Macchia di sangue
Il palazzo è un edificio con le vetrate al piano terra. Si trova in una zona verde, giardini, cespugli, piante, alberi. Percorro, con un quarto d’ora di anticipo, una stradina alberata in mezzo al quartiere. I palazzoni si trovano nel verde. Un verde acceso, penso, forse dovuto al periodo, forse dovuto all’efficienza, all’ordine, la velocità che devono emanare le attività dentro quei palazzi.
Un divanetto rosso. In una stanza bianca, dove tutto è bianco. Le pareti, il bancone della reception, il vestito della ragazza, la sua pelle, i suoi capelli, orecchini e bracciali. Le sue pupille, mentre le dico il mio nome, le dico che ho un appuntamento, si disperdono nel bianco, finiscono sul muro, scendono sul pavimento, mi osservano da ogni punto della stanza. Il divanetto è in pelle, una macchia di sangue fresco. Ci siedo sopra. Qualche minuto, dice, stanno finendo una riunione. Annuisco, sorrido. L’abito, avrei dovuto indossare l’abito, penso. Sul rosso di questo divano la maglietta e il jeans diventano invisibili. Nudo vedo i muscoli delle gambe, i peli pubici, neri, sfiorano la pelle rossa. Mi concentro su altro. Sembra il paradiso, un luogo finale, pacifico. Il bianco induce la pace, questo lo so, il legno anche. Sento di prendere fuoco. Il divano comincia ad essere caldo, sempre di più, bollente. La pelle nuda inizia a farmi male. Tengo duro perché sembrerei un pazzo. Il respiro si affanna. Proprio mentre sto per urlare sento la voce chiamare il mio nome. Mi alzo di scatto, mi massaggio la pelle, ho le lacrime agli occhi. Le faccio strada, mi segua. Le sue scarpe sono bianche, fin sopra la caviglia.
Attraversiamo un corridoio buio. Luccicano, ogni tanto, delle maniglie. Scorrono di fianco a me. Non sento vita dentro, solo silenzio. I tacchi bianchi sbattono contro il pavimento, unico rumore. Poi si ferma. Si gira e sorride. Abbassa la maniglia e apre una porta, identica alle altre, irriconoscibile. Buona fortuna, sussurra. Si scosta e mi lascia entrare. Una luce mi arriva negli occhi, passa attraverso una parete di vetro, interamente di vetro. Davanti a me quattro divinità. Mi giro, la porta è già chiusa. Sono solo.
Fuori c’è una giungla. Alberi, cespugli, liane, edera. Si accomodi. C’è una sedia, una scrivania, in legno. Intorno il nulla, solo il parquet a terra. Al centro una donna, capelli neri lunghi. Intorno altri tre uomini, abito perfetto, curati. Mi siedo. La sedia è in legno bianco. Il resto invece è marrone chiaro. La voce è della donna al centro. Mi scrutano, guardo fuori. Mi aspetto di vedere apparire animali di varie specie. Le piace? Mi chiede. Una tecnica immersiva, dice, è più stimolante vedere dalla propria finestra vegetazione crescere libera, che ambienti urbani, non trova? Annuisco. Il rossetto è quasi violaceo, livido. Ci guardiamo, sono nudo. Il legno scotta ancora.
C’è qualcosa che le fa paura? I serpenti, sussurro. Me ne aspetto uno gigante scivolare sul vetro. Una paura comune, dice. Si tranquillizzi, dice l’uomo alla sua destra, è solo un colloquio.
Stringo gli occhi. Ha la barba curata, pelato con occhiali eleganti.
Il soffitto della stanza è in legno scuro. Sopra di me, un pallino bianco, unico. Alzo la testa e lo guardo. Una proiezione, dice la donna, della sua testa. Secondo i calcoli degli architetti, il centro del suo cervello, la parte centrale di un sistema di per sé già centrale, è proprio nel preciso punto in cui c’è il pallino. Gocce, dice l’uomo a sinistra, se da quel pallino scendessero gocce di vernice, se lei rimanesse seduto su quella sedia per anni, accumulando le gocce cadute perpendicolari, le si aprirebbe una voragine in testa che ci permetterebbe di osservare il centro perfetto della sua mente. La donna sorride. Non è quello che accadrà, non è quello che vorremmo accadesse con un nostro lavoratore, dice.
Il centro perfetto della mente è quello che contiene il ricordo, il punto in cui il ricordo si trasforma in pensiero, è il punto che più ci interessa nei nostri lavoratori.
La voce dell’ultimo uomo è simile a tante. Le altre potrei collegarle a dei colori, questa no.
Nelle brevi esperienze segnate sul suo curriculum si evince che ha provato e riprovato a lavorare nell’ambito del montaggio, del taglio, del programma. Annuisco. Non ha mai avuto successo, però, dice la donna. Le sue esperienze sono brevi, tirocini a volte di tre, altre volte di sei mesi, si è dato una spiegazione a questo? È un mondo povero, dico. Il sorriso, forse creato dal tiro di una cordicella, appare simultaneo sulle quattro bocche. Non dica così, dice il pelato, guardi qui, si guardi intorno, ha visto ciò che c’è fuori? Le sembra un mondo povero questo? Scuoto la testa. Ha due lauree, ottimi voti, eppure brancola, ci sbagliamo? Scuoto ancora. Nei nostri uffici non sono ammessi coloro che brancolano, gli indecisi, quelli che hanno sbagliato, nei nostri uffici si prendono delle decisioni. Tutti, di continuo, prendono decisioni e una scelta sbagliata può….sa. Indica il punto bianco sopra di me. Vedo la goccia formarsi, poi cadere, bagnarmi la testa, il centro esatto.
Avevo sognato una o due settimane prima dell’arrivo della mail di conferma del colloquio, di camminare in una stradina. Saliva sul pendio di un monte, non vedevo né la base, né la punta. Camminavo, c’era solo un leggero vento. Camminavo finché non si apriva una crepa nel terreno e la stradina smetteva di procedere. Avrei dovuto saltare, un salto che non ero in grado di sostenere. Così provavo a tornare indietro, solo per accorgermi che una seconda crepa si era aperta nel terreno, della dimensione della prima. Dovevo saltare. Mi ero svegliato con l’affanno.
La donna ha le pupille ghiaccio, le sento sciogliersi.
Non ci interessa della sua esperienza come montatore, dei piccoli corti a cui ha preso parte. Ci interessa sapere se possiamo contare su di lei. Ci interessa sapere se è in grado di prendere una decisione senza lasciarsi avvolgere dalla paura.
Ancora una goccia. Come giudica il mondo del lavoro con cui si è rapportato? chiede l’uomo alla sinistra. Una giungla, sussurro, ho freddo in testa. Ancora, dice lei, ancora queste frasette lette da qualche parte. Sono tutti contro di noi, dice il pelato ridendo. La verità, voce senza colore, è che c’è chi ha voglia e chi no. Lei ne ha? Terza goccia, la sento scendere sulla parte posteriore della testa, poi sul collo. La verità è che ogni lavoro è ripetitivo, ha alti e bassi. Silenzio. Noi, dice la donna, rappresentiamo la cernita. Sa cos’è? Annuisco. Giusto, dice il pelato, il ragazzo ha ben due esperienze nella stagionalità dei pomodori. L’uomo a sinistra schiocca le dita. Quarta goccia, ho paura che il solco si stia già iniziando a formare. L’ha mai fatta la cernita sui pomodori? Annuisco. Ci spieghi come avviene, voce senza colore. Arriva il raccolto e va selezionato, tenuta la parte buona, scartata tutta la parte con imperfezioni e sporcizia. Quasi a comando, battono per tre volte le mani. Quinta goccia. È vernice bianca, per davvero. Qui il concetto è quello. Era stancante? chiede la donna. No, dico, era monotono. Certo, dice il pelato, lei ha ragione, monotono come ogni azione che facciamo e rifacciamo ogni giorno. La vita si dispiega nella monotonia, l’uomo a sinistra. Ogni notte va a dormire, prima di dormire ripete gesti uguali a sé stessi. Annuisco. Può affrontare la monotonia? Voce senza colore. Annuisco ancora. Sesta goccia, scivola dalla testa nel petto, si appiccica alla pelle.
La vegetazione fuori mi sembra fiorire ogni minuto di più. Lei sa cosa vuol dire stare davanti ad un computer per otto ore al giorno e non perdere mai la concentrazione? Scuoto la testa. Tutto quello che dovrà fare sarà guardare uno schermo e poi premere una serie di pulsanti, sa cosa vogliono dire? Decima goccia. Mi tocco il collo, le mani si sporcano di vernice. È il modo per far passare o meno il prodotto. La cernita, voce senza colore, la cernita di tutto quello che viene pensato, fatto girare. Si alzi, dice la donna, mi segua. La donna è alta quasi quanto me. Prima di alzarmi guardo il puntino, sembra asciutto adesso. La donna quasi fluttua su quel parquet. Prende una porta che si confondeva nella parete. Entriamo in una stanza piccola, un tavolino, una sedia, un monitor. Quando uscirò inizierà la sua prova. Buona fortuna, dice uscendo. Mi siedo. Tutto è nero.
Una schermata bianca illumina la stanza. Comincio a sentire una voce. Adesso è buio nel monitor. La voce è un sussurro, fatico a capire quello che dice. Riesco a sentire la parola ghiaccio, freddo, burrone. Dopo poco l’immagine di una persona. Siede su una di quelle poltrone da gaming, con lo schienale reclinabile e pieno di cuscinetti. Indossa una maschera. La voce è modificata, ha dei bassi alti e non comprendo la maggior parte delle parole. Il video si blocca. Un pop up. Premere Invio per andare avanti, Esc per non permettere che il video continui. Premo Invio. La telecamera cambia posizione. Inquadra la stanza. Una ragazza magra, seduta su una sedia. Il ragazzo senza maschera parla e comprendo la parola morte. La ragazza dorme o almeno così sembra. Entra in scena una terza figura, mascherata. Si avvicina alla ragazza, l’accarezza, le passa la mano sul collo, sulle spalle. Ancora il pop up, mando avanti. Torna il primo ragazzo, è seduto su un puff di fianco la ragazza. Si tocca. L’altro è ancora in piedi, continua a toccare il corpo magro. La camera viene avvicinata alla scena. Da qui mi accorgo che sulla pelle della ragazza scivola del sangue. Ci sono tagli, tagli sul collo, sulle braccia, sulle spalle. Viene fuori il pop up, premo invio. Il primo ragazzo è nudo dalla maglietta in giù. L’altro ha in mano un coltellino, la lama è così piccola da essere tenuta in una mano, da sparire dentro di essa. Ora i tagli sono evidenti, anche in faccia, sotto gli occhi, lacrime rosse sporcano il pavimento. Gocce cadono perpendicolari. Sta morendo, penso. Sto assistendo. Arriva il pop up, premo esc. Il monitor si spegne. Torna ad essere tutto buio.
Torna a bagnarmi una goccia nel centro della testa. Poteva decidere di farlo continuare, dice la donna. Creiamo l’immaginario, dice il pelato. Sa cosa vuol dire? Ancora una goccia. Adesso sembrano andare più veloci. Qui possiamo spingere la gente a volere una guerra, ad avere paura o a iniziare una rivolta. Le sembrerà una balla, dice la donna, tutto questo, le sembrerà assurdo, così è. Se ci permetterà, voce senza colore, di aprire un solco lì, dove le gocce stanno cadendo ora, per farsi perforare da una piccola punta con più facilità, di guardare nel solco, di comprendere i suoi valori. Le sembriamo pazzi, dice l’altro uomo, ci sta ascoltando solo perché sai che fuori non c’è altro, non esiste qualcosa in grado di renderla appagato. Tutte queste motivazioni la spingono qui dentro, nel cuore delle immagini, delle voci, delle facce, qui dove creiamo la vegetazione. Si guardi adesso, dice la donna, si alzi e si specchi nella vetrata. Mi alzo, il pallino bianco sopra di me è di nuovo asciutto. Sento otto pupille fisse sul mio corpo. Mi avvicino alla vetrata. Mi specchio. Il riflesso che vedo è quello di un corpo nudo, ricoperto di vernice bianca dai capelli ai piedi, con la libertà di muovere le pupille nella vernice monocolore sulla pelle.
Osservati, voce senza colore, sei già uno di noi. Non sei più solo, disperso, sei in una casa, protetto.
Passeggio nel giardino. Ogni tanto passa qualcuno, vanno di fretta, testa bassa, indossano calze e ciabatte bianche. La vegetazione qui ha un colore troppo acceso, si vede che è finta, creata in un laboratorio. La gente si muove nei palazzoni, scendono, passano da ascensori giganti, siedono sotto le ombre di questi alberi finti, lavorano davanti a piccoli pc su tavoli immensi dove riesci a non sentire nemmeno l’odore di chi ti sta affianco. Cernita, selezione, sento il rimbombo. Sguardi concentrati e colori neutri. Ancora nudo e ricoperto di vernice mi dirigo verso l’uscita. La ragazza mi fa un cenno con la testa, le sue pupille adesso scivolano sulla mia pelle, sono in me. Ho un buco in testa da cui entra ed esce l’aria. Mi chiudo la porta alle spalle. Torno indietro. In mezzo ai palazzoni e alla vegetazione, al silenzio rotto solo dai pulsanti delle tastiere. Entro in macchina e metto la testa sul volante. Le lacrime che scendono sono rosse, credo sia sangue.
Immagine generata con DALL-E
“a red sofa with a spot of red on it in a total white room, minimal oil painting”