando vuoi farci la pappa col pomodoro o lo vuoi buttare in bocca alle tartarughe del lago; i funghi secchi, le castagne secche, le prugne secche. Le albicocche essiccate, come quella volta al ristorante Touareg di Rue de Charenton, 75012 Paris, Francia. Fermata Daumesnil, metro 6 e 8. (Non serve la prenotazione). Tutte cose che l’acqua gonfia, gonfia, gonfia fino alla morte, per poi riportarle in vita. Si usa per questo motivo l’espressione “fare rinvenire”.

Ecco perché, se potessi scegliere, preferirei morire nella vasca.

Anche il mio corpo nell’acqua si gonfia. Le gambe lievitano, sembrano più sode: il contrasto con lo smalto (bianco) della vasca e il sapone (ancora più bianco) del bagnoschiuma le fa apparire persino abbronzate, in qualsiasi stagione. Specie se anche i miscelatori sono laccati di bianco, come nelle vecchie vasche coi piedini, ma vanno bene pure argentati (d’oro no, sono un tipo invernale). 

Nella vasca il ventre si appiattisce, il culo diventa la superficie che non ha bisogno di essere tonica: è una forma che non si vede, un’ombra su cui l’acqua, a volte, mi fa rimbalzare. Lo scivolo più naturale che un corpo possiede, un po’ per sbaglio. Tutto molto morbido, attutito. Pensateci anche voi a come sarebbe morire così, semplicemente scivolando un po’ in avanti.

Io, quando non voglio sentire niente, immagino di essere immersa con la testa dentro l’acqua insaponata, le bolle che entrano a poco a poco nel timpano dell’orecchio e sembrano arrivare fin dentro il naso. La pressione che mi spinge ad arcuare la schiena, distendere il collo, sprofondare in verticale. I capelli da sirena, le mani che si sfogliano da sole. I piedi rugosi, ma vellutati. Bisogna proprio che io muoia nell’acqua.

Se per te va bene, preferirei anzi, proprio come ultima cosa, vedere i miei capezzoli confondersi tra la schiuma vaporosa dello sgrassatore Chanteclair diluito nell’acqua, invece che del bagnoschiuma che hai comprato l’ultima volta. È vero, non prevedevi che sarei tornata a casa. Però facci caso, d’ora in poi, perché non fa abbastanza bolle e soprattutto non smacchia. (La coscienza, dici?) Non ha nemmeno un buon odore, mi lascia la pelle troppo secca e tu non vuoi che io muoia con la sensazione di sentirmi tirare la cicatrice del piede, la pelle tra le dita, le croste dei talloni; no? Nessuno dovrebbe morire così. 

Non ti chiedo granché, solo di ricordartene la prossima volta che mi minacci con il coltello Kasanova, che mi sculacci con il mestolo d’acciaio del set di lusso Ikea; che mi sbatti sulle nocche i fori del palafritto, anche se è di plastica e ormai, da quando ti ho detto che non faceva per niente male, non lo usi più.

Altro che Laura Palmer. Sarei uno spettacolo se solo ti ricordassi di farmi morire dentro la vasca piuttosto che sulle piastrelle del pavimento di cucina. Non sono sicura che poi tornerebbero pulite, bianche come prima, ed è un peccato perché, come dici sempre, le abbiamo pagate molto alla Maison du Monde. (Tutto questo è solo un po’ già visto.) Mentre la vasca, lei, sembra fatta apposta per fare scivolare via ogni cosa: un corpo, un fagiolino, il rumore, un po’ di sangue.

La prima volta che siamo andate al mare, me lo ricordo bene, hai rischiato di morire. Non ho più messo piede su una barca o tra le onde dell’acqua salata. Mi piace di più l’acqua morbida, il bordo protetto della porcellana; mi fido solo delle onde che creano le mie mani. Sarei perfetta come mollusco cotto, come sedano rapa disinfettato nell’amuchina, come patata sbucciata: se solo entrassi nell’oblò della lavatrice. “Cara mamma amore mio”, ti invocavo (ma chi aveva ucciso Laura Palmer, alla fine?). “Cara mamma amore mio”, ti supplicavo. 

«Esci» mi rispondevi a mezza voce. 

Che spreco, tutto questo amore nascosto.

 

Ti regalerò un mazzo da fiori, ti dicevo. Ti ho scritto centinaia di lettere che iniziavano tutte così.

“Ti regalerò un mazzo da fiori tutti colorati”. Mi prendevi in giro perché non capivo la grammatica. Te le lasciavo sotto il cuscino quando mi comportavo male. Te le lasciavo sotto il cuscino se non avevo il coraggio di parlarti. Ne hai conservate a centinaia, in ordine cronologico, dentro la cassettiera in camera che qualche anno fa hai ridipinto con cura. Sei partita dalle manopole allentate e le hai decorate in tenui sfumature di verde, blu, arancio. Stanno bene insieme, sei brava a scegliere i colori e gli oggetti di cui vale la pena prendersi cura. 

Quando mi hai cacciato di casa, non sapevi che sarei tornata. Non avevo certo l’aspetto di una figliola prodiga, me lo dicevi di continuo. E infatti non sapevo nemmeno io che sarei tornata.

Non si possono prevedere le scelte di merda, ci inzuppano e basta.

La prima volta, almeno, non lo sapevo. Tutte le altre, invece, era diventato semplicemente il nostro gioco, un modo diverso per stare insieme. Un po’ più movimentato. Ma guardaci, come potevo resisterti? Tu non meritavi altro che dare le botte; io non meritavo altro che riceverle. La prima volta che sono tornata, però, sono rimasta con l’odore di merda nel naso per cinque giorni, nessuna delle due sapeva bene cosa farci. Rimetti a noi i nostri debiti. Perdonarsi, ripartire? Non erano cose per noi. Ci siamo trovate, ci siamo incastrate.

“Ti regalerò un vaso da fiori tutti colorati”, e ricominciare come prima. Le mie lettere le hai conservate tutte in due archivi, nel terzo cassetto di destra e nel terzo cassetto di sinistra del settimanale ridipinto. Ci sono anche dei disegni, dei vecchi temi, qualche giocattolo abbandonato. Non so come mai ti abbia scritto così tante lettere. Nella scrittura a pennarello azzurro dei primi fogli, incerta, sbavata, mi rivedo bambina. Sento la mia mano cicciona che si muove con premura. Volevo soprattutto mostrarti quanto mi avessi bene ammaestrata, ero una scimmia onesta che riconosce i suoi sbagli e offre l’altra guancia (o il palmo delle mani, o il fianco, il culo, i piedi, la spalla, il naso, l’orecchio – il sinistro, soprattutto). 

«Via!» rispondevi.

Oppure volevo solo regalarti i colori e vederli finalmente sul tuo volto, tra una ruga e l’altra, in mezzo a quel baratro di paura che dovevi sentire dovunque sulla pelle.

«Escimi dai piedi!».

 

Come sono belli i corpi che muoiono nell’acqua. Come sarebbe stato bello anche il tuo. Ti guardavo dalla battigia e sorridevo, mentre cercavi di salire con lo smalto ai piedi sulla pedana della piccola nave. I gradini si muovevano, è vero. Aprivano e chiudevano la vista sul grande mare blu, sì, di un blu reale che era quasi nero, e con un ritmo che poteva quasi sembrare regolare ma che regolare in fin dei conti non poteva essere del tutto. La natura non ha nessun ritmo, siamo noi a voler morire. 

Oppure mi sentivo la tua ombra filiale, e ti scrivevo e ti scrivevo e ti scrivevo solo per un puntiglioso desiderio di tormentarti a lungo con quel pezzo di carta eterno e dirti e ricordarti e minacciarti che in ogni momento delle nostre vite ti avrei preso terribilmente sul serio. Non è possibile che una madre e una figlia non si vogliano bene; non è possibile, vero?

 

«Mamma, mammina, ti sei fatta male?»

«Mamma, mammina, scusa.»

Le mie lettere pensi di averle nascoste tra le bollette pagate, le dichiarazioni dei redditi, le risonanze magnetiche: quelle mie e quelle tue. I nostri corpi fusi insieme tra le lastre di plastica e nitrato d'argento; i nostri corpi donati alla scienza, e ai lividi di cui mi riempivi.

Ho capito subito perché ci tenevi così tanto, a quel vecchio mobile sciupato, e perché avessi speso così tanto tempo a ridipingerlo. Conservavano il tuo odio per me, il mio odio per te; il nostro peccato.

Come sono belli i corpi che muoiono nell’acqua. Come sarebbe stato bello anche il tuo. Invece tu sei solo rimasta appesa per un po’. Coi tuoi piedi giganti ma smaltati, incerti sulle ciabattine di gomma con zeppa bucherellata e un bouquet di palline brillanti sulle dita (5 euro dai cinesi). Blu finto. Era inevitabile che finissi in quel blu vero, così cangiante, che ti mordeva le caviglie da sotto. Se non ti avessi spinta non sarebbe successo, forse; o forse sì. I tuoi piedi tremavano già, anche senza il mio aiuto. Laura Palmer non era mai morta, Laura Palmer si era gettata tra le braccia del suo assassino. O forse no.

Che spreco, tutto questo odio nascosto.

Come sono belli i corpi che muoiono nella vasca.

La vasca è la misura del tutto, il contenuto del niente.

Ho sempre pensato di essere sterile. Oggi, però, ho visto il mio corpo nella vasca e ho capito che non era vero. Era bello, potevo essere amata: quindi potevo amare, avrei amato. In effetti, amo la mia vasca. Se riuscirò a sopravviverti, in qualche modo, in qualsiasi modo, cercherò solo case con la vasca da bagno. Ti aspetto, anche stavolta sono tornata, sto lavando via tutti i peccati, riempimi di botte nell’acqua che odora di Chanteclair.

Immagine generata con DALL-E
“Botero style painting depicting two woman’s legs in a bathtub surrounded by white foam”