Parcopinocchio

C’era una volta…

Un pezzo di legno, supporrà qualcuno. 

E invece no. C’era una volta un Pinocchio sciamannato con la maschera canappiuta riversa sulla nuca, agghindato in un tight grigio antracite, che in un caldo mezzogiorno estivo, riemerso da abissali inquietudini, si sbarazzò di un Omino di burro corpacciuto, più largo che lungo, molle e untuoso con un visino di melarosa, una tonsura tonda sul cocuzzolo del capo e i baffi cespugliosi tipici di certi goffi mugici russi alle prese con una gara canora all’osteria nel tardo diciannovesimo secolo; quando lo vide, sotto il bersò del postoristoro Tutti contenti e io pure, quello imboscato tra i ruschi della selva più aggrovigliata e gnommerosa del Parcopinocchio – dove entrambi lavoravano come figuranti –  l’Omino di burro teneva una zaga accesa tra le labbra, e un bruscolo di cenere era appena caduto sulla sua buffonesca mise: un giustacuore verde smeraldo dal quale esorbitava un mefistofelico buzzo da incallito cioncatore di benzina agricola. Sbiluciando qua e là, camminando a sghimbescio con un borsone da palestra a tracolla (dove teneva il tradizionale vestituccio di carta fiorita e le scarpe di scorza d’albero, che solitamente erano la sua uniforme – ma non quel giorno, giacché quel giorno era un giorno di festa) e incespicando tra le radici di lecci che avevano squarciato il prato attorno al chiosco, Pinocchio sedette allo sgabello del bancone accanto all’Omino di burro, il quale digerì rumorosamente, e scusandosi con un cenno della mano si passò le dita a mo’ di rastrello tra i capelli per ravviarli; erano neri come malacche e unti come anguille. 

 

Insieme a un pesante sbuffo, dalle labbra impastate gli uscì una pernacchietta turgida di saliva, tossicchiò il fumo e spense la sigaretta in un portacenere di plastica blu col logo Martini; poi in uno slancio di decoro, ordine e chiarezza, passò un dito tra collo e goletta, cavò fuori dalla tasca del panciotto un collarino di plastica bianca da prete, lo indossò con boria ubriaca e iniziò a tracciare dei numeri nell’aria, si fermò a fissare un punto nel vuoto in direzione dello specchio posto sopra la mensola dei liquori, poi prese ad acchiappare mosche immaginarie per ali immaginarie utilizzando il pollice e l’indice; digerì ancora. Rumorosamente. Si sforzò di ricacciare la piomba in fondo alla gola deglutendo un grumo di saliva pelosa e infine, asciugatosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto starlancato, domandò a Pinocchio che prendeva da bere. 

Pinocchio non parve sorpreso dalla domanda e rispose subito, senza neppure guardarlo, con gli occhi piantati sul ripiano lucido del bancone, arrotolando e srotolando il plastron grigio perla che indossava con indolenza. «Negroni» disse. Poi si levò il cappellino a punta di midolla di pane – in realtà un dozzinale cartone bianco – e lo posò sullo sgabello vuoto alla sua sinistra. L’Omino di burro allora tremolò le labbra, poi battè col palmo della mano sul bancone un paio di volte e emise un breve fischio per richiamare l’attenzione del barista. «Negroni», ciancischiò. Mentre il barista rintugliava il gin col Campari e col vermut rosso, un battaglio picchiava la tempia destra di Pinocchio con la frequenza dei martelletti delle campane elettriche industriali. Il barista terminò di versare il vermut rosso su tre cubetti di ghiaccio che stavano sul fondo di un old fashioned rovinato da decine di lavaggi, decorò il bordo del bicchiere con una mezza fetta d’arancia, poi scribacchiò qualcosa sulla pagina di un blocconote a quadretti. 

«Che scrivi» domandò Pinocchio. Lo fece senza curarsi di esibire un tono interrogativo. 

«Scrivo che devi pagare un Negroni», disse il barista sistemando la giacca di alpaca che indossava, buona per un modello negro (e pelato) in sfilata sulle passerelle milanesi, non certo per un nerboruto barista del Parcopinocchio. Pinocchio alzò il mento dal bancone e scrutò per la prima volta gli occhi del barista con la giacca di alpaca; lo aveva stuzzicato la sua risposta, che aveva ritenuto non maleducata ma di certo altezzosa (per Dio, era pur sempre il protagonista, il figurante che interpretava Pinocchio in un maledetto e sconfinato parco tematico sull’universo di Pinocchio – e lo era ormai da sette merdosi anni, sette merdosi anni trascorsi a impersonare undici ore al giorno un burattino che aveva sempre detestato). Il barista stava preparando un altro cocktail, forse uno spritz, e non si curava di lui. 

 

Mentre Pinocchio rifletteva sul modo migliore per replicare al barista, l’Omino di burro si alzò in piedi uzzato come una botte, si sgranchì la schiena, arraffò dal bicchiere di Pinocchio la mezza fetta d’arancia e la succhiò avidamente prima di sputarla sull’erba; poi indossò una parrucca tribunalesca inglese pescata da un borsone da palestra piazzato ai suoi piedi e così conciato, dall’alto della sua ridicolezza, crocidò qualcosa a due sconosciuti seduti al tavolo che stava nel centro del praticello, accanto a un pozzo di tufo ottagonale e a poca distanza dalla riproduzione della Quercia delle Streghe, la location dove almeno una volta al giorno (talvolta due, nei giorni di grande affluenza anche tre) Pinocchio veniva impiccato, con tutto il carico simbolico e allegorico, esoterico e orfico che quel rito implicava – quel giorno era già stato impiccato a metà mattina, e non era prevista un’altra impiccagione fino al giorno dopo. 

Uno dei due sconosciuti, il più alto e ben piantato, sui trentatré anni, coi capelli corti e il viso bronzeo, smise di fare quel che stava facendo (beveva una birra chiacchierando con l’altro sconosciuto, un ragazzo sui venticinque anni, coi capelli setolosi che parevano l’esplosione congelata di una mina antiuomo), alzò lo sguardo e domandò all’Omino di burro se poteva ripetere. Può ripetere per favore. Lo disse con un sorriso. «Cos’è, sei sordo?» domandò l’Omino di burro. «No, per niente» disse lo Sconosciuto, sempre sorridendo. «Hai capito benissimo» disse l’Omino di burro (con tono da Omino di burro). «Le dico di no», disse lo Sconosciuto (con tono da sconosciuto). «Togliti quel sorrisetto stronzo dalla faccia» disse l’Omino di burro alzando la voce, e mentre parlava sputacchiò della polpa d’arancia insieme a un umido colpo di singhiozzo. L’altro sconosciuto fece per rizzarsi in piedi, ma lo Sconosciuto lo bloccò. «Senta, signore, vogliamo soltanto bere in pace» disse. 

 

L’Omino di burro ripeté la frase appena pronunciata dallo Sconosciuto con vocina schernevole, mimando qualcosa di incomprensibile con le mani. «Che ti credi pezzo di merda» disse poi «ti ho riconosciuto, ti ho riconosciuto eccome». Lo Sconosciuto, presagendo dove l’Omino di burro volesse andare a parare (tra l’altro sentendosi riconosciuto, identificato, cosa quantomeno seccante per uno sconosciuto), provò a fingere indifferenza. Bevve un sorso di birra e disse qualcosa all’altro sconosciuto, il quale annuì. Pinocchio, che fino a quel momento era rimasto immobile a rimuginare sulla rispostaccia incassata dal barista fissando lo specchio dietro le bottiglie di liquori e amari (specchio nel quale riusciva a intravedere a malapena i suoi capelli e un pezzo del suo occhio destro tra la bottiglia della Sambuca Molinari e quella del Bacardi Carta Blanca), con una innaturale torsione del collo si voltò verso il tavolo degli sconosciuti. Poi, ripresa una postura consona, senza guardarlo si rivolse all’Omino di burro.  

«Chi è quel tizio?» 

«È un pezzo di stronzo non lo vedi», rispose l’Omino di burro sputacchiando saliva mista a filamenti di arancia. 

«L’ho visto, sì, ma perché è un pezzo di stronzo?»  

«Perché è un collo di bue, un minorato. Guardalo bene, ha il sorrisetto da minorato, lo sguardo da minorato, è un minorato dalla punta dei piedi alla punta dei capelli.»   

«Sì, ma che ti ha fatto?» 

«Oltre a essere un intollerabile pezzo di stronzo?»

«Oltre a quello.»

«Mi pare più che sufficiente. E poi avevo voglia di attaccare briga con uno sconosciuto e sfogare tutta la frustrazione per la mia vita di merda. Ti va bene così?»

 

Pinocchio non disse niente. Prese a sorseggiare il suo Negroni immaginando il gelido sogno della propria distruzione. Soprattutto rimuginava sul fatto che un’ora prima Anna, la sua compagna, nel bel mezzo di una fotoricordo nella bocca del Pesce-cane con una insopportabile ragazzaglia, gli aveva confessato di essere incinta, e lui, dopo anni di ignobili e infruttuose cure, si era ormai arreso alla diagnosi di infertilità alla quale la natura, o le scie chimiche, o qualche virus creato ad hoc in un laboratorio cinese da quei ripugnanti tizi che propugnano l’estinzione volontaria del genere umano (si chiamano VEHMT), lo avevano condannato; stecchito, frastornato, sentitosi perduto e tradito, non era neppure riuscito a chiedere delucidazioni, giacché uno di quei demoniaci adolescenti bizzosi, devastati da feromoni sessuali e dermatiti sebacee, lo aveva trascinato nel ventre del Pesce-cane, dove avrebbe dovuto narrare un’ittica storiaccia dell’orrore a quella ghenga di studenti depravati.

Quando era riemerso dal ventre del Pesce-cane, turbato e disperato, Anna non c’era più. Pinocchio si era attaccato al suo iPhone, ma Anna da ormai due ore non rispondeva ai uozzàp, né alle telefonate.

L’Omino di burro smise di guardare in cagnesco lo Sconosciuto, si voltò e ordinò da bere. Un Negroni, disse. Alla radio la notizia della secca del Po veniva data con tale foga da lasciare l’impressione che il sole, avendo improvvisamente amplificato il suo calore, stesse prosciugando tutta l’acqua della Terra, e che il commentatore della notizia in persona fosse lì lì per liquefarsi, o per essere arso vivo. Ma non era così, pensava Pinocchio guardando in tralice l’Omino di burro mentre succhiava la sua mezza fetta ornamentale di arancia grufolando nel Negroni con le labbra grasse. Non era così. Quante siccità si erano succedute nella storia del mondo? Quante volte l’essere umano aveva rischiato di estinguersi? Ogni volta pareva la volta buona, invece l’essere umano era sempre qui, più molesto che mai, a dare il tormento a lui che era Pinocchio e doveva fare cose da Pinocchio, e pensare da Pinocchio, ma gli venivano in mente soltanto cose adatte a un quarantasettenne che non era stato in grado di trovare un lavoro decente in tutta la sua vita, un quarantasettenne con una laurea in filosofia teoretica e ambizioni da poeta che era finito a fare lo scopamestieri, prima il muratore, poi il lavapiatti, e il soldato, e il becchino, e il videomaker, e il commesso, e il ciclofattorino, e il Pinocchio.

E poi, stava ponzando Pinocchio, un giorno il Sole risolverà tutti i nostri problemi, da Platone a Omero, da Dante a Shakespeare, da Emilio Praga a Gian Marco Griffi: si gonfierà come un pallone a elio, si gonfierà come un tacchino, come un’oca, si gonfierà sempre di più fino a inghiottire tutto il nostro sistema planetario, e chi s’è visto s’è visto.

In quell’osceno, immorale e glorioso giorno, saremo tutti cotti come pere. Mentre si arrovellava spremendo le meningi come un portogallo, fu colto da un’illuminazione: il parto verginale. 

Pensò alla possibilità stessa del parto verginale, e mentre lo faceva, mentre ragionava sul fatto che forse, dopo anni di vani tentativi, Anna aveva sviluppato una forma di partenogenesi, come capitava a talune infime forme di vita – tipo i fasmidi, l’insetto stecco, il drago di Komodo –, lo sgabello accanto al suo fu occupato da Maurizio Cucciari, nano romano trentanovenne che al Parcopinocchio impersonava il Grillo parlante da tempo immemore (e infatti si presentò con l’uniforme da lavoro, costretto in un costume verde brillante, azotato, in testa un cerchietto con le antenne). Quello, una volta sedutosi, senza salutare nessuno, ordinò un margarita, premurandosi di specificare che lo gradiva senza il sale sul bordo del bicchiere. 

Pinocchio lo osservò, anch’egli in silenzio.

«Che ne pensi del parto verginale» gli domandò poi. Così, a bruciapelo. 

Il Grillo parlante si soffiò il naso con un disgustoso moccichino verdognolo. Chiese scusa. Intascò il moccichino. «In pratica il parto verginale è quando avviene un concepimento in assenza di rapporto sessuale»? domandò. «Esatto» disse Pinocchio. «Lo ritieni possibile?»

Il Grillo parlante, cui nel frattempo il barista negro con la giacca di alpaca aveva servito un margarita senza il sale sul bordo del bicchiere, bevve un sorso. Starnutì, rumorosamente, e subito dopo si soffiò ancora il naso. «Chiedo scusa» disse, «è quella cazzo di aria condizionata a Casa Geppetto. «Dunque» riprese, «dicevamo del parto verginale. In pratica avviene quando una divinità feconda una donna mortale. O è tipo l’incarnazione di una divinità o di uno spirito preesistente nel grembo di una donna mortale» continuò. 

«Tipo la fecondazione artificiale?» intervenne l’Omino di burro. 

«Ecco» disse il Grillo parlante, «più o meno tipo come la fecondazione artificiale, ma è una cosa un po’ più stregonesca, più romanzesca, più spaventevole, in modo che un numero più alto possibile di grulli se la beva.» 

«Cosa vuoi dire», domandò Pinocchio. 

«A Pinò» disse il Grillo parlante, te pare possibile che una divinità fecondi una donna mortale? Siamo nel duemilaventiquattro. Ma ’ndo la trovi ‘na divinità che s’accoppia con ‘na donna mortale. Rasoio di Occam», disse il Grillo parlante: «è più semplice che una donna sia stata fecondata da una divinità o che abbia conosciuto biblicamente un altro partner?»

«Stai insinuando che Anna è andata a letto con un altro uomo?», si adombrò Pinocchio. 

«Io non sto insinuando un bel niente», disse il Grillo parlante. «E chi è questa Anna?»

«La sua fidanzata», intervenne l’Omino di burro. «Incinta. E lui è sterile come il deserto dell’Atacama.»

Il Grillo parlante zufolò.

«Dimmi chi è lo sfasciafamiglie che ha concepito un figlio con la mia Anna», disse Pinocchio ciondolando la testa, pesantissima e vuota allo stesso tempo, avanti e indietro. 

«Ma che ne so», rispose il Grillo parlante, «magari è un avvocato di Milano»

«Perché mai Anna avrebbe dovuto accoppiarsi con un maledetto avvocato di Milano», domandò Pinocchio. 

«Ma non lo so, non lo so», rispose il Grillo parlante, «era un esempio, il fatto è che a Milano ci sono solo più degli avvocati (Dio ci scampi e ci protegga dagli avvocati milanesi, e anche da quelli non milanesi), ci sono avvocati buoni per qualunque cosa, divorzisti penalisti civilisti giuslavoristi matrimonialisti fiscalisti internazionalisti regionalisti avvocatisti psicologisti europeisti lombardisti ciclisti urbanisti naviglisti podisti ambientalisti misticisti automobilisti, insomma ci sono più avvocati che corrieri di Amazon. E adesso lasciami bere», concluse.

Alzò il bicchiere in direzione di Pinocchio, che nel frattempo aveva ordinato un Negroni e una fetta d’anguria, e avrebbe voluto piangere, se solo fosse stato capace di farlo.

 

Un aereo da guerra, forse un bombardiere, sfrecciò nella porzione di cielo mediterranea sopra l’isola di Cossyra; nello stesso momento un tacchino con il collo e le caruncole blu, brutto e spennacchiato (l’unico tacchino spennacchiato che avesse mai visto in vita sua, pensò Pinocchio), si avvicinò al bancone con dolci strepiti rochi. Gloglottando cacciò il becco bitorzoluto nel borsone da ginnastica dell’Omino di burro.  

Il panorama che i clienti del Parcopinocchio potevano ammirare guardando in direzione del postoristoro Tutti contenti e io pure (Pinocchio avrebbe voluto prendere un cacciavite e avvicinarsi all’insegna di legno sulla quale era scolpito il nome del locale, cancellare la parola “pure” e aggiungere la parola “no”: ecco, pensava, Tutti contenti e io no, questo sì che è un cazzo di nome giusto) sembrava concepito da una divinità burlona che aveva amalgamato dettagli caotici per ottenere un indubbio scempio: un chiringuito circolare con svariati sgabelli vuoti, un bancone di legno dietro al quale si agitava un barista vestito con una giacca di alpaca, tre sgabelli sui quali stavano seduti un Pinocchio vestito da dandy con la maschera sulla nuca, un Grillo parlante nano, un Omino di burro con un giustacuore e una parrucca tribunalesca inglese a boccoli argentati in testa e un tacchino spennacchiato che infilava il becco nei boxer e nei calzini fetidi dell’Omino di burro. Sembravano quasi felici, ignari di tutto, a trincare i loro cocktail mentre sopra le loro teste si tessevano gli imbrogli mostruosi di orrende divinità. L’Omino di burro aveva giusto cominciato ad angariare una formica con una cannuccia nera, e si divertiva a tormentarla, a osservarla mentre si affannava per sfuggirgli col suo bravo micolino sulla schiena. 

Pinocchio, che aveva preso a giochicchiare col con il congegno per allungare e accorciare il naso della maschera, sputò un paio di semi d’anguria sul bancone. «Dovevo continuare a fare il ciclofattorino», disse.

L’Omino di burro smise di perseguitare la povera formica. «Il ciclofattorino?», disse.  «Ma come cazzo parli?» 

Anche il Grillo parlante, che stava trafficando con l’iPhone su internet – dove era solito trollare utenti a caso su Twitter – interruppe il tweet che stava scrivendo e posò lo sguardo su Pinocchio. 

 «Hai davvero usato la parola ciclofattorino?», domandò. 

«», rispose Pinocchio, «ho davvero usato la parola ciclofattorino. Che problemi avete. Mi sono rotto i coglioni dell’inglese. L’ho bandito dalla mia sfera ambientale. Io odio la lingua inglese, va bene? Gli inglesi mi stanno sull’anima, mi danno i nervi, soprattutto per la loro spocchia, e anche per la loro caratteristica ostentazione di plutocratica sicumera. E quindi non dico “meeting” ma dico “incontro”, oppure “riunione”, oppure “raduno”; non dico “location” ma dico “posto”; non dico “trend” ma dico “tendenza”; non dico “call” ma dico “chiamata”; e non dico “rider” ma dico “ciclofattorino”».

«Una cosa vagamente autarchica», bofonchiò il Grillo parlante. 

«Che vuoi dire», intervenne l’Omino di burro. 

«Ti ricordi i fascisti», chiosò il Grillo parlante, «quelli che chiamavano il cocktail “arlecchino”, il dribbling “scavalco”, i playboy “vitaioli” e i night “puttanamboli”». Si rivolse a Pinocchio. «Tu vuoi davvero chiamare i playboy “vitaioli” (a parte che oggigiorno sarebbe più consono chiamarli segaioli)?» 

«E perché no», disse Pinocchio gravemente, «se i francesi chiamano il tie break “jeu décisif”, mortacci loro, perché noi non possiamo chiamare i playboy “vitaioli” e i night “puttanamboli”? È una parola magnifica. Onomatopeica.» 

«Ciclofattorino non si può sentire», disse l’Omino di burro. Poi arraffò le spoglie della fetta d’anguria di Pinocchio, ne addentò un pezzo enorme con la sua bocca enorme, lo msticò brevemente e lo inghiottì con tutti i semi. Digerì rumorosamente.  

«Macché», disse Pinocchio, mi pare che suoni benissimo. Sentite come suona bene la frase: “al raduno dei ciclofattorini di Milano, tenutosi in un bellissimo posto (un puttanambolo di corso Buenos Aires frequentato da brocchiere e vitaioli), tra un arlecchino e l’altro, è emersa la chiara tendenza che i ciclofattorini, oltre a rischiare di ammazzarsi sotto un tram (o sotto un autobus) ogni trenta secondi, e oltre a rischiare di ammazzare pedoni ogni cinque secondi, consegnano soprattutto hamburger, pizza e poke”». 

«Poke?» , domandò il Grillo parlante. 

«», disse Pinocchio, i poke. «Hai presente quelle ciotole col riso, l’avocado, il mango, i ravanelli e quel ripugnante pesce crudo? Oggigiorno va di moda, un po’ come le penne con salmone e vodka negli anni ’80.»

«Ho sempre odiato le penne col salmone», disse lapidario il Grillo parlante.

«Basta stronzate», disse l’Omino di burro. Poi abbassò lo sguardo, prese a calci il tacchino (il quale affannandosi e aprendo le ali zompò a distanza di sicurezza dalle scarpacce del ciccione), e cercando di trattenersi dal vomitare disse: «sono stanco di questo lavoro di merda»

Il Grillo parlante scosse il suo testone disarmonico. «È l’unico che abbiamo», disse. 

«È umiliante», si lagnò l’Omino di burro. «Passo le giornate con quei muli bastardi, odore di stallatico e bambini, non so quale dei due sia peggio. Avrei bisogno di una vacanza», disse. 

Pinocchio bofonchiò qualcosa (probabilmente un vaffanculo) e si alzò. Con fatica e zoppicando a causa di un menisco mezzo rotto che non si decideva a operare – e che gli faceva vedere le stelle ogni volta che distendeva la gamba dopo averla tenuta piegata per un po’ –, raggiunse il praticello ingiallito dove stavano decine di tavoli, metà dei quali occupati.

Zoppicò oltre i clienti, per la maggioranza composti da famiglie con bambini che finsero di non accorgersi di lui; zoppicò oltre il pozzo; zoppicò oltre un corbezzolo, oltre un alloro, oltre un leccio. Finalmente trovò un pezzo di prato che lo soddisfaceva. Era il suo modo di sbarazzarsi dell’Omino di burro e di tutto quel che rappresentava alla sua vista, e alla sua vista raffigurava il simbolo della sconfitta, il male assoluto, l’oblomovismo che lo stazzonava e gli procurava piaghe da decubito al cervello, lo mandava kappaò come il gancio al mento di un pugile-Polifemo.

Tolse le scarpe e si distese sull’erba a osservare le nuvole sopra il Parcopinocchio rincorrersi nel cosco di sant’Alto (così chiamavano il cielo i metechi di Cossyra da quando non si chiamava più Cossyra), blu come il vestito della Fata turchina steso al sole prima di asciugare, se il turchino della Fata turchina fosse stato turchese anziché essere turchino, giacché il cielo, quel giorno e a quell’ora, era più propriamente turchese, ovvero ciano leggermente tendente al verde, e per niente turchino, ovvero blu di Prussia, come il cielo poco prima che cali la notte. Rischiando di bruciarsi la punta del naso accese una sigaretta, poi pensò all’epilogo di quel meraviglioso mondo: prima immaginò una tremebonda esplosione, un grappolo di bombatomiche fatte esplodere simultaneamente, un inverno nucleare definitivo, immaginò un’accozzaglia di esseri umani fatalmente aggrovigliati, intenti a produrre retoricume, inchinati a qualche genere di divinità, immaginò un lento spegnimento, come un lucore all’orizzonte sempre più debole, un peschereccio lontano travolto dalle onde. Immaginò vulcanismo esasperato, eruzioni, colate laviche, scosse telluriche. Immaginò una notte definitiva, il giorno recitato da sarcastici lampi temporaleschi. Poi immaginò quel giorno nella sua vita, e quel giorno nella sua vita, nella vita di tutti, gli parve la migliore sembianza della fine del mondo.     

Una campana batté le ore, da qualche parte. Da qualche altra parte passava un treno. Un pensiero lo rapì ferocemente: «Io non ho responsabilità», si disse. «Non c’entro niente con questo mondo, e tutto ciò che mi costringe a immischiarmi delle sue vicende è una semplice curiosità, il desiderio di far pettegolezzi sugli altri, tutto ciò che mi costringe a restarci è un miserevole istinto di conservazione». Poi pensò al manicheismo, all’eterna lotta tra bene e male, e in quel momento gli parve chiaro, nella sua cucurbita ciucca, che cosa fosse il bene e che cosa fosse il male. Lui era inequivocabilmente il bene. Mentre il tizio con la chierica che stava barcollando verso di lui (l’Omino di burro si era disfatto della parrucca tribunalesca inglese seminandola da qualche parte nel prato), insalsicciato in un ridicolo abito seicentesco, atticciato e sudaticcio tanto da produrre a ogni passo un rumorìo determinato dallo sfregamento dell’interno coscia destro con l’interno coscia sinistro, quello era indubbiamente il male. D’altra parte era uno che trasformava i bambini in asini. Eppure, antipatia a parte per la sua bruttura, l’Omino di burro non aveva fatto niente di male. O forse lo aveva fatto, e lui non ne sapeva (ancora) niente.   

 

Giunto in prossimità del pozzo, l’Omino di burro inciampò in una lastra di pietra e cadde col naso nell’erba. Gemendo gli uscì una faccia comica, e produsse un urlettino donnesco. Un ragazzotto scarnito negli omeri fece per aiutarlo, ma anche impegnandosi con tutto sé stesso, anche sforzandosi a più non posso, non sarebbe mai riuscito a sollevare quel mastodonte. Non ce ne fu bisogno, giacché l’Omino di burro lo scacciò con un manrovescio, e quando fu solo alzò il culo con irragionevole sforzo solo per prorompere in un formidabile peto che brulicò fino alle nuvole.

Una vocina interruppe quel tragicomico momento di relax.

«Mario», disse la vocina, «che cazzo fai, ci sono tre scolaresche che ti stanno aspettando. Ti cercano dappertutto. Il direttore è incazzato nero. Con te e con Sandro». Si trattava di Annalisa Loi, la nuova Fata turchina (la vecchia Fata turchina, Mara Broggi, si era ricoverata in una R.A.P.A., una Residenza Assistenziale per Paure Anonime, per provare a curare la paura anonima che la attanagliava, quella terribile sensazione di terrore per qualcosa che sta là fuori, nel mondo, senza sapere di cosa si tratta), bella e copiosa come una cariatide dell’Eretteo, punk e tenebrosa come Joan Jett, che richiamava all’ordine l’Omino di burro: al Porticato di campagna c’era una scolaresca da accompagnare al Paese dei balocchi sul suo carro trainato da dodici pariglie di ciuchi recalcitranti e pestilenziali, e gli altri figuranti non sapevano più come intrattenerli, e il porticato era tutto un pandemonio, tutto un passeraio. Mario disse: «aiutami». La Fata turchina dovette chiamare quattro uomini per sollevare quella specie di balenottera cicciona, e quando alla fine riuscì nell’impresa, la prese sottobraccio e la accompagnò sul posto di lavoro. 

Non trovò Pinocchio, che sarebbe già dovuto essere al Paese dei balocchi per inscenare la metamorfosi da umano a asino, e invece, liberatosi della maschera e del costume carnevalesco (cacciò tutto nel suo borsone, dal quale estrasse i vestiti borghesi: infradito, un paio di bermuda arancioni e una t-shirt bianca col volto di Frida Khalo stampato su tutto il davanti), svicolando viottoli e labirinti, tra statue in ferro battuto e varie mostruosità, tornato a vestire i panni di Sandro Sanzone detto Drino (non sapeva davvero dire in quali panni fosse più a disagio, se in questi o in quelli di Pinocchio), era finito a Villa Garzoni, in uno stanzone decorato con stucchi e affreschi dove stavano premiando un concorso per cani.

Nascondersi, ecco quel che voleva fare. Nascondersi e rimediare un pasto. Non mangiava dal pranzo del giorno prima, e dopo tre Negroni, un paio di Sambuche e diversi bicchieri di vino, lo stomaco brontolava, la fame chimica lo stava asserragliando.

Crollò su una sediaccia di plastica dura che gli causava dolori al coccige, e subito prese a sbiluciare a destra e sinistra allungando il collo come un’oca per trovare un vassoio con delle tartine, dei cornetti ripieni, del prosciutto. Si sarebbe accontentato perfino di qualche grissino, anche se sognava quei piccoli panini semidolci imbottiti col salame e il burro che mangiava ai compleanni dei compagni di classe delle medie. Macché. Non c’era niente di commestibile. Tutt’intorno a lui, come avvolto in una nebbia stregata, un pinocchiume da vomito. 

Pensò di alzarsi e spulezzare via bestemmiando, ma non appena fece per alzarsi lo pigliò un crampo da piegarlo in due: fuggire era fuori discussione, bisognava tenere duro e attendere almeno il rinfresco. Solo che prima c’era da proclamare un chihuahua vincitore. Nel frattempo immaginò di scolpire una lapide con su la scritta “qui giace Sandro Sanzone, figurante al Parcopinocchio per nove anni, cornuto, morto di dolore – e di fame – reo della colpa più atroce imputabile a un essere umano: non essere stato capace di vivere una vita dignitosa”.

 

Finalmente partì un timido applauso, i sette membri della giuria si accomodarono dietro al tavolone e il presidente Mangiafoco batté con un dito sul microfono, la prima volta senza conseguenze, allora fece un cenno al tecnico del suono che stava in fondo allo stanzone, batté ancora e questa volta il microfono rimbombò e fischiò. Buongiorno a tutte e a tutti e a tuttә (lo pronunciò più o meno così: tuttu) e benvenute a tutte e a tutti e a tuttә, e come da copione presentò l’assessore alla cultura (un marcantonio barbuto mascherato da gatto che fingeva pure di essere cieco – a meno che non lo fosse davvero, e non lo era – e portava in scena un gatto ippopotamesco che ricordava Behemoth de Il Maestro e Margherita), l’assessora al commercio (una virago con il mento da valchiria e una treccia di capelli biondi lunga fino al culo, apprezzabile solo per il fatto di non essersi prestata alla mascherata), e finalmente la sindaca (una donnetta magrolina vestita da maschio, cioè da Maestro Ciliegia, con tanto di naso paonazzo e fascia tricolore), per concludere col padrino del premio, un attore coi capelli radi che attaccò un pippone sulla pinocchitudine con una vociaccia da trombone infreddato. La premiazione partì dal cenozoico: premiarono il miglior cane di taglia piccola, il miglior cane di taglia media, il cane più peloso, quello più simpatico, il miglior cane per ciechi, e finalmente il vincitore assoluto, una specie di schnauzer gigante pepe e sale col culo pelato come quello dei babbuini. 

Drino Sanzone desiderò morire subito. Un infarto. Un colpo apoplettico. La rottura di un aneurisma. Invece pensò che lo avrebbero licenziato dal Parcopinocchio e sarebbe morto di stenti entro pochi giorni, tra agonie e strazi. Allungò ancora il collo sbirciando di sottecchi per capire se stavano preparando il rinfresco. Nessun movimento. Attaccò la colonna sonora del Pinocchio di Comencini, Mangiafoco e la Fata Turchina stavano scattando fotografie con lo schnauzer gigante e la sua padrona, una vecchia agghindata come una mignotta.

Una ragazza si avvicinò a Sanzone e gli domandò se si sentisse bene, e lui, Drino Sanzone da Pantelleria, sentiva di avere occhi da maiale sperso e avrebbe voluto rispondere che no, non si sentiva bene per niente, avrebbe voluto implorarla affinché lo portasse via da lì, in qualunque altra parte; là le avrebbe chiesto di abbracciarlo anche solo per un momento, di raccontargli una storia a lieto fine, una qualunque purché sembrasse reale, o quantomeno verosimile, una storia che gli consentisse di recuperare un minuzzolo di stima per sé stesso e per il genere umano; invece barbugliò che si sentiva bene, certo che si sentiva bene, andava tutto bene, va sempre tutto bene quando ti chiedono se va tutto bene. 

 

Si rizzò in piedi come meglio poteva, fu colto da un capogiro, la pressione bassa, udì Mangiafoco che batteva contro il microfono col dito atticciato, attenzione signore e signori (faceva la vociona cavernosa per calarsi nel personaggio) vi comunichiamo che tra poco sarà servito il rinfresco, vi preghiamo di dirigervi al salone degli specchi, seguite le frecce rosse e cristo che liberazione, Sanzone sentì ogni fibra del corpo che si intiepidiva e poi si riscaldava, trovò il buffet dove gli astanti si erano avventati come formiche, avevano formato un glomere, una calca come la liberazione dopo un digiuno forzato di cinque giorni, come l’acqua al tramonto in tempo di Ramadan, come se fosse ʿīd al-fiṭr; perfino la sindaca e un tizio di mezza età che aveva dormito per tutta la cerimonia (mica scemo, il panzone: con la mano destra reggeva un piatto dal quale stracollavano cibarie assortite e con la sinistra stringeva la chiappa muffita della sindaca); una cameriera bruna, solenne e abbondante come una statua romana, serviva prosecco e punch al mandarino, un cameriere avvenente come Apollo serviva tartine imburrate col salmone e triangoli di pancarré col prosciutto e mezza oliva piantata su con uno stuzzicadenti e torte salate ai formaggi agli spinaci alle erbette, e grissini con lo speck arrotolato e tartine alle cipolle e salatini farciti e vol-au-vent e pizzette che a Sanzone gli veniva da piangere dalla disperazione di essere appagato soltanto per la misera gioia di poter mangiare a sbafo le ghiottonerie di un rinfresco al Parcopinocchio, e infatti si intristì subito, ancor prima che il cibo scendesse per l’esofago, ficcava in bocca una tartina imburrata e si sentiva triste, c’erano perfino i panini soffici col salame e Sanzone era disperato, di solito non amava i salatini farciti ma quel giorno ne mangiò a strippapelle, la sua weltanschauung era disperazione, angoscia pura e nient’altro, angoscia della povertà e angoscia dell’ignavia, angoscia per la sua svogliatezza e per la sua depravata ambizione di non avere un ruolo tra gli uomini della sua razza, e l’angoscia si tramutava a ogni respiro in brama di spritz, prosecco e punch al mandarino, tanto che in quaranta minuti si trovò bresco sfatto, ciucco perso, cotto fino agli occhi.   

Sette bicchieri di punch al mandarino dopo Sanzone si aggirava tra le sculture del Parcopinocchio come una vacca in preda al locoismo, come sua zia Carla quando beveva il Cointreau e barcollava per casa spenzolando la testa e sbatacchiando contro le pareti, se ti avvicinavi ti teneva a distanza col braccio e faceva la matta, berciava di levarti di torno e saltellava, ballava sovrapponendo le gambe e prillava su un piede fino a cadere, cadeva rovinosamente dappertutto, e quando le domandavi perché zia, perché continui a bere quel cazzo di Cointreau se sai come va a finire, lei ti prendeva la testa tra le mani, ti stringeva le orecchie e rispondeva che quelli erano gli unici momenti sereni della sua disgraziata vita con quel capro nefasto di suo marito, lo zio Luigi Sanzone che dimorava in una perenne sbronza triste e ogni volta che attaccava a bere non riusciva a fermarsi finché non era devastato dalla malinconia, e a quel punto si sfogava con l’unica persona che non lo avrebbe mai abbandonato al suo baratro di balordaggine: sua moglie. 

E così Sandro Sanzone se la squagliò dal gatto e dalla volpe e dal carabiniere e dal serpente, attraversò il malefico bosco verde nel quale biancheggiava la casa mortuaria della Fata turchina, simile a un erebo contraffatto, finì ai piedi di un mastodontico cavallo blu montato da una statua di Pinocchio gialla ittero, un’invasione di pinocchi lo stecchì accanto alla riproduzione di un gargantuesco Grillo Parlante. Svenne, rovinò, e al tramonto un giardiniere lo trovò incosciente nella bocca del Pesce-cane. Mentre stava lì a cianciare (toccò dare spiegazioni, benché confuse) Drino Sanzone scoprì la vergogna, l’imbarazzo. Ammutolì, con la bocca spalancata e la lingua pendula, come un mascherone di fontana. Fino a ieri aveva vissuto una vitaccia mediocre ma oggi, nel parco di quel merdoso Pinocchio, sentiva di aver fatto un passo decisivo verso un abisso di niente, inghiottito dal pescecane della sconfitta; se avesse avuta impiantata una ghiandola pronta a ucciderlo nel momento in cui avesse provato paura, come i Kol nell’Eternauta, sarebbe morto quella sera al crepuscolo, un minuto dopo aver varcato il cancello del Parcopinocchio insieme a un giardiniere napoletano con le mani grandi e il sorriso confortante. Il giardiniere lo salutò, disse in bocca al lupo guagliò, e Sanzone restò solo sotto il cosco di Sant’Alto, al cospetto di una lunga luminosa oscurità, quella sì turchina, blu tenebrosa, bruscolo del cosmo, dapprima smarrito (lo smarrimento è il grado più tenue del terrore) e poi sconcertato, e ancora spaventato, preda di un madornale ribrezzo per l’inintelligibile enigma che era la sua vita, la vita di ciascun essere vivente; la paura che lo pigliò, arcaica controfigura della visione, della chiaroveggenza, era più grossa di un caseggiato di cinque piani, e aveva una boccaccia così larga e profonda che ci sarebbe passato dentro un treno.

Immagine generata con DALL-E
“the hand of a wooden marionette holds a Negroni cocktail with a slice of orange inside, liberty style painting”