Cumulonembi

Si conoscevano da tre anni ma si frequentavano solo da dieci mesi. Quella sera, come si confà più agli amanti che alle coppie di fidanzati, si erano dati appuntamento all’ultimo momento. Il programma, molto poco originale, prevedeva di guardare un film a casa di lui improvvisando una cenetta, magari titillandosi con l’abbondanza dei servizi di food delivery che ormai, come edera su grattacieli di lusso, infestava la città. Margherita, splendida nei suoi trent’anni, indossava dei leggins neri che avvolgevano delle gambe magre e lunghe. Sopra indossava una camicetta verde acqua mentre ai piedi un paio di anfibi scuri. Era in gran forma e, grazie alla sua bellezza e sensualità, anche la dimora di Matteo, un trilocale in una zona di pregio della città, sembrava risplendere di luce riflessa. Questo aspetto non era sfuggito all’uomo: da quando l’ex moglie era uscita dalla sua vita, lasciandosi dietro una scia di decadenza e scarsa igiene, l’appartamento che aveva affittato in fretta e furia si era trasformato in un’alcova buia e insalubre. Tuttavia, non appena Margherita ne varcò la soglia, l’ambiente attorno sembrò subito rinvigorirsi. La stessa palpabile differenza che esiste fra un pasto abbinato a un vino qualunque e un altro innaffiato con un buon bicchiere di Barolo Bussia Riserva 2015.
Margherita si accomodò sul divano e prese a tormentarsi con le dita una lunga ciocca di capelli bruni. Matteo notò che si era truccata più del solito. Gli occhi di entrambi tradivano un qual certo desiderio. Con buona probabilità, quella sera avrebbero fatto sesso. Era da sette giorni che non consumavano un rapporto. In barba ai trentanove anni compiuti da poco, la carica sessuale di Matteo era alle stelle. Per stemperare le aspettative, le chiese se volesse qualcosa da bere. Lei gli disse che aveva voglia di bere del prosecco. L’uomo prese dal frigo una bottiglia di Doc Superiore di Martini & Rossi e tornò da lei soltanto dopo averle riempito una flûte.
«Hai fatto qualche cambiamento?» chiese lei dopo aver bevuto un primo sorso. 
In quel momento, Matteo si accorse che il bicchiere di Margherita era sporco: un alone insisteva sul bordo alto del vetro, segno che qualcosa nel lavaggio della lavastoviglie non fosse andato a buon fine. Forse era finito il sale. Comunque, la donna non sembrò accorgersi dell’inconveniente.
«Ho cambiato la luce della lampada del soffitto. Quella vecchia si è bruciata proprio ieri.» 
Solo poche ore prima, il corriere Amazon aveva consegnato quella nuova. Ma a Matteo la lampadina appena arrivata, un led minuscolo ma potentissimo, non convinceva per niente: la luce appena acquistata, infatti, sebbene illuminasse la stanza meglio della precedente, lo faceva in modo asettico senza quel calore a cui era abituato. La nuova fonte di illuminazione, più che a un soggiorno, si addiceva di più a una sala operatoria.
«Ecco cos’era. Bravo. Prima era troppo buio e a me piace poterti vedere bene» disse Margherita con fare malizioso.
Matteo si allontanò per versarsi del prosecco in un’altra flûte e la raggiunse sul divano senza spiccicare verbo.
«Che c’è, ti hanno morso la lingua?» fece lei.
«No, è solo che avrei scommesso che avresti rimpianto la vecchia luce. Sai com’è»
«Non, non lo so com’è. Spiegamelo un po’.»
Non rispose subito. Si portò la flûte alla bocca e bevve un sorso. Contemplò il suo bicchiere che, al contrario dell’altro, era immacolato. Si sentì subito in colpa per questo.
«Dico solo che le donne, essendo più insicure degli uomini, tendono a preferire il buio o delle luci soffuse. Specie nell’intimità. Pensa ai preliminari o al sesso. Figuriamoci poi quando due si frequentano da poco…»
Lei strizzò gli occhi come sorpresa. Poi finì il prosecco con un ultimo sorso e, con quello che sembrava più un gesto di stizza, appoggiò bruscamente il bicchiere sul tavolino di legno. Una goccia di liquido si staccò dal bordo e cadde sul libro che Matteo stava leggendo per l’ennesima volta. Camere Separate, di Pier Vittorio Tondelli.
«Stiamo insieme da quasi un anno. Ti sembra poco?»
«Stavo generalizzando, non fare la vittima» rispose seccato Matteo.
«Non sto facendo la ‘vittima’ ma tu hai praticamente affermato che ho dei complessi. Che dovrei sentirmi più a mio agio al buio perché non mi piaccio nuda. Strano, non mi sembra di averti mai chiesto di spegnere la luce quando hai la testa ficcata in mezzo alle mie gambe…»
L’uomo guardò la goccia allargarsi sulla copertina dell’edizione Bompiani del 1989 che l’ex moglie aveva comprato a un mercatino dell’usato alcuni anni prima. 
«Sei insopportabile. Non si può dire mai una sega senza che tu ti offenda» il tono di voce di Matteo si alzò, manifestando un’insofferenza che si stava facendo più acuta.
«E come dovrei sentirmi? Se generalizzi stai parlando anche di me. Giusto?»
«Io non so un cazzo, figuriamoci ciò che è giusto
«È solo che non ti facevo così»
«Così come? Sentiamo?»
«All’antica, con ‘sti discorsi da vecchio di m…»
L’uomo l’avrebbe mandata volentieri a quel paese ma, con uno sforzo notevole, si oppose all’impulso. Fece un bel respiro e, col dorso della mano, prese ad asciugare la copertina del libro, l’ultima cosa appartenuta alla sua ex moglie che gli era rimasta. Prima di aprire bocca, Matteo si allontanò per versarsi ancora da bere. Si ricordò delle parole del suo analista, quello che non vedeva dal divorzio. Una volta gli aveva detto che, spesso, nell’aggressione verbale tra partner si nasconde un desiderio di seduzione. Tornò con lo sguardo su Margherita: il suo corpo non sembrava sprigionare tentazione, fascino e i suoi occhi, che solo pochi minuti prima lo ammiravano con concupiscenza, adesso volteggiavano, torvi, nella sua direzione in spasmodica attesa di una replica. In qualche modo, Matteo si sentì tradito.
«Ascolta, mettiamola così: non intendevo alludere a niente. Se la tua preoccupazione è che io ti consideri insicura, o complessata, sappi che fino a poco fa non lo pensavo affatto.»
«Cosa intendi dire con “fino a poco fa?”» domandò irritata Margherita.
Fu chiaro a entrambi che Matteo non avrebbe dovuto aggiungere null’altro. Che se avesse affondato quel colpo, avrebbe rischiato di rovinare tutto. Nonostante ciò, come per inerzia, si sentì incapace di frenare il suo impeto.
«Proprio così, ho cambiato idea. Con la tua reazione ti sei smascherata da sola. Sei un’insicura di merda!»
Margherita spalancò la bocca, incredula, senza riuscire ad emettere alcun suono. I suoi occhi guardavano nel vuoto, smarriti come i canditi nel panettone. 
«Forse è meglio che vada» disse infine lei con uno sforzo immane.
L’uomo bofonchiò qualcosa, prima di cambiare discorso provando a salvare capra e cavoli.
«Aspetta. Almeno ordiniamo qualcosa da mangiare.»
«No, non mi va.»
«Ti prego… Poi, se vorrai comunque andartene, sarai libera di farlo» la supplicò Matteo.
«Vorrei vedere. Ma guarda te che stronzo…» sibilò lei a denti stretti.
In segno di tregua, l’uomo raccolse la flûte sporca dal tavolino e la riempì di nuovo. Quando le porse il bicchiere, Margherita non rifiutò. Matteo non seppe se interpretarlo come un buon segno. Non avrebbero fatto sesso, quello era già fuori discussione. Tuttavia, la serata poteva ancora essere recuperata.

Si decisero per del cibo indiano. Come antipasto Matteo scelse un murg chat, del pollo disossato cotto al vapore con ananas, mentre Martina optò per degli antipasti misti vegetariani. Poi, ordinarono dei bocconcini di montone in salsa curry per lui e jhinga biryani, riso con gamberi cotto al vapore, per lei, oltre a svariate focacce indiane da usare al posto delle posate.
L’intermezzo dell’ordinazione, però, non sembrò aver disteso del tutto i nervi.

La tensione se ne stava sospesa sopra le loro teste, come cumulonembi, le nuvole grigie e basse che portano pioggia e temporali.

«Forse abbiamo esagerato» disse Matteo.
«Abbiamo?»
Martina allargò le gambe sotto il tavolino e finì di scolarsi anche il secondo bicchiere di prosecco.
«Perché deve finire sempre così?» disse ancora lei.
A quel punto Matteo la raggiunse sul divano e le appoggiò una mano sulla gamba.
«Sai cos’è la “zona della morte”?» chiese infine l’uomo.
«Niente di bello direi»
 «In effetti… Comunque, nel gergo alpinistico è la quota sopra i 7500 metri. In pratica, sopra questa quota, a causa della scarsità di ossigeno e del freddo boia, la vita umana non è sostenibile nel lungo periodo: bastano poche ore esposti a queste altezze e si muore assiderati.»
«Wow, grazie per l’info. Quest’anno niente montagna allora, solo mare. In ogni caso, non vedo cosa c’entri questo con tutta la questione.»

«Ma non capisci? Fra noi è un po’ la stessa cosa.»
Margherita lo guardò stizzita, in cerca di un appiglio che stentava a trovare. Allora Matteo continuò:
«Converrai con me che quando non siamo d’accordo su un argomento la nostra conversazione ha una gittata breve, brevissima. Dobbiamo tornare nei canoni del discorso tranquillo oppure, a lungo andare, finiamo per scannarci. La nostra “zona della morte” comincia col dissenso e continua con la banale polemica. Fino a quando non è troppo tardi»
«Ah ecco, quindi dovremmo assecondarci, non alzare mai il livello della discussione.  Come con tuo fratello o i tuoi amici del calcetto. Sì, sì. Bel segno di maturità, bravo davvero» e accompagnò quell’ultima frase mimando un finto applauso.
«Non dico questo, però la cosa, ammetterai, fa riflettere. Cioè Marghe, è palese, non siamo in grado di parlare nel lungo senza, prima o poi, finire a farci del male»
«Sai cosa penso, invece? Che il problema sei tu» la donna pronunciò queste parole senza animosità, perfino con costernazione.
«In che senso?» domandò confuso Matteo.
«Io penso che tu abbia un problema con la gestione della rabbia. E la dimostrazione è davanti ai miei occhi ogni volta che la conversazione va un po’ oltre quelle che sono le frasi di circostanza o le cavolate. Sei tu quello che perde subito le staffe. Basta che ti risponda piccata o in maniera un po’ insolente e… bum! Non sei più in grado di controllarti, diventi offensivo. Cattivo. Sembra quasi un meccanismo di autodifesa che ti scatta dentro.»
Prima di rispondere Matteo prese ad allisciarsi la pelata con la mano. Era un gesto che faceva sempre quando era offeso, mortificato e, anche quella volta, non fece nulla per nasconderlo.
«Non male come teoria. E da cosa dovrei difendermi, sentiamo?» proseguì lui.
«Te l’ho detto, dalla rabbia che ti cova sotto pelle.»
Rabbia, pensò Matteo. Rabbia. Lo ripeté nella testa, ancora e ancora, come quando da bambino pronunciava all’infinito un nome finché non diventava aberrante, perdendo i legami col mondo e iniziando a galleggiare in un liquido amniotico minaccioso e indecifrabile. 
«Quindi è colpa mia. Perché sono sempre incazzato…» biascicò l’uomo dopo un attimo di pausa.
«Senti, mi dispiace. Ma è quello che penso: non sei sereno, equilibrato. E non c’è niente di più brutto che vederti accumulare e accumulare per poi, all’improvviso, esplodere. A volte penso che avresti fatto meglio a non divorziare. Che forse è anche un po’ colpa mia.»
Le parole di conforto che Margherita avrebbe anelato ricevere da Matteo non arrivarono. Il coraggio e l’ardimento non erano mai stati fra le doti principali dell’uomo. Rimasero in silenzio, lasciando che tutto attorno a loro si sfilacciasse e perdesse ogni consistenza, come propaggini di una stoffa di pessima qualità. In fondo, entrambi sapevano che il modo in cui nascevano gli amori non aveva nulla a che vedere con la maniera in cui finivano, e che quelle che si innamoravano all’inizio, erano sempre persone diverse da quelle che si allontanavano sul finire della relazione. 
«Non hai niente da dire?» tentò di incalzarlo Margherita.
Nessuna risposta. L’uomo finì il prosecco bevendo dalla bottiglia. Una punta di nausea iniziò a salirgli nella testa e poi nello stomaco. Si chiese come avrebbero fatto con tutto quel cibo che era in arrivo.
«Ok, forse è meglio che me ne vada davvero» disse lei dopo l’ultimo imbarazzante silenzio.
«Fa’ come credi.» 
Su una cosa i loro pensieri concordavano: a inizio serata, nessuno dei due avrebbe potuto immaginare un tale epilogo. Mentre Margherita raccoglieva le sue cose, entrambi seppero di aver esaurito il loro significato, tutta la forza che in quei mesi aveva mandato avanti il loro sodalizio. Alla fine, la donna indossò il cappotto e, senza salutare, si richiuse la porta dell’appartamento alle spalle.
Rimasto solo, l’uomo si buttò sul divano. Prese il libro di Tondelli fra le mani osservando la copertina in controluce. Nonostante il piccolo incidente col prosecco, il volume non si era rovinato. Prese a sfogliarne le pagine, fino a soffermarsi su di un punto in cui l’ex moglie aveva sottolineato una frase: “Io ho sempre voluto tutto Thomas. E mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa”. 
Alzò gli occhi dal libro e diresse lo sguardo fuori dalla finestra di casa, un po’ come faceva da ragazzo, sul treno, quando tornando dall’università sentiva pronunciare dalla voce metallica dell’altoparlante il nome della sua fermata. Proprio come allora, i suoi occhi si mossero alla ricerca di brandelli di paesaggio: ora lo sfondo era cambiato. Non c’erano più le case di periferia, i campi di grano o, sullo sfondo, la cima del Monviso che svettava tra le Alpi Cozie. Adesso lo scenario era mutato e anche lui si accorse di non essere più lo stesso. Soltanto una cosa non era cambiata: pure lui, come il protagonista del romanzo di Tondelli, voleva ancora tutto. A differenza di Leo, però, non era mai riuscito ad accontentarsi di quello che gli restava tra le dita, di ciò che il suo finestrino, di volta in volta, gli mostrava. Nemmeno del libro che ora si rigirava fra le mani e che, in quell’istante, si accorse essere l’ultimo anello di congiunzione fra sé e la sua vita precedente.
Avvilito, si alzò e andò a riporre il volume nello scaffale della libreria sopra la tv. Dopodiché, sollevò la flûte sporca da cui aveva bevuto Margherita e ne fissò l’alone che tanto lo aveva infastidito. La vista gli era insopportabile. Allora la scagliò contro il pavimento con tutte le forze che aveva e osservò il vetro andare in mille pezzi proprio mentre il citofono suonava.
Il rider era arrivato. Dopo avergli lasciato una mancia di cinque euro, Matteo lo ringraziò pronunciando le parole più gentili di quell’assurda serata e tornò nel suo appartamento.
Come aveva intuito, il cibo era troppo. Prima di sedersi al tavolo, spense le luci del salotto e lasciò che la stanza fosse illuminata solo dalla luna e dalla debole luce che penetrava dalla grande finestra del soggiorno. Sentì il rumore dei frammenti di vetro a terra mentre scostava la sedia dal tavolo, ma non se ne curò. Quando i suoi occhi si abituarono al buio, cominciò dai bocconcini di montone. Li guardò per lunghi istanti sguazzare nella vaschetta d’alluminio immersi in due dita di salsa al curry. Ne infilzò uno con una forchetta in plastica biodegradabile e iniziò a masticare.
Non aveva più appetito.

Immagine generata con DALL-E
“a mountain peak emerges from cumulonimbus clouds, realistic oil painting”