Come un padre

«Così ti ha detto?»
«Sì, ma non ricordo com’era iniziata»
«Quando sarà stato?»
«Eravamo molto piccoli. Tu di più»
«È sempre stato un po’ stronzo»
«Era solo onesto»
«Crudele»
«Onesto.»
La porta del garage dà un senso di repulsione. È sporca sotto: melma essiccata, ragnatele, polvere. Tiro su, fisso l’oscurità, mio fratello accende la luce; è tutto così grigio.
«Con questo poi abbiamo finito»
«E il portabagagli?»
«Ci pensa zia»
«Come sta?»
«Ha pianto tutto il tempo»
«Te l’ha detto?»
«Me l’ha detto il cugino.»
Nel garage non c’è niente. Le foto, i cimeli, le cose importanti se ne sono già andate. Rimangono i giocattoli poco amati, i quaderni di scuola marci, le sedie rotte, i mobili brutti, i raccoglitori di cianfrusaglie, l’attrezzatura per caricare le bici solo su una certa macchinata che abbiamo rottamato anni fa. Mi viene la nausea a pensare di dovermi occupare pure di questi ricordi: riscoprirli, catalogarli, venderli.
«Buttiamo tutto»
«Sì, meglio, chiamo il tipo dell’annuncio»
«Ok, va bene»
Entro comunque per scrupolo, una visita tra le macerie.
«Che fai?»
«Niente.»
L’intero palazzo pesa sulla mia testa, cinque piani di mega condominio, portoni e appartamenti e colonne in cemento, una linea di brutalismo piccolo borghese visibile persino dallo spazio.
Urto qualcosa, per riflesso lo prendo tra le mani prima che tocchi terra. È un telecomando. C’è un vecchio proiettore per diapositive poggiato in bilico su uno scatolone. È nero per i gas di scarico delle macchine che col tempo ci hanno parcheggiato accanto. Il telecomando deve essere il suo.
«Hai finito?»
Mio fratello mi chiama da fuori.
«Arrivo»
Porto il telecomando con me, nascosto lungo la gamba come un coltello.
«Lo svuotacantine dice che riesce a passare nel pomeriggio. Chiede cinquanta»
Me lo infilo in tasca. Chiudo la porta. Ho le mani sporche.
«Va bene.»

Michele scrive la notte:
Fatti sentire
Fermo la macchina, tanto non sapevo nemmeno dove stessi andando. Non ci sono chiamate oggi, il parcheggio taxi è lontano. Spengo il pappagallo, non sono più in servizio.
Sì cucciolo lo so ma è successa una cosa ora ci sono
Ho bisogno di te
Sì cucciolo
Mi manchi
Anche a me
Ti voglio
Cosa vuoi?
Che mi fotti come l’altra volta
La carreggiata è buia.
Spengo i fari e per poco non vedo le stelle; è una strada di campagna, ma la città spande il suo latte luminoso per chilometri di distanza; che sia finita è un’illusione, perché la metropoli è sempre dietro l’angolo e continua intervallata da campi dentro e fuori il Raccordo.
Calcolo a mente quanto ci vorrà per arrivare da Michele, poi non mi fido e metto il suo indirizzo su Maps.
Quando la sua coinquilina è in casa non mi fa mai salire.
Più volte ha annullato tutto all’ultimo minuto perché l’ha sentita rientrare e io mi sono trovato a fare inversione sull’Olimpica, grattando le gomme sul marciapiede che divide le corsie. Ci siamo visti tre sere in due mesi. La seconda in macchina. La scorsa settimana mi ha dato buca.
La tua coinquilina c’è?
Poi riguardo il tragitto, quaranta minuti pure a quest’ora se vado veloce; l’ultimo passeggero abitava così lontano, mi sono spinto troppo oltre ma almeno sono settanta euro.
No, dorme dal ragazzo
E perché non mi hai chiamato prima, ma non lo scrivo. Ho questa immagine che è tutto un orgasmo in testa. Non ho mai detto a un ragazzo che il suo culo è come una fica. Non sono mai stato con un ventunenne. Angeli terribili, sanno essere tuoi per una notte e dimenticarti per sempre finché non gli torna la noia. Non sono mai stato così vivo.
Aspettami cucciola, il femminile è d’obbligo a quest’ora. So che si bagna
Arrivo ma ci vorrà un poco
Riaccendo i fari, metto in moto, sgommo sul brecciolino, rientro sull’asfalto, inversione al buio, fruscio di pini più in alto.
La radio suona ma non so ascoltarla, sorrido e mi incupisco e mi sembra di pensare ma non so a che penso; incrocio solo un paio di macchine solitarie, una la supero prima del cavalcavia di corso Francia.
Sono sotto casa parcheggio e salgo
Inviato, consegnato.
Ma non visualizzato.
Non risponde.
Si è addormentato.
Aspetto con le quattro frecce, in silenzio. Potrei parcheggiare meglio e intanto chiamarlo. O scendere e suonare e svegliarlo così e averlo mio nella morbidezza del sonno interrotto, strappargli gli slip per punizione, farlo gemere, o depilarlo tutto, ingabbiargli il cazzo, scoparlo, portarmi via le chiavi, lasciarlo liscio e riempito. Disobbediscimi, è più bello, dopo tanto ti coccolo.
E invece mi è irraggiungibile, addormentato, e non ci riesco.
Respiro male, mi sento le cosce pesanti, tutta la mia virilità sprecata, frustrata, mal indirizzata.
Spalanco i finestrini per sentire il vento freddo sul volto mentre accelero sull’Olimpica, verso casa.

Il traffico venerdì sera sul Lungotevere è un delirio. Non esistono corsie, ce ne sono tre, quattro, sei che si fondono tra loro, sotto i platani bui, e i palazzi secolari sull’argine del fiume.
«Porco…»
Una moto mi si infila davanti, rallento e una Smart approfitta del varco. Per poco non inchiodo, me la vedo venire addosso.
«Non bestemmiare!»
E invece la Smart svicola senza prendermi. La segue un autobus e pure lui mi sfiora la fiancata.
«Scusa zia»
Ho la radio a volume troppo alto, sono teso. Cambio corsia ma poi al semaforo mi ritrovo a metà tra le file delle macchine, impallando quelli che dovranno girare. Guido da quasi quindici anni e questa strada è ancora un incubo.
Dopo il semaforo il traffico si blocca.
«Mi ripeti chi c’è? Ero distratto»
«Gli amici di papà, quelli di Torino»
«Mio fratello c’è?»
Un motorino intanto si infila sulla sinistra, poi sale sul marciapiede da uno spiraglio tra le auto parcheggiate e aggira l’ingorgo, i passanti si stringono contro il parapetto dell’argine o contro i tronchi dei platani, ma nessuno dice niente.
«Dio, non vi parlate mai?»
«L’ultima volta è stato un anno fa»
Per un po’ dopo papà ci siamo visti molte sere di fila. Per parlare. Una birra a un pub di piazza Sempione.
«A chi è scappata per prima?»
«Cosa?»
«Lo sai»
Zia intende quella cosa cattiva abbastanza da non parlarsi per un anno.
«Anche noi ci vediamo poco»
«Non c’entra, sono tua zia, è diverso»
Il traffico scorre di nuovo, ingrano la prima per non rimanere indietro e lasciare che qualcun altro mi si infili davanti.
«È scappata a me»
«E?»
«E gli ho detto che lui non ha mai capito papà, perché in fondo è un egocentrico. E che con tutti i difetti che papà aveva, se avesse fatto un tentativo però l’avrebbe capito»
Zia sospira e guarda fuori dal finestrino.
«Tra poco a destra. Non questa, la prossima»
«A me dispiace tanto averglielo detto. Pensavo fosse abbastanza maturo da ribattere. È che ha insistito tutta la sera con una cosa che ora non ricordo, ma pretendeva di avere ragione»
«Gira a questa»
«Invece mi ha punito col silenzio»
«Io intanto scendo, va bene?»
Cerco parcheggio. Ovviamente non lo trovo. Mi arrampico per il Gianicolo; certe strade sembrano verticali, a novanta gradi, non si capisce come restino dritte quelle colonne, quei condomini, quei pini.
Spengo il motore a ridosso delle vecchie mura, sulla cresta della collina, tra le macchine di altri disperati. 
Nel vano sotto al volante il telecomando sporge opaco, una escrescenza nera alla luce del tettuccio.
Sbatto la portiera, tiro su il colletto della giacca, scrivo un messaggio a zia:
Parcheggiato lontano, sto arrivando
Spaventa pensare che qualcuno mi guardi nell’ombra.

Michele mi fa:
Sai che mi piace di te?
Mi interrompo nello scendere dalla macchina e mi concentro invece sul telefono in mano.
Dimmi
Che sai stringermi forte ma dolcemente
Non sono tuo padre, ma non lo scrivo.
E poi?
Che sei tutto duro, il petto le spalle le gambe il emoji che si copre la bocca con la mano.
Ah sì. E poi?
Che mi sovrasti

La luce a tempo del garage si spegne con un clic. Sono al buio nell’abitacolo non fosse per lo schermo e il lampione condominiale che si intravede dalla saracinesca aperta. Mi trattengo, vorrei fargliela pagare per tutte le volte che mi ha lasciato a secco col desiderio mortificato e il cuore a pezzi. Aspetto un minuto intero.

Come sta la gabbietta?
Mi piace, mi bagno molto e godo
Fa’ vedere
Mi trema la gamba. Conto i secondi. Ci sta mettendo troppo. La foto che mi manda è vecchia, l’ho già vista.
Te la sei tolta
No no che dici
Non è di adesso quella foto
L’app mi segnala che sta scrivendo, ma non risponde. Aspetto, calo il menù a tendina con le notifiche delle corse fatte durante il turno, le ricevute del pos, le scorro senza il minimo interesse; è frustrante: sapevo che non dovevo lasciargli le chiavi.

Metti che deve fare un esame, che inciampa o si fa male, che gli si arrossa il cazzetto, e poi si dovrà pur lavare! Ha ventun anni, non posso tenerlo a giocare sempre. Che se la sia tolta è comprensibile, però sono deluso, triste. Quanto della mia vita dipende da una fissazione erotica di nicchia?

Michele continua a scrivere ma non invia.
Mi stanco, metto il telefono in tasca, prendo la giacca e apro la portiera. Un doppio scatto arancione mi investe quando chiudo la macchina, la saracinesca del box mi annerisce le dita.
Scusa è che a volte ho paura e poi quando sono solo e non sei con me mi vengono le turbe e la tolgo
Lo leggo mentre salgo le scale di casa, cinque piani, tutti a piedi per pensare a una risposta.
Cucciolo ho capito, ne parliamo domani, dormi tranquillo

Non riesco a tenergli il broncio, non devo davvero educarlo. Pure se mi chiama daddy devo tenere a mente che non lo sono.

«Sei sicuro sia questo»
«Sì, ha detto di venire al lotto 400.»
Porta Portese brulica di roba e gente. Ma a questa bancarella ci siamo solo noi, un paio di quadri ingialliti, una radio di legno e delle cianfrusaglie che puzzano.
Il tipo non si vede.
Nella mia mano, il proiettore di diapositive di papà inizia a pesare e mi fa sudare le dita.
«Chiedo alla bancarella vicina.»
Mio cugino va a parlottare con un rigattiere avvolto in un pastrano con diciotto gradi all’ombra. Un ragazzo nudo mi guarda da una vecchia rivista.
«Dice che è andato a mangiare ma che possiamo chiedere a lui»
«Sì, come no»
Cambio mano al proiettore; è proprio pesante questo stronzo.
«Dai, andiamo»
«E quello non lo vendi?»
«Mi è passata la voglia»
Poi guardandolo.
«Se mi gira lo butto»
Continuiamo per il mercato. Mio cugino si ferma a qualche bancarella, guarda un giubbotto da aviatore tutto imbottito, ma ormai col cambiamento climatico a che serve, Roma è sempre più calda; glielo dico, lui scuote la testa e lo compra lo stesso.
«A gennaio fa ancora freddo»
Però adesso è primavera e se lo porta nella busta.
Raggiungiamo la piazza con i condomini scrostati degli anni Settanta. Ci prendiamo un panino.
«Pensa se incontriamo il tipo della bancarella»
Io invece penso solo che finalmente appoggio il proiettore. Lo lascio accanto a noi sulla panchina mentre mangiamo sudando al sole, perché l’albero accanto è troppo rachitico per schermarci.
«Ieri ho incontrato tuo fratello»
«Ah sì?»
«Quasi non mi voleva salutare»
«Ma che cazzo»
«Se ne andava di corsa. L’ho dovuto chiamare. Allora si è girato e gli ho visto l’occhio però»
«L’occhio?»
«Un occhio nero»
«Ma dov’era, scusa?»
«Dietro Termini… Perché non lo chiami?»
Appallottolo la carta del panino. Sto sudando sulle tempie. Quando mi giro, il proiettore per le diapositive è sparito.
«Non ci credo, l’hanno rubato con noi seduti accanto»
Mi tasto le tasche. Il portafoglio c’è. C’è pure il telecomando, me lo giro tra le mani, lo contemplo.
Michele indica e dice:«Che cos’è?»
È la prima volta che siamo in macchina insieme di giorno. È tarda mattinata. Il tassametro spento, niente chiamate oggi.
A Michele l’ho portato a depilarsi il culo col laser, lo voleva tanto. Pago io, e non sono mai stato così sicuro di tutti quei soldi spesi. Poi l’ho leccato e scopato avidamente nel parcheggio del parco, sui sedili posteriori coi finestrini oscurati. Mentre lo pulivo mi ha detto, è un sogno, ma non so quanto ne sia convinto. La sua è una vera famiglia borghese, lui gioca a fare il bohémienne con la coinquilina, ma i suoi abitano a due isolati.

Credo che il ragazzo sappia che certe perversioni si esplorano solo con i sottoposti, e che non c’è gusto se non finisce un po’ di polvere sulle scarpe, tanto poi una spazzolata e non ne resta traccia.

In un pub in cui l’avevo portato a notte fonda mi ha stupito riconoscendo i nomi di tutte le stampe da rigattiere appese alle pareti: quello è un Monet, quello un… E mentre sciorinava titoli, io mi caricavo le spalle di tutte le occhiate stranite degli altri clienti. Sarà il figlio di qualche divorzio, l’avrà portato a vedere la partita, sarà suo zio in trasferta.
«Oggi però sono di buon umore.»
Dopo averlo scopato, ancora nudi e imperlati, ho preso dal cruscotto un pacchettino; l’ha aperto con mani da chirurgo.
Jean Genet.
«L’hai letto?»
No, ma l’ha riconosciuto. Peccato o per fortuna nessuno dei due è Querelle. Sono troppo grande pure per essere Gil; e Michele persino per fare Roger, ma se avessi potuto aspirare a un vero legame avrei scelto quello.
Ha letto la dedica, mi ha dato un bacio. Gli ho accarezzato i ricci, poi un colpetto sulla patta, sta’ attento eh; un fremito, un sorriso.
A quel punto ha chiesto, indicando il cruscotto rimasto aperto:
«Che cos’è?»
«Un telecomando»
«È vecchio»
«È di un proiettore per diapositive»
«Ah, certo, ne abbiamo anche noi uno, dai miei, ma è nascosto sotto il mobiletto dei liquori.»
Ho messo in moto. Con la coda dell’occhio mi accorgo sempre di quando mi guarda l’avambraccio teso sul volante. Non capisco se sia attratto da me o voglia diventare come me; non gli ho mai depilato gli avambracci apposta, per lasciargli questa possibilità.
«Dove andiamo adesso?»
«A pranzo. Ti porto ai Castelli»
«Wow»
E se mi gira al ritorno accosto e ti scopo, ma non lo dico. Del resto sono contento. Non vorrei in realtà fare altro se non scarrozzarlo e ogni tanto abbracciarlo e sperare per una volta in un altro tipo di bacio.

«Da quanto ti sei trasferito qui?
Mio fratello si mette la cintura. Sono andato a recuperarlo sotto casa sua. Il blocco gigante e frastagliato del centro commerciale emerge all’orizzonte come una verruca che ha spaccato la terra tutto intorno.
«Qualche mese. Le case sono ancora nuove e gli affitti bassi»
«Ci credo, non c’è niente»
«C’è il centro commerciale»
Il raccordo è vicino, lo imbocco.
«Mi piace farmi portare in giro in taxi»
Dice e sbuffo.
«Allora, dove andiamo?»
«Non lo so, un posto qualsiasi»
«Alla Romanina c’è un hangar dove rivendono vecchi cabinati, è quasi un museo»
«Va bene, dimmi tu quando uscire»
Per il resto del tragitto parliamo poco. Gli guardo l’occhio di tanto in tanto: è meno tumefatto, però si capisce che l’impatto è recente.
Scendiamo in uno spiazzo di asfalto colonizzato dall’erba, di un verde sgargiante per la pioggia di ieri notte. Dietro di noi i pannelli frangirumore del cavalcavia. Tutto intorno strutture in cemento in vari stati di abbandono.
Il primo arcade è un Metal Slug.
«Questo c’era al mare, ti ricordi? Come si chiamava lo stabilimento…»
«La sirena»
«Nome del cazzo»
«E questo? Galaga»
«Deve essere bello vecchio»
«Crazy Taxi. Ti è sempre piaciuto guidare»
«Normale. Sei solo tu che non vuoi la macchina»
«Inquina»
Mi sguscia via tra i cabinati, lo chiamo.
«Senti, quando me lo dici dell’occhio?»
Si incupisce ma non si gira.
«Una stronzata»
Lo raggiungo.
«Non mi pare»
Non risponde.
«Che ti succede, non hai mai fatto a botte in vita tua»
«Ho detto che è una stronzata, va bene?»
Gli prendo il braccio.
«Me lo dici o no?»
L’ho bloccato. Nell’hangar c’è odore di umido, chissà quanti cabinati sono pieni di muffa.
«È solo un prestito da un amico. Non gliel’ho pagato per tempo. Ma poi ho saldato»
«Bell’amico. E a che ti serviva un prestito?»
«La caparra dell’appartamento»
«E i soldi di papà?»
«Non li voglio toccare»
Bestemmio.
«Tu non sei normale» dico, e poi, «perché non li hai chiesti a me?»
Mio fratello fa spallucce.
«Non ci sentivamo»
«Sì, però devi crescere. Li chiedi a me i soldi, così poi l’occhio nero non te lo fanno»
«Lo so»
Si guarda le scarpe.
«La prossima volta chiedo a te»
Si avvicina a un altro cabinato, accarezza gli adesivi. Lo schermo nero e bombato è coperto da uno strato di polvere e grasso.
«E meno male che era un amico»
«Non era proprio un amico»
«Almeno il debito l’hai chiuso?»
«Ti ho detto di sì, che poi sì»
«Se ritorna mi chiami»
«Non ritorna»
Ci inoltriamo ancora per un po’ nell’hangar. A metà, mio fratello si gira e mi fa:
«Qui è troppo buio, andiamo da un’altra parte, ti va?»
In macchina, prima di partire, gli guardo bene l’occhio.
«Non mi piace, te lo sei fatto vedere?»
«Non ancora»
«Ti porto da uno specialista.»

Michele mi scrive:
Scusa, ma anche oggi sto impicciato faccina con la lacrimuccia ma a lettere, come negli sms degli anni Novanta.
Mi ignora, con qualche variazione sul tema, da una settimana. Gli voglio bene ma la mia pazienza no.
Stavolta sono in fila per la cassa al supermercato.
Mi spieghi che chai?
Correggo: c’hai
Metto sul nastro la carta igienica, la carne, i taralli e la busta di insalata, una mela sfusa, col telefono schiacciato tra le dita.
Non ti arrabbiare però se te lo dico
Bo
Correggo: no
«Sono 21 euro»
«Contact»
Poggio il telefono sul pos, la chat scompare per qualche istante dallo schermo.
Riappare.
Mi sono innamorato di un ragazzo della mia età
Bugiardo, ma non lo scrivo. Metto tutto nella busta, il telefono ci finisce dentro, lo raccolgo, sollevo il sacchetto, si spalancano le porte, pioviggina, apro la portiera; lo sapevo lo sapevo lo sapevo.
Sei arrabbiato?
No
Vorrei scrivere: quindi?, ma so che in tutta la sua elusività da ventenne ne uscirebbe senza un graffio e so che deve ancora arrivare la botta peggiore e che qualsiasi cosa scriverò sarà inutile.
Difatti:
Sei la cosa più bella che mi sia capitata da sempre. È solo che sento di dover vivere l’amore con un ragazzo della mia età
Atroce ma educato.
Sono dentro ma non metto in moto. La pioggia inizia a scrosciare forte sul parabrezza. L’ora sul cruscotto segna che ho poco tempo per portare la spesa a casa e andare a prendere mio fratello.
Vuoi che ti ridia la gabbietta?
No, tienila
80 euro più spese di spedizione dall’America. Se la terrà con una chiave sola: l’altra mi penzola tra quella del mio portone e quella della posta. Aziono i tergicristalli, lui non ha finito, l’avviso sta scrivendo persiste sullo schermo; stringo così forte il telefono che mi suda la mano.
È stato bello ubbidirti. Sai essere duro e protettivo con me. Ne ho avuto tanto bisogno
Penso, non dirlo, non dirlo; mi pulsa il ginocchio.
sta scrivendo
Lo so che non ti piace che ti chiami così, sta scrivendo. Mi si gela il sudore in fronte. però sarai sempre il mio daddy
Ha finito e aspetta. Penso: dì qualcosa di figo, salvati almeno adesso.
Buona vita, cucciolo, e sta’ attento
Ma è il collasso del ridicolo.
Non leggo la risposta, silenzio la chat, la archivio, nascondo il telefono nel porta vivande. Senza accorgermene ho già ingranato la quarta e subito scalo al semaforo.

Stringo le mani umide sul volante mentre prendo le curve della tangenziale sopraelevata.
«Non c’era bisogno»
«Ce n’era invece»
Più alte della sopraelevata nel punto più alto ci sono le gru. Svettano su cantieri in punti inarrivabili del disastro cittadino. Le torri di appartamenti scivolano via dall’orizzonte plumbeo che piove.
Il traffico scorre.
Becco una buca nell’asfalto e si apre il cruscotto; il telecomando rimbalza sulle gambe di mio fratello, cade sulla mia mano che stringe le marce e finisce tra i miei piedi.
«Merda»
«Che cos’era?»
«È caduto il telecomando»
«Il telecomando?»
«Quello di papà»
«Di papà?»
«Sì, il telecomando di papà! Cazzo, aiutami»
«E come?»
Riesco a evitare che si incastri tra i pedali.
«Apposto, lascia stare»
In discesa, con una mano sul volante, mi piego, lo prendo, lo tiro sui sedili posteriori.
«Fatto»
«Che ci fai col telecomando?»
«Ho provato a vendere il vecchio proiettore delle diapositive»
«Non ricordavo nemmeno che ne avessimo uno.»
Il traffico rallenta, poi si blocca e la pioggia scroscia più forte; il tettuccio la vomita a cascata sul parabrezza.
«Avevano le foto del matrimonio su diapositiva, una volta ce le hanno fatte vedere»
«Non ricordo»
«Eri piccolo. Chissà che fine hanno fatto»
«Spero siano finite in discarica»
Non rispondo.
«Mi dispiace per mamma, ma le avremo buttate»
Vorrei stare zitto, e invece alla fine dico:
«Non ti viene proprio»
«Che c’è?»
«È che proprio non ce la fai»
Con la coda dell’occhio vedo un sorriso che è una smorfia. Dice:
«Non capisco questa cosa che c’avete voi di trasformare in santi i morti»
«Voi chi?»
«Te e quelli come te. C’ha fatto piangere tutta una vita e ora che è morto subito ad abbracciare la salma»
«Papà non mi ha mai fatto piangere»
«Sì, come no»
«Faceva piangere te perché ti ostinavi a non capirlo e a non lasciarlo finire»
«Sì, certo»
«Se l’avessi lasciato finire magari ti avrebbe detto una cosa bella, ma tu gli davi subito dello stronzo»
«Perché se lo meritava»
«Eri troppo impegnato a fare la vittima e non lo ascoltavi, lo facevi apposta»
Mio fratello si irrigidisce.
«Lo facevi apposta di piangere»
Nella tasca ho il telefono e sul telefono non ci sono più le chat di Michele, le ho cancellate; l’app aveva chiesto: eliminare per te o per entrambi? E io ho premuto per entrambi.
«Lo facevi apposta»
Scandisco.
«Senti, non ho voglia di litigare. Fammi scendere al prossimo semaforo»
Non rispondo.
«Sono serio. Accosta al semaforo»
«Ma come»
Ho detto fammi scendere»
«Hai la visita»
«Fammi scendere, cazzo!»
«Ti sto portando alla visita»
«Non sto scherzando»
«Lo vedi, sei sempre uguale»
Poi però mi accorgo che tiene davvero la mano sulla maniglia, ma indugia.
«E dai, non fare così.»
Il traffico scorre, riparto; la sopraelevata si spinge sotto le vecchie mura, muore in un viale disordinato; il traffico si ferma di nuovo, stavolta la destra di mio fratello affonda nella maniglia, la sinistra slaccia la cintura.
«Non ti posso lasciare qui, ci sono le macchine, aspetta almeno che mi sposti fino al marciapiede, ma con le macchine non posso»
Il traffico rallenta, stride un tergicristallo.
«Dai, fatti portare allo studio, poi me ne vado»
«Sei identico a papà»
«Ma che dici?»
«Tu e papà vi capivate perché siete identici»
«Non è vero»
«Fate una cosa carina, ma con rabbia e poi pretendete che vi si ubbidisca ancora per gratitudine»
Non so interpretare il suo tono di voce.
«Su, me ne sto zitto così non litighi»
«Non importa più adesso»
Il traffico si ferma, siamo fermi, il semaforo è un centinaio di metri più avanti. Gli stop tingono l’acqua che cola sul parabrezza. L’odore di pioggia invade l’abitacolo quando mio fratello apre la portiera.
«Che fai!»
Se la sbatte alle spalle, si infila tra i musi delle macchine, zuppo verso il marciapiede.
Cazzo, colpisco il volante, parte il clacson, maledetto a me, merda.
Slaccio la cintura per corrergli dietro; le gocce si infilano nel collo giù per la schiena, i rivoli che scrosciano dalle macchine mi entrano nelle scarpe.
Non raggiungo la terza corsia che mio fratello ha già guadagnato il marciapiede, lo vedo tirarsi la giacchetta sulla testa per non bagnarsi, poi mi suonano dietro i clacson: il semaforo è verde.
Impreco tornando alla macchina.
Mi si spegne tutto più volte. Dalla mano tesa che gira la chiave partono rigonfie le vene che mi risalgono per l’avambraccio imperlato.
«La vogliamo finire?»
Il motore si accende, ma mi lascio superare.
Mi sorpassano un uomo di mezza età e un bambino sul sedile accanto. Mi immagino il padre imprecare come faceva mio padre.
Mi fa male la testa che non riesco a pensare.
Ci metto un po’ a capire che sto tremando.
Quando guadagno il semaforo vedo mio fratello sparire in una traversa lontano lontano.

Immagine generata con DALL-E
“a taxi runs through the streets of Rome, futuristic style painting”