Dita di muschio

Z Aveva gli occhi di pietra verde levigati dalle notti senza sonno.

Dentro a quelli di A, di un blu temporale, parevano rimbalzare come sassi sull’acqua.

L’assenza di riposo aveva disegnato dei pesanti oboli viola intorno alle orbite, la pelle tesa sopra le guance magre.

«Mi piace qui».

Sedevano sulle sponde pigre del lago, i vestiti scaldati dal sole giacevano tra l’erba alta. In lontananza, il gracidare assordante delle rane e il fruscio delle chiome gravide degli alberi. 

«Perché non dormi?» chiese lei allungando un piede verso il suo viso.

Quella mattina A si era passata due mani di smalto rosso sulle unghie, un colore che non le apparteneva. 

«Non ho sonno» aveva risposto lui morsicandole l’alluce squadrato.

«Mai?»

 «Mai».

Non si guardavano direttamente. Z osservava la figura sottile di lei nella superficie densa dell’acqua, mentre A studiava i lineamenti di lui riflessi sulle posate sparse nel prato. Di tanto in tanto, le pareva che qualcosa nei tratti di Z mutasse colore.

I loro corpi, nudi e bianchi, erano massi di sale tra l’erba e i canneti. 

«E come vivi?»

Lui si era tolto il dito di lei dalla bocca e si era alzato in piedi. La testa rasata era percorsa da tagli spessi e regolari, come il disegno sui vetri di una cattedrale. Alcuni non si erano ancora completamente rimarginati.  «Dermatite da stress» le aveva detto.

Z si era avvicinato al pontile, le labbra si erano mosse, rapide, poi era tornato indietro. 

Il suo passo proveniva direttamente dalla terra, ancorato al fango sul fondo dell’acqua come alghe morbide. Si era inginocchiato dietro di lei.

«Aspettando che mi venga sonno» le aveva sussurrato tra le spalle.

A si era lasciata cadere sul suo corpo, rimanendo sorpresa nel sentire quanto fosse freddo. Non si erano ancora tuffati.

«Quando è cominciato?»

Lui aveva preso ad accarezzarle la pelle arrossata delle braccia, un moto ondoso e gentile.

«Un mese fa, più o meno. Credo fosse aprile».

«Magari è la primavera»

 «Magari».

 

Qualche ora dopo A dormiva tra le gambe lunghe di Z, il cielo aveva cambiato colore. L’odore dolciastro del corpo tiepido di A gli riempiva le narici. Z lo osservava muoversi pacifico nel sonno, il tempo cadenzato dal suo respiro e dal suono delle onde che arrancavano lente sulla riva. 

Le sue dita non avevano smesso di muoversi, tracciando rotte sempre nuove fin dove riuscivano ad arrivare. L’unica volta che si era fermato, lei aveva preso a tremare e lui si era domandato come avessero fatto le sue mani a vivere fino a quel momento senza la pelle livida di A da accarezzare. Aveva le labbra secche.

Quando erano spuntate le prime stelle e i grilli si erano uniti alla sinfonia delle rane, Z aveva iniziato a baciarle i capelli.

A ogni bacio, sentiva la saliva montare. Era eccitato, pieno di tenerezza. Affamato. A ogni pressione esercitata sul viso di A, un rivolo spesso di bava si allungava dalla sua bocca luccicando al chiarore della notte non ancora inoltrata.

Lei aveva aperto gli occhi. Lo fissava immobile leccarle le guance, il collo, poi le spalle. Il tocco di Z era cambiato, i movimenti dolci del meriggio ora erano robusti, quasi violenti. A, impassibile, rimaneva aggrappata ai suoi polsi fini.

Dopo qualche minuto aveva iniziato a sentirsi bagnata. La saliva di lui la ricopriva interamente. Come aveva fatto a raggiungere le ginocchia da quella posizione?

Era uno strato spesso e pesante di bava fredda e viscosa. L’avvolgeva come la tela di un ragno, come coperte rimboccate con cura dai sensi di colpa di un genitore presente solo di notte.

A giaceva inerte sul prato. Le posate sporche del pranzo disegnavano il profilo dei loro corpi, un rituale.

«Voglio che mi parli, A»

«Vorrei avere paura»

«Ma non ne hai, vero?» la voce di Z era di velluto, gelida.

«No».

 

Durante una delle sue passeggiate solitarie per il bosco, A aveva conosciuto un’anziana signora dai capelli d’erica. La diffidenza del sentiero aveva subito lasciato spazio a uno strano riconoscimento, come un odore familiare, e A aveva accettato l’invito di lei per un caffè nel suo piccolo casale sulla collina.

Quando la moka aveva iniziato a gorgogliare, la conversazione si era spostata all’astratto.

«Mi capita di fare lo stesso sogno» aveva detto A rigirando il cucchiaino nella tazza vuota davanti a sé «non spesso, però succede».

«Dai tuoi occhi bui, credo tu stia parlando di un incubo. Sbaglio cara?»

Le dita di A si erano irrigidite. Non si era ancora abituata alla voce della signora. Proveniva da un altro luogo, un altro tempo: una caverna percorsa da rocce appuntite e coperta di muschio soffice. 

«Forse. È più una sensazione. L’assenza di controllo. Mi blocco sempre allo stesso punto. Mi sveglio sapendo che avrei potuto fare qualcosa, ma agisco sempre nello stesso modo. Questa consapevolezza emerge solo al risveglio».

L’anziana aveva serrato le labbra violacee prima di aprirle in un sorriso sghembo.

«I sogni sono più semplici di quanto pensi, bambina. Sapere quando agire è un dono che va coltivato, come prendersi cura di un orto. Servono pazienza, dedizione e un pizzico di saggezza».

La voce dell’anziana si insinuava in ogni fessura, dentro e fuori le pietre della casa, dentro e fuori il corpo di A.

 «Ti svelo un trucco, qualcosa per cominciare».

A aveva abbandonato il cucchiaino sul piatto, una goccia di caffé camminava timida verso la tazza.

«Durante la giornata, guardati la mano. Destra o sinistra non importa, ma quando inizi con una  ti consiglio di usare sempre quella. Chiudila a pugno e aprila lentamente, un dito alla volta. A ogni dito, ogni movimento, conta. Così».

La vecchia aveva appoggiato l’avambraccio sul tavolo, la mano chiusa davanti alla tazzina di A.

Pollice «Uno», indice «Due», medio «Tre», anulare «Quattro», mignolo «Cinque».

A non riusciva a distogliere lo sguardo dalle dita dell’anziana signora. La pelle le ricordava un’antica pergamena di carta sottile attraversata da storie e leggende dimenticate.

 «Nei sogni, cara, il numero delle dita non è mai corretto. Potresti averne di più o di meno. Io solitamente ne conto sette, ma è diverso per ognuno di noi».

A si era portata le mani davanti al viso. Le girava e rigirava, come se le osservasse per la prima volta.

«Provaci, bambina. Mal che vada ti svegli».

Delle linee attraversarono le dita di A, dalla punta ai polsi. Correnti sotterranee blu oltremare.

«Arrivare dall’altra parte di noi stessi non è mai semplice. Questo sogno vorrà sicuramente dirti qualcosa. E cosa sono i sogni se non verità che temiamo di ascoltare?»

Prima di incamminarsi nuovamente verso il pontile, Z aveva accompagnato con dolcezza la testa pesante di A sul prato, scrutando le lentiggini che punteggiavano quel corpo freddo e bianco come foglie di noce sulla superficie ghiacciata di una pozzanghera.

Gli occhi di A serpeggiavano frenetici sotto le palpebre chiuse. Le aveva passato il dorso della mano sulla fronte, lieve, poi si era alzato, lasciando che l’ultimo sole l’avvolgesse.

In piedi sul pontile, Z guardava l’immagine che il lago gli restituiva. Un corpo sottile, eppure solido. Sicuro.

Aveva alzato lo sguardo verso le cime degli alberi sulla riva opposta, il canto delle rane congedava il giorno. Z si era tuffato senza fare rumore.

 

Quando A si era svegliata, il crepuscolo aveva tinto il cielo di sangue.

Si era toccata le gambe, il ventre, le labbra. Asciutta.

Si era alzata in piedi e aveva seguito le impronte lasciate da Z tra l’erba alta. Non che ce ne fosse bisogno, percepiva il suo odore nell’aria della sera.

Come Z prima di gettarsi in acqua, anche A si era guardata a lungo. Aveva teso le braccia verso l’alto lasciando che la brezza la circondasse. La luce proiettava strane figure sul legno vecchio del pontile, simili a quelle che avevano attraversato il volto di Z qualche ora prima. 

Aveva chiuso le mani in due pugni duri e lentamente le aveva calate davanti a sé. C’erano tutte. A aveva sorriso e si era seduta, immergendo prima una gamba e poi l’altra. “Destra o sinistra, non importa”. La sua pelle non aveva opposto resistenza. Gli occhi si erano dilatati mentre cercavano Z tra i cerchi proiettati dal ritmo dei suoi piedi che finalmente erano tornati suoi. Quattro lunghe dita umide unite da una membrana sottile si lasciavano solleticare dalle alghe. Lo smalto rosso stonava sulle zampe arcuate.

A aveva spalancato le narici e l’aria di fine estate si era insinuata dentro la sua testa, facendole balzare gli occhi fuori dalle orbite. Erano ancora più scuri, una tempesta estiva.

La brezza era diventata vento e si era lanciato tra l’erba e le foglie, scuotendo le cime degli alberi e i loro frutti. Era ora.

A aveva alzato di nuovo le braccia, questa volta fermandosi alla testa, e aveva incastrato le dita lunghe e magre tra i capelli. Le aveva affondate nel cranio e aveva iniziato a tirare. La pelle si era aperta senza opporre la minima resistenza, scivolando verso i gomiti come le spalline di un vestito di seta. Una volta nuda della sua umanità, aveva lanciato quello che rimaneva del suo involucro di carne verso il giaciglio che aveva condiviso con Z. 

La sua pelle di rugiada luccicava sotto la luna. Le lentiggini avevano lasciato spazio a macchie simili a pozze buie, la pancia si era gonfiata e la sua lingua, rapida, aveva catturato una mosca annoiata.

I piedi di Z si erano finalmente affacciati sul pelo dell’acqua, libellule argentate.

A aveva gonfiato di nuovo la pancia. 

« Cosa ti ha detto, prima?» aveva  sibilato al lago. 

« Non importa, avete già deciso»

A aveva chiuso gli occhi prima di gettarsi dove la notte si era già tuffata. Sentiva la saliva riempirle la bocca.

« Uno, due, tre, quattro, cinque».

Immagine generata con DALL-E
“an elderly lady’s arm is resting on a table and her hand is open as if she were counting, next to it there is a cup of coffee, painting in the style of Caravaggio”