Rustichello, o gli scrittori napoletani
Nel golfo di Napoli, in mezzo alle sirene e alle orate azzurre, nuotavano dei pesci assai particolari, che avevano la erre moscia e le corna in testa.
Più pagliacci dei pesci pagliaccio, questi pesci si chiamavano scrittori napoletani.
Si facevano spazio nell’acqua stagnante, si tuffavano nella prosa e poi ne riemergevano, ispirati e invasati, scrollandosi il sale dalle corna appuntite.
Quando non erano in acqua, gli scrittori napoletani andavano girando a braccetto, sempre due a due, accoppiati come la sfogliatella riccia e quella frolla. Proprio come la sfogliatella, erano belli arruscati fuori ma mollicci dentro, della stessa consistenza della ricotta e del semolino, quella poltiglia che sapeva di arance candite e rancore.
Gli scrittori napoletani erano viscidi come purpetielli, avevano le ventose non solo sui tentacoli, ma pure sulla punta della lingua, e con quella stessa lingua acchiappavano mosche, moscerini ed eventi nelle librerie del Vomero. Si vestivano bene, perché erano tutti avvocati, commendatori, brigadieri e vicecommissari, alcuni pure ingegneri e ispettori, e scrivevano solo quando c’avevano l’ispirazione, che arrivava dopo aver fissato la luna a Marechiaro per tre sere di fila.
Gli scrittori napoletani avevano tutti la erre moscia, sputacchiavano quando pronunciavano la parola “presentazione”, replicando gli schizzi dello scoglione di Marechiaro, ed erano gli unici a poter parlare, scrivere, sussurrare della città, come in una setta di caproni demoniaci, le cui corna si incrociavano e andare a biforcarsi proprio sotto il culo della sirena Partenope, pungolandola e imprigionandola.
Quel giorno, Massimo Rustichello, si svegliò nella sua casa in via Luca Giordano, e fece colazione con una fetta di pastiera comprata da Scaturchio, perché lui alle altre parti mica ci poteva mettere piede, altrimenti trovava gli studenti fuorisede, i rivoltosi di Mezzocannone Occupato, i bordellari di Santa Fede Liberata.
Massimo Rustichello si sentiva assai bello, un bel guaglione nonostante i suoi cinquantaqualcosa anni, era ancora zitello cioè scapolo cioè ancora sulla piazza, possibilmente quella del Plebiscito, perché Massimo Rustichello c’aveva pure le pretese, diceva di non essersi ancora fidanzato ufficialmente, cioè in casa, perché non era ancora riuscito a trovare una donna che capisse il suo estro, la sua parentela con Salvatore Di Giacomo, con Libero Bovio, con Roberto De Simone.
La voleva vomerese, borghese, di poche pretese, tutte le cose che finivano in –ese, voleva una valletta partenopea che lo accompagnasse alle presentazioni e che svenisse, esangue, ogni volta che lui si allisciava il ciuffo malandrino, una donna che gli cucinasse la minestra maritata, soffiando sul cucchiaio e intonando il canto delle lavandaie del Vomero a ogni boccone.
Quella mattina, Massimo Rustichello osservò il suo profilo nel riflesso dello specchio laccato di foglie d’oro che troneggiava nel cesso stile impero: il suo fascino ancora ce l’aveva, quel fascino arabesco, spagnoleggiante, scugnizzarolo, quella carnagione scura in cui s’erano raggrumati tutti i lineamenti delle dominazioni napoletane, tutti i guizzi aragonesi e angioini.
Dopo essersi osservato e compiaciuto come se avesse visto un bel babbà al rum, Rustichello si mise a fare i suoi addominali e le sue flessioni, e ogni volta che rifiatava e rimodulava il respiro, recitava un pezzo dei sonetti di Salvatore Di Giacomo, li recitava con la sua erre moscia e la sua vocetta stridula, interpretandoli con la sua faccia carismatica che, sotto sforzo, somigliava a una bella frittata di maccheroni scivolata dalla padella arrugginita.
Li recitava e faceva ritirare pure le onde del golfo di Napoli, che tornavano indietro per non andare a sbattere sugli scogli e non toccare la terraferma dove il Rustichello componeva, scriveva prosa, produceva romanzi storici e pascolava a piede libero, come un bel maiale nero casertano.
I libri del Rustichello parlavano sempre e rigorosamente solo di donne.
Era specializzato in cortigiane, regine, contesse, principesse, e le descriveva sempre con lo stesso arioso ventaglio semantico: le donne del Rustichello erano tutte eteree, svenevoli, diafane e traslucide, erano trasparenti al pari di certi cristalli delicatissimi e si sbriciolavano come le porcellane di Amalfi, quelle pittate a mano dalle massaie centenarie. Le sue donne erano tutte angeliche, limpide e cherubine, cioè erano asessuate e non avevano pulsioni che non fossero quelle del martirio vocazionale, e pensando di fare un piacere alle donne, le stava menando ancora di più nel fango, perché le trattava come figurine del domino, come piantine stilizzate, fiorellini e mughetti che lui prendeva, con le sue manone pelose, e le metteva ad essiccare tra le pagine dei suoi libri storici.
Non essendo mai riuscito a capire le donne, Rustichello ci scriveva i libri ‘ngoppa: i suoi libri si intitolavano tutti allo stesso modo, “La vera storia di Vanda De Miracolis”, “Le vere vicende di Luisanna Sangiovanni”, “Storia vera di Grazia De Sanctis”, perché il Rustichello credeva che la letteratura fosse sinonimo di verità, che lo scrittore in realtà non fosse altro che un cronista molto affidabile, un esattore della Storia con la S maiuscola, pronto a tirare le somme e portarle al Vomero per rivelarle a tutti, per lui lo scrittore era uno strozzino dell’umanità.
Gli piaceva molto riunirsi con i suoi sodali, i suoi amici scrittori napoletani, che uscivano come uccellacci neri dai comignoli dei Camaldoli e dei Colli Aminei, tutti vestiti come schiattamuorti e pronti a poetare, prosare, banchettare sul cadavere della letteratura, che chiedeva pietà, funerale, messa da requiem.
In inverno, gli scrittoracci si ammassavano in una delle loro case di proprietà a Pusilleco, e svernavano là cianciando di napoletanità, ispirazione, incendi sacri, scintille che partivano dalla pancia e che poi finivano in una colata liquida, come il fuoco di Sant’Antonio o la diarrea.
In estate invece giocavano a fare gli scorfani a Procida, mangiando lingue di gatto e componendo sonetti che sapevano di passato, muffa e ricordi amarognoli come le mulignane sott’uoglio.
Le donne non erano ammesse a quegli incontri, anzi, in realtà erano pure ammesse, ma a patto che facessero la parte del busto di Pulcinella a vico del Fico al Purgatorio: le femmene non dovevano parlare, dovevano starsene in bella mostra e dovevano farsi toccare e rattusiare dai turisti. I veri prosatori erano loro, il Rustichello e i cumpagnelli suoi, loro che avevano scritto dieci libri su Napoli, che avevano in corpo la sacra brace del cunto, che davano del tu ai poeti schiattati e si sentivano i loro figliastri putativi.
Quella mattina non era una mattina come le altre, era il grande giorno: il giorno in cui Rustichello avrebbe ritirato il premio estivo “Calici del Vesuvio sotto le stelle lucenti dell’Irpinia”.
Il suo ultimo romanzo, quello su Luisanna Sangiovanni, era riuscito a incoronarlo con il lauro petrarchesco, e chissà quale premio avrebbe ricevuto!
Sarebbe dovuto andare a Montepucchiacco Irpino, luogo dove ci si arrivava prendendo due bus e facendo il cambio con un ciucciariello espresso, ma questo non avrebbe frenato la sua fame di gloria.
Morto di fama, Rustichello fece una lauta colazione, si incipriò le gote color sciorda e indossò la camicia bianca di lino e i suoi costosissimi mocassini sotto il cauzunciello alla caviglia, che lo faceva sembrare un pescatore di telline.
Bello impettito come un pullastro imbuttunato, chiamò il tassì per andare alla ferrovia, perché non voleva andarci a piedi come gli studenti che trascinavano il trolley sul basolato vesuviano, e manco voleva prendere il metrò: di certo non si poteva mischiare all’odore della cipolla ramata di Montoro che proveniva dai vagoni, o a quello di stoccafisso fermentato, lui si era appena spruzzato nientemeno che l’Ugobbòss.
Il tassista arrivò sotto casa sua a via Luca Giordano, se lo caricò e appena guardò il Rustichello in faccia fiutò l’odore di baccalà, e capì che poteva ingasare col tassametro: lo sfilettò spina dopo spina, come un bel pesciolone, e da casa sua alla stazione Garibaldi gli chiese trentasei euro, e il Rustichello pagò con la carta, prendendosi i chitemmuorti carpiati e saltati alla pizzaiola del tassista. Erano le nove di mattina, il Rustichello si incamminò sul corso Meridionale e salì sul bus: si distese sul sedile di cartone, smangiucchiato e con i buchi, e dopo dodici ore di tornanti, curve a gomito, a ginocchio, curve frangistomaco e torcibudella, arrivò in Irpinia sott e’ngoppa alle nove di sera, reggendosi alla testa pelata dell’autista e carezzandola come un pomello apotropaico e portafortuna. Per disperazione aveva recitato i versi di Salvatore Di Giacomo in aramaico, o in dialetto dell’Agro Nocerino Sarnese, che poi era la stessa cosa. Il ciuffo malandrino si era ammosciato come una zucchina dopo sei giorni sul banco del fruttaiuolo.
Alle nove di sera, alla stazione di Montepucchiacco Irpino, ad attenderlo c’era un nano dalle nocche pelose e dalle guance rubiconde in modo preoccupante. Aveva un cartello unto in mano, era alto un metro e un tarallo e in testa aveva qualcosa che sembrava una zoccola morta.
«Signor Rustichello?» strascinò il nano, starnutendo e mostrando i muschi e i licheni che gli uscivano dalle narici.
Rustichello sgranò gli occhi come due palle di un rosario: chi era quel cosariello?
«In persona» rispose Rustichello, ricomponendosi dopo la traversata, e ricordandosi che era il più grande scrittore di Napoli. Inspirò, gonfiò il petto: «e lei chi è?»
«Piacere, Franco Zompolavotte, Presidente del Premio Calici del Vesuvio sotto le stelle lucenti dell’Irpinia. S’è fatto tardi, zompiamo in macchina, il Premio sta per cominciare e mi sono allungato a prenderla.»
Zompolavotte zompò vicino a Rustichello, con uno scatto felino, o forse topino, e prese il borsone del più grande scrittore napoletano: se lo mise in spalla come una mappatella e insieme si avviarono verso la Fiesta arrepezzata di Zompolavotte. Il Presidente puzzava di sugo di braciole rancide, e aveva una giacca gessata su cui era grandinata una copiosa dose di forfora: mise in moto la macchina e si inerpicarono nell’Irpinia Paranoica, primo luogo della penisola per numero annuale di suicidi, zona definita gloriosamente “Il Tibet d’Italia”, mausoleo naturale di vacche e pale eoliche. «Non so se lei conosce la storia del Premio che ha vinto, signor Rustichello» tossì Zompolavotte, mentre conduceva lo scrittoraccio in una foresta piena di cinghiali, che sbarravano la strada alla macchina.
Rustichello si lisciò il ciuffo e scosse la testa: dal finestrino entrava un odore pungente di letame fresco.
«Vede, questo Premio l’ho creato io, che sono un volontario, in realtà io lavoro all’Agenzia delle Entrate ad Avellino, ben tre anni fa, il Premio è storico, siamo già alla terza edizione, eh» tossì di nuovo Zompolavotte, schivando un cinghiale dagli occhi lampeggianti.
«Ma lei non si occupa di libri, arte, letteratura?» grugnì Rustichello, continuando a lisciarsi il ciuffo fino a scepparselo. «Eh chi tiene il tempo? Io faccio la riscossione tributi, mica tengo la capa artistica come Lei, però mi piace la cultura, è importante per il territorio» rise Zompolavotte, controllando se c’era ancora qualche suino in mezzo alla via.
«I libri si devono leggere, il libro apre la mente, il libro è pane per lo spirito, noi dobbiamo lavorare per i libri, dobbiamo far leggere i giovani» continuò Zompolavotte, «infatti questo Premio è per i giovani, i giovani devono pigliare un libro in mano, non i telefonini, non i tabblèt»
Rustichello sentì una zaffata di merda ruspante che saliva dalle fronde del bosco.
«Uè, non ci faccia caso, qua vicino c’è la casa di Cicco il pastore, le sue capre scacazzano quando le va a pascere» rise Zompolavotte, con un brutto ghigno, allargando le narici cavernose e piene di liane.
«E chi c’è più in questo Premio? Chi sceglie i libri? Chi valuta i manoscritti?» chiese Rustichello, tuffando il naso in un fazzoletto imbevuto di acqua di colonia, che teneva sempre ficcato nel taschino.
«Eh, chi li sceglie…tanta gente» soffiò Zompolavotte, mentre si avventurava per una salita bella appesa.
«Non avete un comitato, signor Zompolavotte, un comitato tecnico scientifico?»
«Certamente, signor vincitore. Vabbé, ci stiamo io, che presiedo, poi c’è Giuseppina Tregatti, una professoressa di religione delle medie che però legge tanto…specie i gialli, le piacciono i gialli del commissario Lisciardi, i disgraziati di Mezzobalcone…»
«Non c’è nessuno scrittore?»
«Ma signor Rustichello, ma c’è Isidoro Scoppettuolo, il poeta e giornalista del territorio! Che domande» replicò offeso Zompolavotte, tossendo muco selvatico.
«Non lo conosco, cosa ha pubblicato e per chi?»
«Scoppettuolo scrive da sessant’anni, ha composto il nostro inno Lo ciuccio na vota coglie e n’anno dura, e la declama a ogni festa, è una cosa rivoluzionaria, la deve leggere, i nostri bambini la studiano nelle scuole e la recitano!» gracchiò eccitato Zompolavotte.
«Ma quindi non ha pubblicato?»
«No, perché le cose che scrive vanno contro il mercato, sa com’è, la bellezza non piace al mercato, non piace ai politici. Ma è una bella giuria la nostra, Lei si deve sentire onorato, ne capiamo tutti»
«E chi ci sarebbe oltre a questi?»
«Ah poi c’è Mimmo Bazzano, il nostro giovane scrittore prodigio, a soli trentatré anni ha vinto il concorso letterario della parrocchia, scrivendo la poesia per San Ciriàco. Lui ne capisce, rappresenta appunto i giovani, ha pure preso cento alla maturità quando l’ha fatta, è un grande esempio»
«E basta?»
«No, poi ci sta pure Carmela Scannagalline, la nostra tuttofare, lei fa tutto, pulisce la chiesa, cucina alle feste, impasta i cavatielli, fa i servizi nella Pro Loco, monta i tubi, una volta teneva l’ex macelleria che poi è fallita, è l’anima di Montepucchiacco Irpino, e lei ha dato il voto decisivo per il tuo libro, perché lei è un po’ strega, capisci a me: legge le mani, i fondi di caffè, ha detto che in una tazza ha visto la tua faccia vittoriosa. E noi? Eh, ci siamo fidati. Lei azzecca sempre tutto, tutti i morti di Montepucchiacco Irpino li ha azzeccati lei.»
La Fiesta cancerogena si fermò nei pressi di quella che sembrava una piazzetta, ai piedi di un castello merlettato, tutto feritoie e spioncini, color madreperla bruciato.
La piazzetta era punteggiata di bancarelle che si appicciavano e si spegnevano come lucciole, e nell’aria c’era un odore di bistecche alla brace e di vinello paesano.
«Dove si terrà la premiazione?» sorrise Rustichello, pensando che il momento dell’incoronazione con il lauro si stava appropinquando. Oh, si sarebbe incoronato da solo, come Carlo Magno a San Pietro, si sarebbe messo la ghirlanda immortale da solo sul ciuffo che ormai gli penzolava sugli occhi come un festone stanco.
«Nella chiesa di San Vincenzo Trafitto» sospirò Zompolavotte «anzi andiamo a vedere chi c’è, però Lei entrerà a sorpresa! Si nasconda nella sagrestia insieme alla giuria, uscirà durante la proclamazione!»
Rustichello tornò a respirare a grandi sorsate d’aria: pensò a Basile, a Di Giacomo, a Libero Bovio, era sempre più vicino a loro, quella era una tacca necessaria a cui se ne sarebbero aggiunte presto altre, una vittoria sospirata, anelata, alitata.
Entrò, accovacciato come se dovesse andare di corpo, dalla porticina che portava nella chiesa di San Vincenzo Trafitto, e si trovò di fronte la statua di un santo con la bocca aperta, in posizione orgasmica, e il costato che gocciolava sangue vermiglio di ceramica rappresa, con delle frecce ficcate nel cuore, nell’ombelico, nel collo, il santo pareva un cervo gigante e impagliato.
«Buonasera signor Rustichello!» gli disse in coro la giuria.
Scoppettuolo, il poeta del popolo, lo abbracciò e lo baciò con la sua bocca rugosa e disidratata che sapeva di zolfo e rime baciate, Giuseppina Tregatti la professoressa di religione lo guardò con sospetto, visto che era abituata ai libri gialli, il giovanissimo Mimmo Bazzano gli fece un inchino da cortigiano, soltanto Carmela Scannagalline decise di starsene per i fatti propri. Guardò Rustichello con diffidenza incazzosa, si sistemò i capelli stopposi color pantegana e gridò:
«Dov’è il Presidente Zompolavotte? Dove sta?»
Scoppettuolo, Tregatti e Bazzano alzarono le mani: e che ne sapevano loro.
«Ma manco un cristiano l’ha visto? Ne siete quattro!» e fissò anche Rustichello, o meglio gli fissò i pantaloni a zombafuosso, o meglio detti alla zuava. A Montepucchiacco Irpino non c’erano mari dove pescare telline, ma vicino c’era il Lago Laceno.
Zompolavotte arrivò trafelato, con i peli del naso bagnati che sembravano alghe umide e cascanti. Lui e Scannagalline si avvicinarono subito.
«Vedi? Vedi, è successo un’altra volta!» soffiò Scannagalline, facendo le smorfie e le boccacce di un chihuaua appena uscito da una borsetta pelosa.
«Di nuovo è successo! E la colpa di chi è? Di chi è?» tuonò ancora Scannagalline, puntellandosi le mani sui fianchi. Nessuno rispose.
«Ve lo dico io di chi è la colpa» e Scannagalline tamburellò sul costato ferito del santo di ceramica, con la stessa forza con cui una volta batteva le mani sulla carne e sulle costate di porco, mentre San Vincenzo Trafitto la guardava in estasi, sembrava rianimarsi con le sue urla intossicate da papera, «la colpa è di tutti! Perché qua le cose si fanno sempre sciué sciué, sempre a capa vostra, mai mi state a sentire!»
«Ma che è successo?» esordì candidamente Zompolavotte, che pareva cascato non dal pero, ma da un bell’albero di aulive, bello alto.
«Ma voi a me mi volete mandare proprio ai pazzi! Zompolavò, vai fuori e vedi chi ci sta, invece di farci stare qua dentro stipati come topi in mezzo alla puzza e al fieto di chiuso, affacciati e vedi chi sta nella chiesa.»
Zompolavotte spostò la tenda della sagrestia con l’indice e il pollicione, e contemplò la chiesa: oltre a due vecchie sdentate, un cane con la rogna e un gatto acciambellato sull’acquasantiera, in chiesa non ci stava nessuno.
Certo, non si poteva dire che non ci fosse manco un cane perché un cane ci stava, ma mancavano i cristiani: erano tutti alla sagra della ricotta col soffritto.
Scannagalline si avvicinò a Zompolavotte, si mise alle sue spalle e lo scosse, facendo muovere la forfora sulla sua giacca che si mise a nevicare provocando una tempesta di neve in sagrestia. Lo scosse e poi, ridendo come una posseduta, urlò “Cucù! Cucù!” e si mise ad applaudire, applaudiva da sola, guardando le statue, i calici, le ampolle, le mosche.
«Bravo, bravo, soltanto un allocco fessacchiotto può pensare di fare la serata della premiazione la sera della sagra della ricotta col soffritto! E chi ci voleva venire da noi? Chi?» Scannagalline ormai aveva la bocca sciancata, ogni vocale le apriva una grotta rabbiosa sulla faccia.
«Ma noi che ne sapevamo?» si scusò Zompolavotte «noi questo Premio lo facciamo il 15 di agosto da che mondo è mondo, è da ben tre anni che si fa, questo Premio è storico, è la tradizione, non è che possiamo cambiare la storia di tanti anni»
«Ma io te l’avevo detto!» si sgolò Scannagalline «te l’avevo detto che non ci veniva nessuno!»
«Ma noi siamo ottimisti e abbiamo sfidato il popolo con la cultura» sorrise compiaciuto Zompolavotte, voltandosi verso Scoppettuolo, Tregatti e Bazzano «noi come Premio ci crediamo»
«Non avevi letto che stasera come ospiti ci sono Tony Colombo, Gianni Celeste e Gianni Fiorellino?» strillò ancora Scannagalline «e ci sta pure il vino con la percòca a un euro?»
Massimo Rustichello cercò involontariamente rassicurazione negli sguardi di Zompolavotte, Scoppettuolo, Tregatti e Bazzano, ma loro finsero di non vederlo: Rustichello percorse la navata della chiesa guardò il cane rognoso accucciato ai piedi di un banco, e si sentì una verginella tradita, una sposa abbandonata ‘ngopp all’altare. Una vecchia sdentata si alzò, accarezzò Rustichello sul ciuffo malandrino e fece:
«Ne uagliò, ma è vero che qua dentro a la’cchiesa fanno la pasta cresciuta co lo strutto? Aggia sentuto n’addore, ecco pecché so’ trasuta» «No, in realtà qui c’è una premiazione letteraria» ringhiò Rustichello alla vecchia. «Ah? L’aria? Nun ce passa l’aria? Vabbuò, me ne vaco» e la vecchia sdentata girò sui tacchi, anzi sulle babbucce.
Un fruscio d’ali di calabrone colpì Rustichello alla schiena.
«Signor Rustichello! Ascolti, venga qui, mi stia a sentire!» Zompolavotte bloccò Rustichello vicino al portone della chiesa: fuori si sentiva un odore di bruschette con l’aglio e l’origano di montagna, di caciocavallo podolico sadicamente impiccato e poi mostruosamente sciolto sul pane, di carne marinata nell’aceto.
«Signor Rustichello, c’è stato un problema» Zompolavotte si fece serio e più brutto di un rospo bavoso del Partenio.
«Ma cosa sta succedendo? Quando inizia la premiazione?» sputò il grande scrittore partenopeo serrando i pugni nella tasca e stringendo un fazzoletto di carta ormai ridotto a mille coriandoli.
«Eh, cosa sta succedendo, eh lo chieda ai nostri politici, cosa hanno combinato, questo è quello che vogliono, la gente dovrebbe scendere in piazza» cominciò a delirare Zompolavotte, anche i peli delle sue narici tremavano seguendo il ritmo del dramma «la gente dovrebbe mettere una bomba a Montecitoglio, qua la gente non legge più, la gente non pensa alla cultura, la gente non resiste, se ne vanno tutti, nessuno rimane, lo spopolamento, nessuno fa più la resistenza come i nonni nostri!»
Rustichello ebbe la tentazione di prendere quel disgraziato per il colletto, o di appicciargli i peli del naso con un lumino della chiesa.
«E quindi succedono queste cose!» continuò Zompolavotte «eh, mica noi lo potevamo sapere che in una data così strategica, così pensata bene, così ponderata come il 15 di agosto, la gente se ne andava a fare il mangiatorio e a vedere i cantanti? Se la pigli con loro, esci ‘ccà fore e vedrai di chi è la colpa!»
«Ma almeno il premio? Me lo date?» Rustichello incrociò le braccia, pensando che almeno ci avrebbe accocchiato qualcosa di soldi «a proposito, a quanto ammonta? Non mi ricordo più il bando»
«Eh signor Rustichello» sorrise Zompolavotte, mostrando i denti giallo paglierino «ma ci sono cose che non tengono prezzo! Lei certo che riceve il Premio, quello non glielo leva nisciuno!»
Rustichello iniziò a sentire odore di pezzenteria.
«Sì, ma quanti soldi?» tuonò Rustichello in un impeto venale.
Zompolavotte fece segno alla sua giuria di avvicinarsi, con lo stesso gesto del padrone che chiama il proprio bastardino «venite, venite ‘ccà, fate vedere al nostro vincitore il suo premio!»
La giuria uscì dalla sagrestia, capitanata dal vecchio poetastro Scoppettuolo che reggeva uno scatolone pesante in mano, di quelli usati per metterci i boccacci dentro e spedirli ai figli al Nord.
Rustichello, indispettito come un mulo offeso, poggiò le dita pelose sullo scatolone e lo sventrò con tre manate. Da là dentro uscì il premio.
«Signor Rustichello, complimenti! Lei vince il simbolo di Montepucchiacco Irpino, cioè la statuetta di una pucchiacca!»
Rustichello guardò il suo premio: era una grande pucchiacca di ceramica, finemente dipinta a mano, e sotto c’era una targhetta con su scritto “Premio Montepucchiacco Irpino, Calici del Vesuvio sotto le stelle lucenti dell’Irpinia”. La pucchiacca era grande quanto un lampadario, e dal peso pareva fatta di piombo.
«Complimenti, signor Rustichello» urlò la giuria in coro, strozzata, pure Scannagalline che a quanto pare aveva sentito l’odore di carne e aceto, e le si era aperto ‘o stommaco e pure la simpatia.
Come uno sciame di calabroni rossi, i giurati andarono via in massa, attirati dal fumo delle bancarelle, dall’aroma pestilenziale della ricotta col soffritto, dalla voce possente di Gianni Celeste che cantava “L’infermiera di notte” e “Ho litigato con mia moglie”.
Massimo Rustichello rimase da solo in mezzo alla chiesa, cornuto e mazziato.
«Visto che ‘sta cosa del premio non l’avite fatta ‘cchiù, io devo spegnere le luci e devo chiudere barracca e burrattini, che domani c’è messa» esordì il sagrestano, uscito come una lucertola da dietro una colonna mezza rotta.
Rustichello uscì fuori e il sagrestano chiuse con un catenaccio la chiesa di San Vincenzo Trafitto.
«Ma io dove mi fermo stanotte? Come ci torno a Napoli? ansimò Massimo Rustichello, con il premio in mano.
«E io che ne saccio? Faccio ‘o poeta io? Faccio ‘o professore? Uè, io nella vita chiudo le chiese e piglio le offerte» e il sagrestano se ne andò via, sgusciando e sputando per terra.
Rustichello si mise a cercare Zompolavotte, si trascinò nella folla festante e non riuscì a trovare né lui né gli altri giurati.
Nella calca vide soltanto i fantasmi di Basile, Rea, La Capria, Di Giacomo, che danzavano mascherati e gli facevano pernacchie, gli facevano il marameo, e nel frattempo lui, Massimo Rustichello, era stretto contro una transenna, era premuto contro il ferro.
Mentre Gianni Celeste cantava, a Massimo Rustichello non rimaneva che stringere tra le mani una pucchiacca gigante di ceramica, finemente intarsiata, pesante e pelosa, proprio come la letteratura, proprio come la vita.
Immagine generata con DALL-E
“a fish with horns swims in the sea of Naples, oil painting Vesuvium and the gulf of Naples in the background”