Ottavo comandamento

Fingiamo di essere entrati in comunità. Fingiamo, oltre a questo, di esservi entrati come tossicodipendenti. Fingiamo, alla fine, di credere fermamente in Dio, di essere cristiani praticanti e di onorare la nostra famiglia, qualunque sia la sua volontà.

 

Sono le undici esatte di un giorno di Ottobre: inizia la nostra Shalom.

Ho deciso di entrare in comunità perché è l'unico modo per salvarmi. Ho deciso di entrare in comunità perché solo Dio può salvarmi. Ho deciso di entrare in comunità per aiutare la mia famiglia. Rispondo così a Suor Rosalina alla prima domanda che mi fa!

Siamo stati un paio di ore a telefono, ha provato a conoscermi meglio, a capirmi.

Dicono che sono stato fortunato a parlare direttamente con lei. È una donna impegnata, delega molto.

Mi dice di raggiungere Shalom da li a una settimana, non era importante quando, mi avrebbe aspettato, quella è casa sua, lei è sempre lì.

Nella borsa ho portato pochi panni, conto di riuscire a vincere questo male in pochi giorni. Al massimo in poche decine di giorni.

Mi accompagnano tutti: da mio padre ai miei zii; hanno sentito parlare di Shalom e vogliono conoscere i benefattori con i loro occhi. Fortuna vuole che sia il giorno della messa con le famiglie e pure la mia viene invitata. Mangiamo insieme, seduti allo stesso tavolo, e a tarda sera vanno via. L’ambiente è molto accogliente, anche se molto silenzioso.

A dire il vero, ho sentito delle urla, prima, nel corridoio. Ma Suor Rosalina mi assicura che non è nulla di grave, alcuni ospiti soffrono più di altri, mi dice, ma Dio è anche con loro, anche quando fa male, soprattutto quando fa male.

La mia stanza è molto grande, ci dormiamo in quattro.

Disfo la valigia e raggiungo il gruppo per la cena. Non ci sono tutti, alcuni lavorano, sento dire. Per arrotondare, infatti, e dare una mano alla comunità, dei gruppi di ragazzi e ragazze vengono portati al pian terreno, dove lavorano di ago e filo o puliscono le verdure dell’orto.

Sembra una grande fattoria. Noi tanti piccoli pastori.

 

La prima notte passa in fretta. La mattina ci svegliano presto, preghiamo. Preghiamo tantissimo, chi non vuole pregare è costretto a farlo. È per Dio, ci comunicano le suore, senza Dio qui non si può stare. Prego Dio tutti i giorni, farlo adesso mi sembra il minimo, forse addirittura più giusto del solito.

Non ho fatto amicizia, le persone qua dentro sono silenziose. Per fortuna in camera con me c’è una giovane senegalese. Le ho chiesto come si chiama ma non me lo vuole dire. È molto socievole, anche se non sembra. Mi ha spiegato le tre regole fondamentali: non parlare con le suore se non te lo chiedono, non rispondere quando ti danno ordini e non provare a scappare.

Perché dovrei scappare? Ho scelto io di venire qua dentro. Non mi ha detto altro. Ho visto, però, che scrive tanto, su un quaderno bianco, scrive mattina e sera, senza sosta. Mi manca leggere, adesso che ci penso. Ho chiesto alle suore se potessi avere

un libro, ma l’unica cosa che accettano è la Bibbia. Non ho mai più domandato, sembravano infastidite.

 

La prima settimana è passata abbastanza bene. Sento il peso dell’astinenza, ma è sopportabile. Mangio regolarmente, bevo tanta acqua e quando sto male prendo le medicine. Le suore sanno bene cosa devo prendere. L’altra sera, ad esempio, ho avuto un forte attacco di panico, forse legato all’astinenza. Suor Rosalia mi ha portato due grosse pillole bianche. Ho dormito per tutta la notte e il giorno non sentivo più nulla. Sono abbastanza diligente. Fino ad ora non mi hanno mai punito. Mi hanno sgridato, invece. Colpa mia. Sempre colpa mia.

La prima volta avevo dimenticato di rifarmi il letto, così la governatrice del mio reparto, non so il suo nome, mi ha detto che solo i maiali non si fanno il letto, e me lo ha ripetuto per tutto il giorno. La seconda volta, invece, ho rotto un piatto.  È capitato.

Ma per fortuna mi hanno mandato al pian terreno con gli altri ragazzi. Alcuni dormivano, quindi ho pensato che la cosa fosse tranquilla. Solo che non pulivano verdure o cose simili, no. Lavoravano la plastica. Ho iniziato a farlo anche io, fino a quando, il giorno dopo, non mi hanno fatto uscire. È stato distruttivo.

 

Oggi sono sette giorni che sto qui. Mi sento male, molto. Non riesco a respirare e vorrei tornare a casa. Mi manca l’affetto di mia mamma. Voglio abbracciarla. So che devo essere forte, ma non è facile.

Suor Rosalina mi viene a chiamare, mi trova in lacrime, si arrabbia. Corre giù e poi torna con una grossa mazza di legno. Inizia a darmi a mazzate sulla schiena e mi fa cadere sul letto. Mi urla che non devo piangere, che se piango deve picchiarmi e lei non vuole picchiarmi, ma continua con le botte, stavolta in testa, per fortuna che ci metto le mani, altrimenti svenivo sul colpo. Loro lo fanno per noi, per salvarci.

Il Signore si mostra nei modi più dolorosi, per essere sicuro che noi siamo abbastanza forti per lui. La senegalese prova ad aiutarmi, prima di essere salva a sua volta. Per fortuna smetto di piangere, poco dopo ci chiamano per il pranzo, questa volta siamo tutti.

Non riesco a mangiare purtroppo. Ho la testa che mi fa male e la schiena che mi trema. La governante se ne accorge, mi si avvicina e mi fa alzare. Mi porta in fondo al cortile, dietro il refettorio, e mi fa spogliare. Caccia una grossa pompa da lì vicino, e mi colpisce con un forte getto di acqua fredda. Mi chiede di pregare, ma io singhiozzo, l’acqua mi è entrata in bocca, nel naso, non riesco a respirare. Crollo, sbatto forte per terra, ma la suora non la smette. Non la smette mai.

 

Non mi ricordo molto. Mi ricordo solo che mi sono svegliato nel mio letto, con le braccia e le gambe legate.

Ma oggi arrivano i miei genitori, sono contento. Alla messa ci sediamo vicini, loro si accorgono che non sto bene, chiedono alla Suora cosa è successo e lei li rassicura, dicendo che Dio vuole questo.

 

Le stringono la mano, sorridono e tornano da me, prima di andare via, per salutarmi. Portatemi via, gli sussurro. Loro vogliono che sia forte.

Io sarò forte.

 

 

Sono passate settimane e non sento più il dolore dell’astinenza. Ho male per altro. La dipendenza è l’ultimo pensiero. La mia compagna senegalese è scomparsa. Il suo quaderno è ancora qui. Stasera ceniamo nella sala grande, perché ci sono i nuovi arrivati. Quando li vedo, non riesco a sorridere. La governante se ne accorge e mi dice all’orecchio che se non sorrido mi vado a fare la doccia.

Sorrido.

Sorrido ancora.

Fino alla fine della cena.

Torno in camera, la senegalese è di nuovo lì, rannicchiata nel letto, sotto le coperte. Le chiedo come sta, ma non ha fiato, vuole dormire, vuole sognare, mi dice, e piange, piange tanto. I suoi genitori non ci sono più, mi ha detto, la nonna l’ha portata qui anni fa, sperando che l’aiutassero. Non è più tornata. Ha seguito la parola di Dio.

La parola di Dio.

La stessa che Suor Rosalina professa tutti i giorni.

 

Il mese scorre come mi aspettavo, tra botte e litigi, tra grida e pianti. Nessuno è felice e a nessuno importa nulla della nostra felicità.

Dio è grande, sa quello che sta facendo, mi ripeto. La governante, l’altra sera, ci ha detto che avremmo un nuovo amico.  È piccolo e non mangia. L’hanno portato qui per farlo mangiare. Quando arriva a mala pena si mantiene in piedi.

Sorride.

Mi affidano il compito di fargli visitare la struttura. A lui piace Shalom, gli piacciono gli animali, gli piacciono le suore, ma non gli piace il fatto che abbia pochi amici.

Durante la colazione, qualche giorno dopo, il piccoletto non si presenta. Quando chiedo dov’è mi dicono che non sono fatti miei.

 

Non l’ho più visto.

Ho visto i genitori, che piangevano.

Ho visto una piccola bara entrare in chiesa.

Ho visto il suo letto sporco di sangue e Suor Rosalina che diceva: Dio, che rompi coglioni questo qua.

 

I miei genitori non sono venuti questa settimana. Suor Rosalina gli ha detto che sono diventato violento, che posso essere pericoloso.

Mi ha punito per la morte del piccoletto, ha detto che sono stato io a picchiarlo, che gli ho rotto il collo, che l’ho costretto a non mangiare, e l’ha ripetuto così tanto che sto iniziando a crederci.

«Se ti ammazzo nessuno se ne fotte un cazzo, bestia» mi ripete il sorvegliante. Un uomo alto e robusto che la suora ha scelto per tenermi sotto controllo.

Dio vuole questo? Mi ripeto. Dio vuole proprio questo?

Passo i giorni a venire trascinando carriole cariche di mattoni, senza meta, senza nessuno scopo, costruendo contenitori di plastica, pulendo i panni alla governatrice, cucinando per le suore, coltivano i campi, prendendo medicine su medicine, medicine su medicine, come fossero caramelle.

Dio vuole questo? Mi chiedo.

Dio vuole questo?

È per lui che sono venuto. Ho voluto obbedire alla parola del signore. Una parola violenta, che muove verso la guerra. Dio è guerra? Mi chiedo. È morte? Chi permette ai suoi discepoli di fare questo? Quale donna è in grado di trattare una persona in questo modo? Perché nessuno fa nulla? Dio, dove sei? Cosa stai guardando? Perché non ci aiuti?

Per la senegalese Dio non esiste. Per lei Dio lo hanno inventato, perché Dio può fare tutto, come tutto possono fare quelli che credono in Dio. Dio è una bugia, come le favole che ci raccontavano da bambini. È un’ideologia, quella che spinge l’uomo e la donna a sentirsi più vicino a qualcosa di eterno. A sentirsi impunibili. È la maschera che mettono quelli che combattono in suo nome, come in nome di tutte le divinità, per sentirsi puniti. Se Dio esiste, ed è come dicono, secondo la senegalese, dopo aver visto il mondo che ha creato, si è suicidato.

Dio di sicuro non è qui.

Qui ci siamo noi, e non ci vede nessuno.

 

Parlammo di questo più volte, finché una notte l’ho pure sognato a Dio. Quando mi sono alzato volevo raccontare tutto alla senegalese, dirle quello che lui mi aveva detto e quello che io gli avevo detto.

 

La senegalese, però, l’aveva già incontrato Dio. Con una lunga fune appesa alla finestra. Nel silenzio. L’aveva già incontrato, Dio.

Quel giorno la preoccupazione di Suor Rosalina era quella di nascondere il corpo. La mia, quella di scappare.

So che non ci è riuscito quasi nessuno, so pure che i recinti sono alti, ma non ho scelta, devo farlo. Così per un po’ non do fastidio. I dolori mi passano e preparo lo zaino con il necessario.

La notte del 5 Agosto, mentre tutti dormono, mi butto dalla finestra, corro verso il campo, scavalco la recinzione, inseguito da cani e padroni, corro, corro ancora, fino a quando non sento nessun rumore, fino a quando sono da solo, fino a quando non sento niente. Non sento niente. Niente.

 

Fingiamo che io abbia denunciato tutto. Fingiamo pure che mi abbiano creduto. Fingiamo persino che abbiamo chiuso Shalom, arrestato Suor Rosalina, che suora non lo è mai stata, e che i ragazzi e le ragazze della comunità siano state riabilitate completamente, grazie a un supporto serio e duraturo.

Se facciamo così, abbiamo finto due volte, oggi. Abbiamo detto due bugie, quelle che Dio non vuole che diciamo.

Mettiamo caso che, tra le due, una è una bugia grandissima, l’altra è una storia inventata basata su fatti di cronaca. E diciamo che, riconoscendo veridicità all’una o all’altra bugia, possiamo dedurre se esiste o meno Dio.

Otterremo che, se ad essere cronaca, arricchita con un pizzico di fantasia, fosse l’ultima menzogna che ho scritto, allora Dio dovrebbe esistere. Essere buono, giusto,

amare gli uomini ed essere dispiaciuto per quello che vede.

Ma se ad essere cronaca, e non una bugia minore, fosse invece la prima menzogna che ho scritto?

Allora che ne sarebbe di Dio?

Immagine generata con DALL-E
“a group of nuns wearing veils, oil painting in the style of hopper”