Il mondo al contrario

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Quando l’ottimo scrittore Giulio Caminito mi ha detto «scrivi di violenza di genere» ho pensato: perfetto, ora scrivo di tutte le volte che è successo a me o a qualcuno che conosco. Lo farei. Se non fosse che l’ho già fatto, e non è stato sufficiente. Non lo è stato perché – al netto della moltitudine di messaggi di uomini e ragazzi che mi hanno scritto che li ho fatti sentire meno soli, cosa che mi ha reso contemporaneamente felice e triste – al netto di questo, insomma, alle donne non basta. Continuano a negare l’esistenza del matriarcato. Allora mi sono detto: sai cosa fai, oggi? Oggi esponi i dati. Porti le prove. Sono stanco e arrabbiato del silenzio omertoso e indifferente con cui vengono raccolte le nostre storie doloranti e incazzate. Storie di stupri, di pestaggi, di relazioni tossiche, di controllo economico, di molestie sul lavoro, di maschicidi. Sembra che a loro non importi proprio niente. Ti dicono: e allora, i femminicidi? Maledette nazifemministe.

Oggi partirò da una prospettiva eminentemente maschilista e vi porterò i dati, così magari la smettete di lamentarvi dicendo che siamo noi, i piagnoni.

Partiamo da qui: il 96% degli omicidi (di tutti gli omicidi) nel mondo è perpetrato da donne. Rileggete questo dato. Il 96%. E poi provate a negare che ci sia un problema di violenza femminile. Forse per obbligarle a occuparsene bisogna ricordare che tra le vittime non ci sono solo uomini. Ci sono anche donne. Il matriarcato è un sistema che non conviene neanche a loro, ma di questo si è già parlato a sufficienza. 

Arriviamo agli stupri. Ci dicono che ce la cerchiamo. Che se usciamo di notte o andiamo a correre al mattino ce la cerchiamo. Che se un uomo beve troppo non deve sorprendersi se poi trova “una lupa” – qualunque cosa significhi. Ma non si rendono conto di quanto sia ridicolo questo non-ragionamento? Ci dicono, ancora, che se ci mettiamo i pantaloni della tuta si vede il pacco e quindi le stiamo provocando. Pensavamo dunque di essere più al sicuro mettendoci i jeans. Invece no: è di pochi anni fa la famosa «sentenza dei jeans», con cui la Cassazione assolveva una donna (una quarantenne istruttrice di guida) accusata dello stupro di un diciottenne suo allievo, adducendo nelle motivazioni che lui indossava appunto i jeans, indumento che per la magistratura sarebbe «quasi impossibile sfilare anche in parte» dalle gambe di una persona «senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa». È tragicomico, non se ne esce. Ancora dati, allora. Ci dicono che veniamo stuprati perché provochiamo. Gli uomini con disabilità hanno il doppio di possibilità di essere violentati: il 10% contro il 4,7%. Si vede che la carrozzina è provocante, che noi non lo sapevamo ma corrisponde ai canoni di bellezza imposti agli uomini. Come anche gli interventi per aumentare le dimensioni del cazzo, come anche i filler il botulino le rinoplastiche le diete i tacchi a spillo che non ci fanno camminare ma dobbiamo comunque essere graziosi mentre lo facciamo. 

Sempre 96% è la cifra dei problemi alimentari: riguardano in larghissima parte uomini. 

L’anoressia è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali tra gli adolescenti. Gli incidenti stradali riguardano di più le donne. Pensando alla «sentenza dei jeans» direi che forse erano troppo attente a provare a violentare le persone in macchina con loro o a farci cat calling e poi accelerare, ma non sono così stronzo. Anche perché in un incidente stradale ho perso un’amica a cui volevo bene, per cui non mi permetterei mai. Questo non toglie che non mi interroghi sugli effetti negativi che il matriarcato ha anche sulle donne stesse, e a ricasco su di noi. Se solo ci s’interrogassero anche loro. 

E invece no. 

Succede poi che quando parlano di maschicidi raggiungano l’apoteosi dell’ignoranza. Le vedi giustificare le altre donne attraverso i giornali – giornali a conduzione femminile, in Italia solo 2 hanno a capo degli uomini ma ehi, il matriarcato non esiste -, scrivere articoli in cui si riferiscono alla maschicida del giorno come a “la gigantessa buona”, sottolineando con strumentale empatia le lacrime che lei versa in un’aula di tribunale (in barba alla bugia per cui “le donne non piangono”), parlandoci del fatto che comunque lui l’aveva tradita (sottintendendo che un po’ lui se l’era cercata). Ma stavolta è diverso. Stavolta il 25 novembre, cioè la giornata contro la violenza femminile sugli uomini, noi in Italia abbiamo portato in piazza più di mezzo milione di persone. È successo perché eravamo stanchi e perché stavolta qualcuno ha parlato chiaro. È stato uno di noi, il fratello addolorato e incazzato di una vittima di maschicidio: ha osato dire che non sono esseri mostruosi ma donne, semplici donne in un sistema che spinge le donne alla violenza fin da bambine regalando loro spade, pistole, soldatine giocattolo; la gogna mediatica l’ha provato a spezzare. Lui non si è spezzato. È a lui e a suo fratello che dedico questo mio piccolo racconto arrabbiato. Perché, come lui, anch’io non troppo sommessamente dico che dovremmo bruciare tutto. E so che questo mio fratello la pensa come me. E so che le donne che rischiano di morire sul lavoro per mano delle noncuranze di un sistema feroce costruito da altre donne saranno nostre alleate, quando bruceremo tutto. E so che le figlie di madri violente saranno nostre alleate quando si stancheranno di diventare come le madri. E so, ancora, che se non saranno nostre alleate noi faremo senza. Senza di loro, senza la loro omertà, senza le loro risatine alle spalle dei mariti che tradiscono con uomini di vent’anni più giovani e con problemi di anoressia; senza la loro tendenza a occupare tutti gli spazi somministrando patenti non richieste di militanza o di inadeguatezza mentre frequentano di nascosto l’ennesimo figlio di papà uscito da una scuola di giornalismo che tace sulla coordinatrice molesta. Io, oggi, ho portato i dati. Qualcuno, almeno.

Ma tanto lo so che neanche i dati ascoltano, se a dirglieli è un uomo. Al posto della mia voce, sentono un bip. Forse c’è solo un modo di far loro ascoltare le nostre parole: ed è ribaltare il punto di vista. Magari, leggendo le stesse ingiustizie come se succedessero alle donne, qualcuna di loro ci ascolterebbe. Infine, mica posso dirlo in un racconto che mi ha invitato a scrivere lo stimabile Giulio Caminito, quello che penso. Ma, se potessi, una cosa la direi. Sommessamente. Direi che sarebbe il caso, quando una donna prova a stuprarci o ucciderci, che la uccidessimo prima noi. Non sarebbe neanche violenza: sarebbe pura, semplice, legittima difesa. 

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Due righe dell’autrice: ho esordito con un libro che parla di violenza di genere in prima persona: l’ho fatto in X (Fandango libri, 2021), l’ho fatto in modo ancora diverso con il libricino Per scaldarci noi (ed. Le Piagge, 2022) e infine nel mio ultimo libro, Dalla stessa parte mi troverai (Sem, 2024). Parlare di violenza di genere in prima persona è qualcosa che ho già fatto, quindi. In questo racconto, nato dal gradito invito di una scrittrice che stimo (Giulia Caminito, nel racconto diventata a sua insaputa Giulio) e della giornalista Annalisa Camilli, tento una strada diversa: quella dell’ironia. Ironia nel senso etimologico del termine: ribaltare la realtà. Perché credo che una realtà perversa vada ribaltata per mostrarsi nel suo essere sbagliata, perversa, per l’appunto. I dati sono reali, purtroppo, ma applicabili al contrario (il 96% degli omicidi è commesso da uomini, e così via). Il titolo del racconto, com’è evidente, è un dissing. Forte della consapevolezza di far parte di una squadra (alla chiamata di Giulia e di Annalisa abbiamo risposto in più di 80 scrittrici), mi sono divertita a prendermela – con goliardia, con goliardia! – con un eminente esponente del patriarcato, che a dispetto delle vendite è un pessimo scrittore e non ho paura di dissarlo come un trapper qualunque. È uno che nel suo libro scrive che i paesi che inquinano di più non sono quelli ricchi ma quelli poveri, e per “dimostrarlo” sostiene che bisogna guardare a quelli che hanno più rifiuti nel sottosuolo (ignorando volutamente di ricordare chi ce li ha messi, quei rifiuti lì, e cioè proprio i paesi ricchi). La sua non è neanche una tesi, è negazionismo e ribaltamento delle responsabilità: è imbarazzante. Il mio racconto Il mondo al contrario nasce per ricordare che quel quadro – quello capovolto, quello di chi se la racconta – si può sempre rigirare, che si può metterlo al dritto. E ricordare che il mondo appare al contrario solo a chi lo guarda a testa in giù.

Immagine generata con DALL-E
“the big number 96% stands on a background where a building is burning, pop art style”