Interni

– Less is more –
Ludwig Mies van der Rohe

 

L’appartamento situato ai piani alti dello stabile signorile misurava circa centocinquanta metri quadri. La doppia esposizione ad angolo offriva una perfetta penetrazione della luce. Fabrizio ne rimase colpito durante il sopralluogo. Su un lato la vista era sgombra dai profili dei palazzi limitrofi e un’ampia terrazza sporgeva sulla città, come a volercisi tuffare in mezzo. 

Quando il proprietario si presentò in studio, bastarono poche parole per capire che sarebbe stato un progetto semplice.

La richiesta era sempre la stessa: total black. Minimalista, come nel suo stile.

«Ha fatto un lavoro strepitoso, devo ammetterlo!»

La signora Casati si aggirava per le stanze sfiorando con le dita le superfici lisce degli arredi. Le sue mani, snelle e curate, nascondevano a fatica i segni dell’età. Si fermò un istante davanti alla lampada Kundalini, l’accese e si voltò verso Fabrizio con un sorriso malizioso, quindi la spense e proseguì in direzione della zona living.

«Meraviglioso…» disse tra sé e sé guardandosi intorno «stupendo!». 

La terrazza panoramica offriva alla vista un agglomerato di edifici che delineava il complesso profilo di Milano. Sullo sfondo le tre torri del quartiere Citylife. 

Buttandosi sul divano vintage in similpelle, la donna prese una sottile sigaretta dalla borsetta e se la portò alle labbra. 

«Ne vuole una?» chiese, allungando il pacchetto verso Fabrizio.

«No, la ringrazio. Non fumo.»

Con un’espressione di delusione, ritrasse il braccio.

«Beh, certo, lei è uno sportivo. Si vede.»

Faceva delle lunghe boccate. Sarebbero bastati cinque o sei tiri per finirla.

I suoi occhi stavano incollati a Fabrizio che, affacciato alla finestra, osservava lo smog velare l’orizzonte.

Quarantacinque anni, fisico asciutto, capelli rasati e barba incolta ma ben curata. Indosso un completo Canali fatto su misura. Al polso un Panerai Luminor acquistato all’aeroporto di Dubai. 

Dava veramente l’impressione di uno sportivo? Avvicinandosi all’immagine riflessa sul vetro, si toccò il viso. Appariva pallido, sarebbe dovuto passare al solarium prima di rientrare a casa.

Preso in mano il pesante posacenere dal tavolino in vetro, la signora spense la sigaretta.

«Ma è pesantissimo…» disse stupita. «Mio marito dovrà stare attento!» proseguì scoppiando in una fragorosa risata.

Fabrizio si voltò per un attimo, compiacente, ma non le rispose. La guardò sfilarsi le costose scarpe col tacco e iniziare a massaggiarsi i piedi. 

 

La donna saldò il conto per il lavoro con un assegno circolare. Mentre scriveva, lui pensò che avesse la grafia di una bambina delle scuole elementari.

 

**

 

Parcheggiata la Maserati Levante nel doppio box, Fabrizio si assicurò che la cler automatica fosse completamente  abbassata prima di aprire il portabagagli. Al suo interno c’era un ammasso multicolore di scarpe, scarpe di ogni modello: sneakers, sandali, mocassini, stivaletti, espadrillas che avevano l’aria di non essere mai state calzate. 

Ne tirò fuori un elegante paio color testa di moro. Dopo averle esaminate per qualche secondo se le mise sottobraccio e richiuse il cofano, forzandolo leggermente.

Superato l’ingresso dello stabile signorile, incrociò la portinaia.

«Ha sentito che scossa?» 

«Come?»

«Il terremoto, non l’ha sentito?»

«No…» rispose Fabrizio sorpreso.

«Beato lei. Qui si è sentito, e bello forte, anche! Stia attento che all’ottavo piano non c’è mica da scherzare!»

Fabrizio aveva sempre pensato che l’anziana fosse poco lucida, spesso lo confondeva con il vicino di casa, il dottor Minetti, un uomo robusto, dalla folta chioma brizzolata. Ma aprendo la pagina del Corriere Milano sull’IPhone gli toccò darle ragione.

Scossa di terremoto a Milano, gente in strada per le vie del centro.

Così recitava la prima notizia. Non sembrava essere però nulla di allarmante.

 

Appena entrato in casa, lanciò le scarpe sulla montagna di oggetti che riempiva il corridoio.

Il locale dava l’impressione di un magazzino pieno di merce abbandonata: decine di bottiglie di vino pregiato costeggiavano la lunga parete dell’anticamera, dei dipinti  acquistati da un antiquario a Siena stavano a terra rivolti verso il muro, subito dietro una colonna di centinaia di dischi in vinile, e poi vecchi quotidiani, scarpe da ginnastica, abiti vintage di una boutique nel centro storico di Varsavia, e ancora scarpe e giacche monocromatiche nascoste sotto piccoli oggetti in ceramica Raku. Una bicicletta in fibra di carbonio riaffiorava da sotto la collezione di colorati lampadari in stile Liberty , mentre un vecchio telefono con combinatore a rotella sormontava le console di videogiochi che ingombravano per intero il tavolo del soggiorno. Dalla pila di sgabelli all’angolo della portafinestra, dominava un antico mappamondo in legno. Otto candelabri in argento ereditati da una vecchia zia nascondevano un enorme televisore a tubo catodico, poggiato sopra il divano, di cui ormai si intravedeva solamente una piccola porzione dello schienale. 

«Alexa, valzer di Shostakovich» disse.

Un sistema digitale di filodiffusione trasmise in ogni stanza il celebre Waltz N°2.

«Alexa, alza il volume» gridò, dirigendosi verso la zona notte.

Nel bagno l’aria era irrespirabile. I sanitari erano ricoperti di una patina gialloverde e l’ammasso di indumenti davanti alla finestra non permetteva nemmeno più di aprirla. Nella vasca idromassaggio colonne di riviste: AD, Interni, Domus…  Tolti di mezzo gli asciugamani appesi alla specchiera, Fabrizio si spogliò completamente. La doccia solare aveva lasciato un segno molto evidente dei boxer. Cominciò a masturbarsi, ma di lì a poco tutto tornò inerme come al solito, così abbandonò l’idea e si spostò in camera, dove ordinò del cibo messicano tramite Glovo.

Il letto, come tutto il resto del locale, era sommerso da una distesa di vestiti usati. Soltanto un angolo della stanza era rimasto libero. Lì si trovava un carrello portabiti in metallo con una grossa cassettiera in legno sul fondo. Ci stavano appesi venti completi scuri incellofanati, appena ritirati in lavanderia. A lato una decina di paia di scarpe; due modelli: uno elegante e l’altro più casual, entrambi rigorosamente neri.

 

In fondo all’appartamento Fabrizio aveva fatto isolare acusticamente una piccola stanza. L’aveva ricavata da quella che l’inquilino precedente utilizzava come cabina armadio. Lui la chiamava “La Caverna”, e al contrario del resto della casa, l’ordine era assoluto. Chiuso lì dentro passava ore ai videogiochi (adorava Assassin’s Creed, l’episodio ambientato nell’antica Grecia) ascoltando musica classica a un volume talmente alto da diventare insopportabile. Quella per la musica era una passione nata durante le lezioni di pianoforte che la madre lo obbligava a frequentare da bambino. Anni dopo si oppose in ogni modo dall’ intraprendere la strada del conservatorio, dando inizio a un interminabile logorio del rapporto materno, ormai estinto.

La porta della stanza era pesante e capitava che bisognasse forzare un poco per riaprirla. Fabrizio avrebbe dovuto contattare un manutentore, ma sarebbe dovuto entrare in casa e lui questo non lo voleva.

Da quando viveva lì, nessuno ci aveva mai messo piede, a parte lui.

In un angolo l’impianto hi-fi di ultima generazione trasmetteva Le variazioni Goldbergh di J.S.Bach, eseguite dal virtuoso pianista canadese Glenn Gould.

Mentre dalla comoda poltrona ergonomica dava inizio a un’altra notte di scontri con gli adepti della Setta di Cosmos, si avvertì una piccola scossa di terremoto. Ma questo non sembrò preoccuparlo minimamente.

 

***

 

Appena sveglio, Fabrizio si buttò sotto la doccia del bagno di servizio, l’unico agibile, poi si sistemò la barba e lavò i denti con uno spazzolino elettrico dalla testina consumata.

«Alexa, Für Elise» disse con un perfetto accento tedesco.

La musica di pianoforte si diffuse per l’appartamento. Questa volta con un volume moderato, creando una calma atmosfera.

Nel frigorifero c’erano soltanto un grosso barattolo di maionese scaduta, due limoni e una bottiglia di Zubrowka aperta settimane prima. 

Avrebbe mangiato qualcosa fuori.

Sulle note di Beethoven l’immagine riflessa nello specchio era incantevole. Fabrizio si sistemò le maniche della giacca e uscì di casa, privo di ogni difetto.

 

Il bar di via Bernardino Corio era preso d’assalto. Ordinò una spremuta d’arancia, un caffè ristretto doppio, un bombolone alla crema, uno vuoto e delle frolle al cioccolato; ma toccò soltanto il caffè e un paio di frolle, stando seduto nell’ auto parcheggiata lungo la strada.

Fuori dal finestrino lo scorrere della gente gli era indifferente. Pensava che, per quanto ci si prodigasse, non tutti potevano sfuggire al proprio destino.

Lo smartphone poggiato sul sedile del passeggero si illuminò, doveva recarsi in studio.

 

«Il miglior approccio nel creare spazi è quello dell’eliminazione: si inizia con diversi elementi e poi, pian piano, li si esclude. Questo permette di trovare l’equilibrio, qualunque esso sia.»

Il preambolo era sempre lo stesso, studiato, metodico, imparato a memoria, provato e riprovato davanti al sudicio specchio del bagno.

E, dopo l’enfasi iniziale, poteva partire quello che Fabrizio definiva il suo vaniloquio creativo, il cui impatto positivo sulla clientela era ormai assodato. Dentro c’era l’intero glossario del designer 3.0: luce, forma, materiali, dettaglio, complessità, contesto, tradizione, esperienza sensoriale, spazio, funzionalità, durata, comfort. 

«La nostra idea di estetica è resistente al tempo, alle tendenze, alla moda» concludeva.

 

Lentamente il volto dei clienti seduti al lato opposto dell’enorme tavolo si illuminava, ammaliato da tutte quelle chiacchiere. Le coppie si scambiavano sguardi complici. Alcune donne sembravano addirittura eccitarsi e al momento di salutarlo cercavano in ogni modo il contatto fisico o, sapendolo single, capitava che lasciassero il loro numero personale scritto a penna su un biglietto da visita aziendale.

Ma a Fabrizio quello non interessava, la sua vita sentimentale non era nemmeno mai iniziata. Quella sessuale non esisteva. A lui interessavano quegli sguardi, gli occhi incantati. L’ammirazione delle persone era il suo autentico momento di gloria.

La catarsi del professionista, del creativo rampante, del designer arrivato. Fabrizio Mancino, l’uomo dall’eleganza estrema, così aveva scritto una volta di lui Vanity Fair. Ma sapeva bene che si trattava soltanto di una maschera. Una maschera forgiata in anni di isolamento, trascorsi accumulando oggetti di ogni tipo.

 

****

 

“La Caverna” misurava poco meno di cinque metri quadri. 

Era stata costruita sfruttando parte del corridoio e chiusa con due pareti in cartongesso. Al suo interno era rivestita da pannelli fonoassorbenti. Tante piccole piramidi color antracite ricoprivano per intero muri e soffitto. Fabrizio non aveva badato a spese. Unici arredi una poltrona ergonomica e un mobiletto sulla parete in fondo.  Un televisore 4k ultra HD da cinquanta pollici e tutta la strumentazione hi-tech annessa, garantivano un riempitivo nelle interminabili nottate insonni. Ora, dopo una doccia per lavare via il caldo di fine giugno, Fabrizio stava seduto completamente nudo davanti alla XBox.

La prima scossa quasi non la avvertì. Indossava delle cuffie quietcomfort della Bose che lo isolavano dal mondo esterno. La seconda, fu più lunga, e lo fece fermare per un attimo, ma tutto sembrava tranquillo. Alla terza il pavimento gli tremò letteralmente sotto i piedi, le pareti vibrarono e tempo qualche secondo la corrente elettrica saltò, lasciandolo nel buio totale. 

Allora si alzò e provò ad aprire la porta, forzandola come al solito, ma questa non ne volle sapere di aprirsi. Probabilmente le vibrazioni l’avevano mandata fuori asse bloccandola definitivamente. 

D’improvviso ci fu una nuova scossa. 

Fabrizio si mosse verso la poltrona tenendo le braccia in avanti, inciampando nelle cuffie e il joypad, che nel frattempo erano finiti a terra. Con un cellulare avrebbe risolto tutto, ma si ricordò di averlo messo in carica nella presa del bagno, quando si era spogliato poco prima. Così decise di aspettare, ma d’altronde non aveva molte alternative. 

Per la prima volta dopo anni provò paura, chiuso lì dentro al buio poteva udire i battiti del proprio cuore con un’intensità sconosciuta. L’isolamento acustico era impietoso, Fabrizio avvertiva l’angoscia scorrergli nelle vene.

Questa strana sensazione lo colse impreparato, in tutto quel silenzio, si sentiva come avvolto da una folta vegetazione, dove ogni tronco di albero portava incisa un’occasione che si era lasciato sfuggire, nella continua lotta per non diventare un uomo qualunque.

Provò nuovamente ad aprire la porta, ma fu inutile.

Accumulando tutto aveva eliminato tutto, la sua vita era diventata un ammasso di roba inutile. Aveva ricoperto la sua esistenza con un velo nero. Total black, proprio come la sua maschera.

Ora, nudo in quel deserto umano, se lo sentiva addosso il velo, si sentiva imprigionato in pensieri che nemmeno lui riusciva più a capire.

Il senso di soffocamento era prossimo all’arrivo.

Ma c’era solamente lui, nudo in una stanza buia. C’era solamente lui sotto un velo nero.

 

Fuori i lampeggianti dei mezzi di soccorso illuminavano le strade. Il centralino del centododici era intasato per le numerose chiamate. Milano faceva i conti con un terremoto di media intensità, gli abitanti erano spaventati, anche se in città c’era stato soltanto qualche lieve danno. Così la vecchia portinaia del palazzo di Fabrizio aveva chiesto il sopralluogo dei vigili del fuoco. Una lieve crepa nell’androne l’aveva preoccupata, ma si trattava soltanto dell’intonaco. I pompieri già sul posto decisero di fare comunque un’ispezione piano per piano, suonando a ogni campanello per assicurarsi che tutti gli inquilini stessero bene, seguiti passo passo dall’anziana. 

Giunti all’ultimo trovarono il dottor Minetti sul pianerottolo con la porta di casa spalancata. Sentendo rumore si era affacciato a controllare le scale. Appena vide i vigili chiese subito aggiornamenti riguardo la situazione.

«E qui?» domandò nel frattempo uno dei pompieri fermo davanti all’appartamento di Fabrizio.

«No, lì non c’è nessuno, l’architetto è andato fuori città» rispose la portinaia.

«Bene» fece l’uomo «allora abbiamo finito. Rientriamo!»  gridò verso il collega intento a parlare con il dottore. 

La donna scese con loro, e curiosa buttò un occhio dentro casa di Minetti. In fondo al corridoio c’erano due valigie. Dopo qualche scalino si voltò pensierosa verso la porta di Fabrizio, ma vedendo i vigili del fuoco allontanarsi allungò il passo. Non voleva farseli sfuggire.

Immagine generata con DALL-E
“a modern apartment with an all-black minimal design, painted in the style of de Chirico”