Linea verde

La mia prossima fermata è quella di Cadorna, crocevia di colori tra il rosso e il verde. 

Dove una moltitudine incalcolabile di persone sgomita per arrivare ognuna al proprio appuntamento. Che sia reale o immaginario non ha importanza, perché ciò che conta davvero è essenzialmente questo: vivere in funzione di quella sanguisuga che è questa città. 

Pronta a succhiarti le energie giorno per giorno. Tanto troverà sempre qualcuno con cui sostituirti. 

È sempre stata questa l’impressione che mi ha dato la prima volta che ho solcato il suo cemento e posato gli occhi sui suoi immensi grattacieli. 

Per poi denigrarne l’anima subdola ed esigente, così viziosa da prometterti una vita migliore. 

Perché se decidi di trasferirti da lei devi, prima di tutto mettere in conto di scendere a patti; diventi il suo gigolò, uno dei tanti burattini con cui è solita ingigantire il suo merdoso e mastodontico Ego.

Esige sempre di più, garantisce con le sue luci, le sue offerte e i suoi locali che ciò che farai verrà sicuramente ricompensato. Perché sei nel posto giusto, nel paese dei balocchi dove le bugie non sono ammesse e dove i giochi di prestigio sono futile illusione.

A me di tutto questo poco importa, anzi a dirla tutta non me ne frega proprio un cazzo, eppure mi rendo conto che una parte di me al momento del mio arrivo era, ed è tutt’ora, del tutto estranea di fronte questo fascino pronto a rincoglionirti sin nelle fondamenta. 

Non posso fare a meno di notare come la sua fame bulimica contrasti con la mia indole riservata e riflessiva, che la grande signora a qualsiasi ora del giorno e della notte puntualmente cerca di fagocitare. 

Perché per lei, le mie sono semplici cazzate mentre per me ingredienti essenziali che questa stronza grigia e cupa non fa altro che sputarmi addosso una volta assaporati.

Da quando mi sono insinuato tra le sue vene e i suoi polmoni, ho desiderato fortemente incontrare un’anima capace restituire una nuova immagine di me stesso.

Ma in questo momento l’unica immagine che vedo riflessa è la mia, con indosso una mascherina chirurgica e rinchiuso su uno dei tanti vagoni della metropolitana; che dalla fermata della stazione Garibaldi mi sta riportando a casa.

Le misure restrittive post quarantena hanno subito una maggiore elasticità a fronte di una rigidità che per due mesi mi ha tenuto in casa e in compagnia di una signora anziana di ben ottanta quattro anni.

In questo momento sto tornando proprio da lei. Oggi è il mercoledì del pesto, mi ricorda sempre che lo prepara per i suoi nipoti e da qualche mese a questa parte anch’io sono riuscito ad entrare nella ristretta ed esclusiva cerchia dei fortunati.

Nel mentre che assaporo quel momento, la metro continua imperterrita il suo viaggio quotidiano lungo i binari. Perfino lei come tutti è una creatura vivente nascosta nel buio dei sotterranei.

Un mostro tecnologico a volte in orario altre in ritardo, basta che sgarri di un solo minuto ed è subito sopraffatta dalle critiche dei suoi ospiti. Perché questa è la legge, il monito imperante: guai a sbagliare.

Eppure al suo interno mi sento al sicuro, meno esposto al pubblico e a tutta quella patetica e odiosa frenesia sempre in agguato e pronta a cospargere nella tua intimità un liquido vischioso e nauseabondo. Semplicemente per contaminare la tua diversità.

Ogni volta che prendo posto su uno dei suoi sedili colorati mi piace osservare l’imbarazzo degli altri passeggeri, non perché questo provochi in me una goduria sadica e perversa, bensì perché ciascun individuo che entra nel suo stomaco viene immobilizzato da una cocente solitudine che cerca a tutti i costi di schivare. Ed è proprio lì, in quel preciso istante che i loro occhi diventano meno vigili, vulnerabili e ridicoli.

Poverini non sono più in grado di guardare in faccia chi hanno di fronte, leggo la loro paura e la loro vigliaccheria. La loro merdosa fretta è l’emblema di una finta superbia che neanche questo schifo di nebbia riesce a nascondere.

Qui sotto, quello che dovrebbe essere un riparo in tutti i sensi si rivela in realtà un’alcova di insicurezze, un’esplosione di tic nervosi sui quali scorgere cenni di psicopatologia quotidiana. Dove le proprie maschere cedono il posto ad un qualcosa facile a sgretolarsi.

Ciò che mi sorprende non sono le loro facce, perché so già che me ne dimenticherò una volta arrivato a destinazione; nossignore ciò che più mi affascina è il miscuglio di movimenti che dal viso si propagano al resto dei loro corpo con una bella differenza; che gli uomini sembrano più rincoglioniti del solito, le donne al contrario ostentano con fare seduttivo i loro averi. Semplicemente per riportare l’attenzione su quanto di più lontano vi sia dalle loro mancanze. 

Una perfezione pronta a crollare e a tradirti. La stessa che questa cazzo di città sembra volerti infilare giorno per giorno su per il culo. Che ti piaccia o meno il risultato è lo stesso, uno zoppicare incessante tra ciò che hai, quello che puoi avere ma che non-av-ra-i-ma-i.

Questa è l’equazione, una fottuta rincorsa verso un pensiero che ancor prima di arrivare, manco sentivi ti appartenesse. 

Ma la signora, con i suoi gioielli e quella madonnina in cima al Duomo e nascosta nella nebbia ti invita sempre. Perché lei è garante di notti dai risvolti imprevisti.

Una volta arrivato alla stazione di Cadorna le porte del mio vagone si aprono, vomitando una fiumana di vite con gli occhi incollati al proprio smartfone o come cazzo si pronuncia.

In sei mesi che sono in questo nido di pazzi sento che è ora di riprendere il volo, perché mi sembra di sbroccare.

Ma è proprio questa è la norma. 

La sua promessa.

Immagine generata con DALL-E
“a green stop of the metro line in Milan full of people, realistic oil painting”