Travertino

Tempo – Atto I

Ricominciamo.

Dalla finestra vedeva solo il muro del vicino di casa, con cui condivideva il vialetto sterrato di mezzo. Era suo zio, ma non si parlavano da tempo. Non ricordava neanche più se fosse uno zio simpatico o uno zio antipatico. Ricordava però nitidamente la sua voce, la stessa che ogni tanto sgridava il cagnolino cui Ugo, ogni notte, dava un croccantino. 

 

Gli piacevano molto i cani. Il suo fidato migliore amico, Benny, era sepolto proprio in fondo al campo in cui era costruita quella che tutti, nel gruppo, chiamavano la baraccopoli. Altro non era che un container, rimesso a nuovo e assemblato da suo padre e sua madre per regalare un luogo di ristoro e spensieratezza ai loro figli. Lì, dove ogni estate montavano la piscina; dove ogni estate correvano spensierati amici, parenti e cani; dove Ugo aveva festeggiato ogni suo compleanno. Fino a quando ne aveva avuto la voglia. 

 

Si accorse che si stava perdendo di nuovo in futili pensieri, ma gli piaceva divagare con la mente. L’odore forte del sapone per i piatti lo riportò sulla terra. Nel qui e ora. In fondo, il passato era passato e il futuro rimaneva un’incognita. Lo scrosciare invadente dell’acqua che sbatteva sulle stoviglie, sporcate dalla cena appena conclusa, inquinava l’intero angolo cottura, impedendo a Ugo di ascoltare per bene tutto ciò che accadeva fuori dalla baraccopoli. 

Non poteva vederli dalla finestra, ma sotto al gazebo, radunati intorno al tavolo, c’erano ancora i suoi amici di sempre che parlavano e scherzavano tra loro. Erano amici dal primo anno di liceo, non si erano mai divisi. Avendo tutti sogni diversi, però, la vita li aveva portati a dislocarsi in parti diverse del mondo per i più svariati motivi. C’è chi era scappato. Chi era rimasto lì. Chi aveva inseguito la carriera in un altro stato. Chi si era spostato per sempre in una città con più grattacieli e asfalto che prati e alberi.

Lui era quello che era rimasto, ma che sognava di andare via. Da sempre. Si sentiva soffocato dalla sua città, dal travertino che con la pioggia iniziava a impregnarsi di acqua e polvere, restituendo all’ambiente un odore fortissimo di cimitero. Lì, dove tra il marmo e il travertino c’era sepolta metà della sua famiglia, non tutta morta di vecchiaia. Ricordava Andrea, suo cugino, figlio de lo zio che non ho mai conosciuto ma che amavano tutti. Il cugino che scappava, che gli aveva insegnato ad amare Vasco e Fantozzi. Quello che gli aveva lasciato centinaia di cassette dove registrava pensieri a caso, ancora custodite da qualche parte nella baraccopoli. Quello che gli aveva insegnato a seguire quel fuoco che tutti, nessuno escluso, sentono dentro. Andrea, che per Ugo era colui che gli aveva insegnato anche il male di vivere, anche se a lui non lo aveva mai confessato. 

Ugo se l’era sempre tenuto per sè. In fondo era piccolo, quando il cugino volò giù dalla finestra. Quando, leggero come una piuma, cadde sulla sua famiglia frammentandola completamente. Era piccolo per piangere. Capì tutto solamente una volta diventato grande. A Ugo non piaceva chiamarsi “adulto”. Lui si vedeva come un ragazzo. Si vestiva come un ragazzo. Rideva come un ragazzo. Immaginava cose che non c’erano come un bambino. 

Un rumore sordo, attutito dall’umidità di quella serata in campagna, lo riportò sulla terra.

Come detto, Ugo amava divagare. Volare via con il pensiero. Cercava di ascoltare i discorsi dei suoi amici, che considerava fratelli. Non importava quanto lontano la vita li avesse portati, si sarebbero sempre ritrovati per aggiornarsi sulle loro vite.

«Raga’ che cazzo succede? Tutto apposto?»  chiese preoccupato. «Sì zi, è caduto il sale e lo stamo a raccoje».

 

«No oh, fermi!» urlò chiudendo l’acqua del lavandino. «Mi madre è superstiziosa, lasciatelo là, ché ce penso io». Si ricordò bene di quando, anni prima, ancora prima della fine del mondo, la madre gli insegnò la danza del sale per cacciare via le vibrazioni negative. «Se casca il sale, qualcosa non va, si è rotto. E che si fa quando qualcosa si rompe? Si balla». Lo ripeteva mentre ondeggiava davanti l’ingresso della baraccopoli. Sopra di lei nemmeno una nuvola, solo i cavi elettrici che si radunavano tutti alla enorme centrale nucleare che c’era a pochi chilometri, il cupolone. Davanti a lei, il padre e il fratello maggiore di Ugo ridevano battendo le mani a tempo mentre lui, come sempre, se ne stava in disparte all’ombra di fianco al cane. Se ai tempi si fosse trovato nello stesso punto dove si trovava quella sera, non avrebbe potuto assistere a questa scena. Quel giorno si trovava sotto al gazebo, dove adesso c’erano i suoi amici più cari. Ebbero la stessa reazione a questa strana tradizione. 


Risero come pazzi. «Io me ne sarò pure annato via» disse quello che andò a far carriera in un altro stato  «ma tu sei rimasto proprio un cojone». Rise sotto i baffi mentre riapriva l’acqua del lavandino, «ma vaffanculo». Strano ma vero, pur essendo un tipo che rideva poco, Ugo era sempre stato considerato da tutti una sagoma. Come detto, il ragazzo ama divagare con la mente e perdersi nei suoi pensieri. Proprio per questo, spessissimo resta in silenzio o mette il broncio anche senza motivo. La frase che si è sentito dire più volte è oh non c’è una foto dove ridi, pazzesco. Ed era vero. Perché cazzo ridere nelle foto? Tu scatti, l’istante passa, hai perso un momento felice.

Perché non c’è nulla di eterno e Ugo lo sapeva benissimo. Il tempo scorre inesorabile. Ieri era un bambino al primo giorno di liceo, oggi è un uomo che si ostina a chiamarsi ragazzo, che sta dentro un container a lavare i piatti mentre i suoi amici di una vita sbiadiscono nella sua mente sotto l’umidità dell’aperta campagna pontina. Come l’inchiostro sulle pagine di un giornale bagnato, come la glassa di una torta che non viene messa in frigo. Tutto si decompone, col tempo. Tutto passa, ma non nel senso che vogliamo noi.

Passa, ma non guarisce – disse tra sè e sè.

Se il tempo guarisse le ferite staremmo tutti al mare chissà dove. Ubriachi o fatti, che cosa cambia. E invece se ne stava lì a lavare i piatti. 

 

Se il tempo avesse guarito davvero tutto, nessuno di quel gruppo di amici avrebbe avuto paura del tempo che passa. E invece uno di loro era malato. In due anni, il tempo non aveva fatto altro che deteriorarlo e consumarlo come ruggine in acqua. Nemmeno fuggire da quella palude di merda che puzza di cimitero lo aveva salvato. Se il tempo guarisse tutto, Benny non sarebbe sepolto lì fuori, lontano dalla baraccopoli, ma correrebbe ancora incontro al nonno per chiedergli con gli occhi una caramella all’arancia. Avrebbe ancora paura della mamma e della nonna. Si butterebbe ancora tra le braccia di Ugo. 


Una farfalla si posò distratta sulla mano immobile di Ugo, che si era ancora fermato a fissare il vuoto perso nei suoi pensieri, e lo riportò sulla terra. «Quando una farfalla ti fa visita fuori orario, vuol dire che qualcuno ti è venuto a trovare prendendo quella forma», La sua fidanzata glielo ripeteva sempre: «Tu fai sempre quello che non crede in niente. Ma è bello credere in qualcosa. Ti dà un motivo per sperare, e sperare ti spinge a vivere». La sua fidanzata – che lui comunque chiamava ragazza, manco a dirlo – non era lì. La vedeva ogni giorno, non ne avrebbe mai fatto a meno. Ma lei insistette: «Stai con loro, il tempo vola via in un battito d’ali».

Le piacevano molto le farfalle, perché era convinta che fosse il modo che i morti utilizzassero per parlare con i vivi. Ma Ugo si sentiva tutto fuorché vivo, quella sera. Non si fece trascinare di nuovo dai pensieri, drizzò le orecchie e, tra lo scrosciare dell’acqua fredda, riuscì a sentire il ronzio dei suoi amici che lo aspettavano fuori, per il caffè.

Sì, in tutto ciò, mentre lavava i piatti Ugo stava preparando il caffè. E intanto ascoltava. «Me so comprato casa, mo’ vediamo se affittalla o boh, un coworkinghino» diceva uno. «Ma sì veniamo tutti a lavorare lì» – un altro. «Io cor cazzo però che pago»  precisava qualcuno che non riuscì a distinguere chiaramente. «Ho tanta paura, rega’. Vorrei tornare qua» qualcun altro. Il ronzare degli amici fu interrotto dal fischio della caffettiera. Il caffè era finalmente pronto. Ugo tornò sulla terra, un’ultima volta. Prese il caffè e quattro tazzine, nonostante sapesse benissimo che solo due del gruppo bevessero caffè. Nonna, però, lo diceva sempre: «Se non abbondi, fai brutta figura. Se avanza, più roba per te» o almeno era ciò che ricordava. Una nonna era marchigiana, e gli aveva insegnato la passione per i dinosauri. L’altra era beneventana, e gli aveva insegnato che condividere è davvero bello. Con il nonno paterno giocava al mercato del brachiosauro, con il nonno materno cantava canzoni malinconiche in venezuelano.

E così uscì fuori dalla cucina, nel disimpegno della baraccopoli, intonando una canzone antica: anti borracho, anti domando – senza nemmeno essere sicuro che dicesse davvero così – porque destino, cambiò mi suerte. E mentre teneva il vassoio con le tazzine vuote in una mano e la moka calda nell’altra, chiuse la porta della cucina con il tacco, ondulando come a voler danzare. Ugo amava comunicare senza usare le parole. Per questo molti non capivano quando scherzasse e quando fosse serio. Spesso, infatti, la gente intorno a lui non capiva la differenza perché era capace di dire qualsiasi tipo di cosa senza minimamente cambiare espressione. Serietà. «Se scherzi e ridi delle tue battute sei un coglione»  spiegò un giorno a un collega. «E se scherzi così, certe volte puoi dire cose che nessuno direbbe facendo finta poi di scherzare. Un gioco che ti farà avere sempre ragione».

Aveva passato la vita ad affinare questo suo modo di comunicare, fatto di espressioni facciali e gesti. Era quello simpatico, ma allo stesso tempo quello sempre incazzato. Quello calmo, ma anche quello che non dovevi far arrabbiare mai. Era quello che capivi senza che parlasse, perché basta guardare come muove le sopracciglia mentre gli parli. 

Uscì fuori, pronto a lasciarsi il passato alle spalle, il presente sotto i piedi e il futuro chissà dove. 

Un boato, una luce. Ugo tornò sulla terra. Era vecchio e solo nel buio di casa sua. 

Sipario. Inizia l’oblio. 

 

Oblio – Atto II

Smetti di leggere se soffri di claustrofobia. Questo è il delirio di un pazzo. 

Non seguo nemmeno 

uno schema corretto. La punteggiatura andrà a puttane. Sono un cazzo di vecchio solo in una campagna DIMMI, COSA TI ASPETTAVI DI TROVARE??

Ugo pensava di avere il controllo, parlando in terza persona per tutto quel tempo. Ma adesso aveva paura, perché il tempo era passato e non aveva guarito un bel niente. 

Porca troia. 

Mi sento soffocare. Aria, mi serve aria! Si voltò e la baraccopoli che c’era prima era totalmente sparita. Cosa diavolo sta succedendo!? Devono avermi avvelenato il vino o cose del genere. O magari è la nucleare qui vicino. O non è ancora successo? Me lo sono sognato, che ne so…

Ugo si riferisce al tragico incidente di qualche anno prima, di cui a te che leggi non deve fregare un beato nulla. E tu stai zitto narratore di merda. 

Devo trovare una via d’uscita da questo buio pesto.

Voltati, salta nel vuoto per l’ultima volta. 

Eh?

Ugo non sapeva cosa fare. Pensava a tutto il tempo che era trascorso da quella bella sera fresca di mezza estate e non poteva far altro che pentirsi di aver sprecato tutta la sua esistenza perdendosi nei labirinti infiniti e irrisolvibili che la sua mente creava di continuo. Di quei labirinti erano stati vittima tutti i suoi amici i parenti i conoscenti i colleghi le colleghe le amiche gli animali domestici i pesci rossi i cazzo di elettrodomestici i capi i sottoposti gli stagisti gli apprendisti gli zombie gli alieni e gli stramaledetti uomini in giacca e cravatta che pensavano di avere la verità in pugno nonostante fossero degli esemplari falliti che si adagiavano su uno stipendio di merda mentre il mondo bruciava anche a causa delle loro schifosissime abitudini. Ma chi vi credete di essere, voi, per credere di vivere nel miglior modo possibile? Il mondo ci odia. Ci odiava, almeno. 

Quel mondo ingiallito in cui si immergeva ogni giorno, quand’era ragazzo, e dal quale fuggiva con la mente quando divenne un adulto che non si considerava tale. Cos’era rimasto, dopo tutto il tempo trascorso a riascoltare cassette anni ‘80 ammuffite? Una realtà bucherellata come il formaggio rosicchiato dai topi, mangiato dai vermi, forato come il tufo e forte come il marmo. 

Un mondo che, sbarazzatosi del peggio, adesso respirava. Trasudava libertà. Gocciolava di rugiada sporca e si purificava di tutte le incertezze, i pregiudizi, i freni inibitori.

Come il travertino, che quando pioveva si lavava e si ingialliva restituendo puzza di morte e delusione. Maestoso e monumentalmente effimero. Il materiale in cui Ugo si rivedeva maggiormente.

Il fatto è che un giorno esplose tutto e si ruppe qualcosa.

Le crepe del travertino divennero reali. Non erano più scure venature di cui vantarsi, che lo rendevano nobile e simile al marmo. No. 

Non fu una catastrofe globale, ma fece capire a tutti, sulla terra, che la vita era lì e stava passando.

Il mondo entrò in un’era in cui tutti avevano la smania di voler recuperare l’esistenza che avevano perso. Ugo, controcorrente, non volle omologarsi. Divenne un vecchio solitario, in un mondo di zombie che credevano di essere liberi semplicemente perché dicevano di esserlo. La libertà, per Ugo, era fare esattamente ciò che si sentiva di voler fare nelle viscere. 

Il mondo non la pensava così. Ci trovavamo abbastanza vicini alla centrale che… vabbe’ mi fido di questa stronza che parla di me, ma che cazzo, ma guarda te che roba. 

Un salto nell’ombra. La nebbia intorno si fece di nuovo fitta e piena di colori. Nascondeva forme e ombre indecifrabili, ma che Ugo sapeva riconoscere e distinguere a colpo d’occhio.

Era di nuovo lì, sulla terra. La baraccopoli era tutta intera, ma il terreno era completamente bruciato e non c’era traccia dei suoi amici. Era uscito per vederli, ma finirono per cancellarsi totalmente nella sua testa. La sua memoria non ricordava neanche più la voce di suo zio, che gli aveva martellato la testa per tutta la vita. 

Finalmente era lì, sulla terra. Ma la terra era andata avanti, totalmente senza di lui. 

Vaffanculo. Adesso, questi sembrano i deliri di un pazzo. Mi piacerebbe uscirmene con qualcosa di arguto o divertente, del tipo Hey in realtà sto scrivendo questo racconto breve in tre atti mentre caco la mia merdosissima e puzzolente merda seduto sul cesso. Sapete, sentire l’odore della propria cacca non ci fa schifo perché siamo degli schifosissimi animali, quindi in un modo o nell’altro cacare ci riporta alle origini. Tutti cachiamo allo stesso modo, anche gli stronzi cacano come stronzi. La puzza della propria merda piace a tutti, anche a me.

E invece no. Era steso a terra sul prato bruciato. Il cielo era sgombro di nuvole e qualcosa si muoveva scavando il terreno dall’interno, in fondo al campo deserto. Non sarebbe rimasto lì ad aspettare per niente al mondo, quant’è vero che si chiamasse Ugo Brendole. Le forme che si celavano nella nebbia che lo circondava si facevano sempre più alte, quasi a volerlo sovrastare. 

Era sulla terra o no? 

Stava ancora divagando con il suo pensiero? 

Il caffè era buono? Chi ha portato il vino? 

Una goccia di acqua marrone (e caldissima) gli cadde sul ginocchio. 

« BRUCIA!» imprecò. 

Ugo tornò sulla terra, ma solo per un attimo. Nulla stava per uscire dal terreno scavando da sotto. I suoi amici erano lì sotto al gazebo a parlare. Suo nonno parlava allegramente con Benny e la centrale nucleare era scomparsa. 

Seppur fosse tornato, anche solo per un momento, Ugo cercò di carpire più dettagli possibili da quello che lo circondava, ora che la nebbia si era dispersa come inorridita dalla lucidità del momento. Fuggita via come sabbia contro il vento. 

Sgranò gli occhi e vide che tutto sembrava ciò che non era. La baraccopoli era totalmente divelta, piena di ragnatele e sporca di sangue. La porta sul retro affacciava su un baratro, da cui saliva dell’intenso fumo arcobaleno. 

I suoi amici ridevano e parlavano in una lingua a lui sconosciuta. Simile a mugugni. Non avevano un volto, non avevano sesso, non avevano età. Uno di loro era solo una nuvola colorata a forma di persona. Un altro era totalmente verde. Quello che gli era più vicino non aveva la pelle. Suo nonno aveva mangiato il cane, partendo dalla testa. 

Si accorse che sarebbe stato meglio non tornare. Lasciò cadere la caffettiera dalle sue mani.

Cadendo a terra, la moka distrusse interamente il terreno e tutto quello che Ugo aveva intorno confluì esattamente sotto il suo culo tremante di paura. 

Torna la nebbia. Tornano le ombre. Torna il vecchio alieno.

Però, forse, il mio cane? Può essere?

Entra. Nella. Cazzo. Di. Baracca. Alzati.

Entrato, si ritrovò di nuovo nella baraccopoli. Io glielo dissi di non andare sul retro, ma insistette. 

Cosa c’è lì dietro, cosa vuoi nascondermi? 

Brutta

Puttana

ma

? che 

. – …!

Uno sgabuzzino aperto. Una chiave. Una foto. Niente di tutto ciò. 

Sul retro del container c’era Ugo. Appeso ad una croce. Sì, stava guardando se stesso crocifisso mentre il mondo stava in silenzio. Ma che cazzo, te l’avevo detto di non andare là dietro. 

Cado all’indietro, ovviamente. Non è una bella vista, ma è successo, eccomi qui… O lì in realtà. 

C’è qualcosa appeso alle mie palle. 

Ugo, hai visto?

Sì, c’è qualche roba attaccata alle mie palle morte e piene di sangue. 

Prendilo. 

No. 

Prendilo. Prendi quella cazzo di chiave. 

Non è un po’…

Da gay? Non è da gay, sei tu stesso. Coglione. Puoi essere così coglione?!

Sto scherzando, sai che me ne frega di toccare le palle di questo tizio? 

Non si capisce quando scherzi, lo sai?

Lo so. Mi piace così. Sei la mia testa. Beh, bella testa di cazzo lo stesso.

Una falena impazzita gli sbatté sulla fronte. Ugo si risvegliò sul pavimento della baraccopoli, ai piedi della porta che dava sul retro. 

Cosa cristo c’era nel vino, zì?  disse quello che se ne era andato in un altro stato

Ugo non rispose, lo guardò dritto negli occhi – che erano l’unica cosa che di fatto riusciva a vedere o ricordare chiaramente, verdi come la centrale nucleare che esplode trionfante – 

Dai, facciamo pace disse la sua fidanzata fissata con le farfalle dall’interno della pupilla del suo amico. 

Sudore. Cosa stava succedendo esattamente? 

Cosa STA succedendo, vorrai dire

Tutt’intorno ad Ugo tornarono le ombre a fare cupolino su di lui. Si sentì oppresso, senza respiro. Tornò l’ombra assoluta. Il silenzio, un tonfo sordo. 

Bùm

Nel buio assoluto, Ugo riuscì a ritrovare il filo. Quasi aveva la sensazione di essere tornato nel grembo materno. In lontananza le voci ovattate di amici, nemici, parenti, fidanzate e animali correvano nella direzione opposta. 

Urlavano tutte la stessa cosa: Ugo, no!

Ma ora puoi dormire sereno. Finisce qui

Contento?

Bah, è che ho sprecato un sacco di tempo a lavare i piatti, poi sono uscito fuori e non ho detto quello che provavo, capisci? 

sì, certo che capisco. 

mi capisco, certo, sì, solo da solo perché sono libero di pensare e scrivere e leggere quello che mi pare e quello che ti pare. 

solo così

morto su una croce

posso considerarmi davvero vero

vero da vero.

Libero di crepare come cazzo mi pare e piace.

Ma tu ci pensi mai allo spazio? Quanto è bello e immenso seppur pieno di nulla? Sai perché i fasci non vogliono che si studi lo spazio? Perché è vuoto.

In che senso, che c’entra scusami. – non mi rendevo pienamente conto di star interagendo con me stesso – Spiegati, Ugo

Quel rumore assordante pieno di niente. Ama stare da solo, con se stesso, i suoi pensieri, i suoi perché. Stava bene se pioveva, se il cielo grigio rifletteva sui palazzi in cemento e i monumenti in travertino. Stava bene, addirittura, quando nelle sue passeggiate solitarie si immergeva nella luce gialla dei lampioni più vecchi della sua città. Luce calda, anche di notte, anche d’inverno. Senza stagioni. Si avvicinava sempre alle zone di luce, perché non ha mai amato il buio. Il buio è vuoto totale, assenza di luce. “Incoerente”. Ma il vuoto totale non è altro che il luogo più colmo e saturo di “cose” che si possa esplorare. 

Nel vuoto si nascondono i quando, si nascondono i perché e si annidano tutti i chissà. Tutte cose che non lasciano spazio al silenzioso presente. Alla stasi dell’anima che non vuol dire nulla. Il senso di questo racconto è tutto qui. E tu non c’hai capito un bel niente.

Ma che cazzo stai dicendo? 

Oh, ma che si sono invertiti i ruoli? Sto dicendo una cosa seria. 

Stare qui a galleggiare nel nulla, mi rilassa.

Ci rilassa sempre, volare insieme. 

Testa.

Tempo di finirla.

Chissà che cosa stava uscendo fuori dal terreno. 

Ma non ti chiedi che cosa è successo alla centrale nucleare?

Non me ne frega un cazzo, andiamo a scavare. 

Scaviamo. Ma dove scaviamo se siamo qui, apri gli occhi.

Ugo aprì gli occhi. L’effetto delle inalazioni tossiche provenienti dal cratere lasciato dalla centrale nucleare gli davano piacere. Si recava lì sistematicamente una volta a settimana, da circa 20 anni. 

Tornano tutti, se io volo via – disse guardando il baratro dal limite del cratere. Seduto, con le gambe che penzolavano giù, i piedi scalzi e i capelli lunghi e bianchi. Alle spalle la pianura totale, ma non deserta. Negli accampamenti gente libera, schiava della assoluta voglia di libertà. 

Distrutta dalla guerra, dalla fame di sesso e dal desiderio di morire che rimaneva tale. Perché nessuno dei liberi arrivava mai fino in fondo. C’era ancora quell’egoismo che faceva girare il mondo anche prima dell’esplosione.

Ugo si accese una sigaretta e si lanciò giù. Mentre i gas radioattivi facevano reazione scintillando intorno al vecchio pazzo, tutti i suoi ricordi e la sua storia bruciarono via. Dopo che la sua memoria sbiadì a causa del tempo, aveva deciso di cancellare tutto ciò che era rimasto. Per sua scelta. Perché lo sentiva fin dentro le viscere. 

Volò giù come una farfalla. Un angelo. Una falena impazzita. Una goccia di caffè bollente. Un suono acuto. L’odore forte del detersivo. 

Un lampo di nulla. Una buca vuota. 

Il mutante era già scappato chissà dove. 

Che delusione, Ho perso tempo, di nuovo. 

Un tuffo nel buio. Silenzio. Ugo non è più su questa terra. 

Eh? Che c’è che vuoi

 

Ah, sì. Insonnia – Atto III 

Una luce. Un rumore sordo. Un silenzio assordante. Il buio. 

Soffocare. Soffocante vuoto. Opprimente libertà. 

Anna viene al mondo in un mondo già morto che non la vuole. 

La centrale è esplosa, e chi se la ricorda più

Se io dico che non è successo, non è successo 

Se dico che è successo, non è successo 

Ma cosa cazzo è successo? 

Apri gli occhi, stupida idiota. 

Anna è tornata sulla terra. 

La finestra chiusa lasciava entrare giusto l’aria necessaria per poter considerare quella notte più fresca. Tutti, infatti, in paese non facevano altro che dire ha rinfrescato, meno male, era da gennaio che non si respirava. La frenesia del mondo finì quando, un giorno indefinito, qualcuno rese noto a tutti che il tempo era una stronzata. Un costrutto. 

Dormi quando ti pare, mangia quando ti pare. La tua vita è un solo e unico giorno che passa. Che la terra, la luna e tutti gli altri pianeti deserti ruotino attorno a una stella in decadenza non fa parte di nient’altro che del normale ciclo degli eventi naturali. Il tempo te lo sei inventato. 

Come si può sprecare qualcosa che hai inventato di sana pianta? Anna, comunque, non lo sapeva. Aveva solo quattordici anni quando se ne rese conto. Ma in paese non interessava a nessuno. 

Mancavano solo un altro paio d’ore e avrebbe sentito suo padre, di nuovo, come ogni mattina, ripeterle dal piano di sotto «Anna, è pronta la colazione». Con quella cazzo di voce da orco con cui sgridava ogni sera il suo cane. Pezzo di stronzo. 

Dalla finestra chiusa, insieme all’aria fresca, entrava un po’ di luce. I lampioni giallissimi facevano impallidire anche il sole di ferragosto. Ma a lei piaceva così. Nella sua città piena di grattacieli c’erano solo luci bianche. Fredde e innaturali. Lei amava il calore della notte in paese. 

Anna non riusciva a dormire. Il vociare di un gruppo di amici che si erano ritrovati giù in strada stuzzicava troppo la sua curiosità. Si concentrò, quindi, e cercò di sentire i loro discorsi, facendo finta con l’immaginazione di trovarsi lì. Anche se non poteva uscire di casa. 

Molte volte, aveva immaginato una vita libera. Libera dal padre. Libera dalla madre. Libera dallo spirito santo. Ricordava il giorno in cui aveva imparato la parola palindromo. Il suo nome lo era. Questo la faceva pensare. 

La vita era ciclica, tutto si ripeteva ciclicamente. Ma il tempo era un’illusione, un costrutto, una gabbia che opprimeva il suo stesso creatore. Anche quello era un ciclo senza fine. A pensarci bene, Anna, anche questo racconto è un ciclo che si ripete senza fine, lo sai? 

Povera Anna, che vita di merda…  Questo la riportò sulla terra. Le piaceva volare col pensiero, ma l’insonnia era più forte. La curiosità era più forte. Se conosci tutto, se carpisci ogni momento, puoi mettere un punto. E ripartire da lì. 

Ma un ciclo infinito non ha nè capo nè coda. Anna. Due vocali, due consonanti. Una vocale, una consonante. Aveva bisogno di bere. Quindi scese le scale di corsa, andò in cucina. 

Aprì il frigo e cadde una calamita. 

Si accovacciò e, sotto il tavolo, ecco un libricino. Anna apre le prime pagine, poi l’ultima è incollata. Cerca di girarla con tutte le sue forze ma il libricino le casca dalle mani. 

Una luce assordante. Un rumore acciecante. 

Il libricino è a terra. Di nuovo. L’ultima pagina non si può leggere, ma Anna non è una persona che si arrende. Può arrendersi alla ciclicità della vita, può arrendersi ai ragazzi che la prendono in giro in paese, al padre che la picchia ogni mattina a colazione. Alla madre morta in cantina. A quel tizio crocifisso che sognava ogni notte e che le aveva rubato totalmente il sonno. 

Si accovacciò a raccogliere il libricino e incontrò la mano di un vecchio. 

Ciao Anna. Sono tornato sulla terra

Un qualcosa di abbagliante rese tutto bianco, cancellò colori luci e ombre. 

Sul suolo una goccia di caffè. Un rosario rotto in mille pezzi. Le palle insanguinate di qualcuno. Un libricino. La storia di un uomo schiavo della libertà.

Ripeti con me. 

Muori. Vivi. Crepa. Risorgi. 

Il tempo passa. 

Liberati.

Ma se poi siamo tutti liberi

allora è libero nessuno

Siamo. Déi. Liberi Nessuno

E nessuno è libero davvero.

Se sei libero tu

Allora liberi tutti

Libero nessuno

Libero qualcuno

Si lamenta qualcuno. 

Non muore più nessuno.

La centrale è esplosa.

Il mutante è scappato.

A Ugo piace pensare.

A nessuno piace parlare.

Ugo ha qualcosa attaccato alle palle.

Torna, libera tutti.

Ricominciamo. 

Immagine generata con DALL-E
“painted still life of a piece of travertine with a crack in the middle”