Un cuore in bianco e nero

UNO – ANAMNESI 

«Fra’, secondo me è il cuore!» 

Ettore Omeri non è un medico. Oggi, però, dialogando con il suo amico Francesco Spero (lui sì, medico, e suo medico personale) si sente sicuro quasi avesse una specializzazione in cardiologia. 

Ettore non solo non è un clinico, ma è un copywriter. Eccelle quindi, al contrario di un dottore, in emozionalità, tendenza a raccontare storie e situazioni in modo iperbolico, fatalismo e pensiero magico tipico di chi scrive in modo poetico, ma senza la profondità per scandagliare tutte le sfaccettature di questa poesia. 

Ché, altrimenti, non sarebbe un copywriter, ma uno scrittore. 

Eppure oggi, ebbro di induzioni sintomatiche e deduzioni logiche, ha la certezza di essere malato di cuore. 

«Perché ne sei così sicuro?» risponde il medico, quello vero, che ha esperienza con gli eccessi di zelo paranoico dei poeti, tanto da assecondarli per qualche minuto prima di smontarne i teoremi. 

«Ho palpitazioni, aritmie…» 

«Fermo!» lo interrompe Francesco con saggezza. «Non ti sto chiedendo una diagnosi. Ti sto chiedendo i sintomi, le sensazioni.» 

Con malcelata insofferenza, Ettore snocciola in modo empirico: momenti di ansia, che non sono attacchi di panico, più momenti di smarrimento esistenziale che si traduce in battito accelerato e la sensazione che a un certo punto il cuore smetta di pulsare per qualche secondo, per poi ricominciare più veloce di prima. Insonnia, pensieri cupi che sopraggiungono dopo il tramonto, a volte anche un’immotivata voglia di piangere, ma sempre legata alla sensazione che il cuore non lo supporti come dovrebbe. Una sorta di tristezza che, lui lo sa, potrebbe essere dovuta a un livello di ossigenazione del sangue non adeguato e… 

«Ti fermo di nuovo.» 

Ettore obbedisce al suo medico, inspira forte ed evita che i sintomi narrati vengano somatizzati in quel preciso istante. D’altronde, la voce stessa di Francesco è quasi terapeutica e, in tono pacato e baritonale, tende quasi a ipnotizzare l’ascoltatore e astrarlo dalle proprie ansie. 

Francesco è uno pneumologo ma, pensa Ettore, avrebbe dovuto specializzarsi in psichiatria. Avrebbe guadagnato molto di più rispetto a quanto spetti a un medico della mutua. «Ettore, mi stai descrivendo i sintomi di suggestioni psicologiche. Potrebbe essere soltanto stress, devi solo stare attento che non si autoalimenti o si cronicizzi.» 

«Non sono depresso!» scatta l’altro, pescando al centro delle circonlocuzioni dell’amico. «Il mio è un male fisico. Davvero. Ti sto solo chiedendo di prescrivermi qualche esame specialistico.» 

Poi, sfruttando una pausa scenografica ma persuasiva, chiosa: «Non voglio fare la fine di mio padre. Tutti sottovalutavano i suoi sintomi, gli davano del paranoico. Quando ha avuto un infarto, con lui non c’era nessuno. Mia madre non se l’è mai perdonato.» Francesco, davanti al più bieco dei ricatti morali, cede con rassegnazione. «Ti mando dal Porcilai. Poi fammi sapere.»

DUE – DIAGNOSI 

A dispetto del cognome bucolico, il professor Armando Porcilai è uno degli italiani più autorevoli tra gli esperti del cuore a livello internazionale. 

È primario di cardiologia al San Martino di Genova e amico fraterno di Francesco Spero. Così amico da scomodarsi personalmente per visitare il suo strampalato paziente, candidatosi al Guinnes dei primati per il check-up più inutile dell’ultimo decennio. «Signor Omeri, mi sento davvero di rassicurarla!» esordisce il luminare con un sorriso bonario, mentre indica a Ettore la sedia e attende che si accomodi prima di prendere posto sul suo scranno imbottito. Un gesto di educazione che rasenta la magnanimità, commenterebbero i suoi specializzandi. 

Il professore ha in mano una cartellina ed Ettore vi protende lo sguardo come un gatto a digiuno che stia annusando la scatoletta dell’umido appena aperta. 

Il Prof lo osserva, da dietro l’opulenta scrivania di rovere. Tentenna un po’ con malcelato sadismo, poi estrae i fogli e inforca un paio di occhiali dalla montatura quasi invisibile. «Come le dicevo: lei ha un ECG da maratoneta, satura a novantanove e anche l’eco-cardio…» sfoglia gli A4 appena estratti dalla fascetta «…ci restituisce un quadro sano, normale, sia morfologico che ritmico.» 

Ettore sbuffa e si appoggia allo schienale. Anzi, si lascia quasi cadere. Vive il contrasto tra un oggettivo sollievo e una sinistra, ulteriore apprensione. 

Sì perché l’idea di una evidente anomalia cardiaca avrebbe scongiurato qualsiasi dubbio sulla sua mente, ipotesi che, invece, torna a bussare in modo inquietante alla porta della sua coscienza.

E realizza che è questa la sua paura più grande: quella di sentire la parola più tagliente che un medico possa pronunciare. Depressione.

Il male del decennio. 

Il cancro dell’anima. 

Mentre questo vortice di pensieri sconvolge l’ecosistema psicologico di Ettore, il professore sorride e si lascia scappare una battuta innocente, sottovalutandone l’impatto potenziale. «Se vogliamo, l’unica vera stranezza…» appunta ridacchiando, mentre con la mano fa scivolare uno dei fogli sulla scrivania, a favore del paziente «… ecco… per l’eco-cardio abbiamo usato una nuovissima tecnologia. In pratica, oltre all’immagine ecografica in presa diretta, facciamo elaborare la lastra all’intelligenza artificiale, che ci restituisce…» rallenta e indica la figura, aggiustandosi gli occhiali con l’altra mano «…una ricostruzione fotografica del suo cuore, di fatto uno scatto a cuore aperto. È molto utile per avere informazioni in più e, soprattutto, per poter anticipare problemi futuri attraverso segnali deboli che l’occhio umano…». 

«Professore, la prego!» lo interrompe brusco Ettore, con la fronte umettata di sudore freddo «Di quale stranezza parla?» 

Continuando in buona fede a sogghignare, il medico confessa: «Ma niente, per la prima volta da quando usiamo questa nuova tecnologia…» scuote la testa, quasi a soppesare le parole «…l’immagine del cuore è in bianco e nero!» 

Una curiosità, un’anomalia tecnologica di cui sorridere, penserebbe chiunque non fosse proprietario del cuore in questione. 

Ettore resta fisso, la bocca aperta come l’astante di una lap-dance acrobatica. «Ma non tutta l’immagine, vede?» insiste il primario, in un moto di cinismo involontario. «Solo il cuore è in bianco e nero. Il contesto, le vene e le arterie connesse, sono colorate normalmente!» e giù di risatine inopportune.

Trascendendo dallo stupore al panico, Ettore fissa Porcilai e gli chiede balbettando: «C…che cosa può significare?» 

Solo in questo momento il luminare capisce che, forse, questo paziente non è un normale adulto con cui si possa scherzare del difetto tecnico di un computer. Quest’uomo dovrebbe vedere subito uno psicologo. Forse anche uno psichiatra. Certo, ridere di questo evento non è cosa opportuna e il primario cambia tono di voce, infierendo in modo definitivo sull’immotivato senso di pericolo del suo paziente. 

«Guardi che lei sta bene…» dice ora con voce più calda, con le labbra sottili allineate in un segmento dritto, a metà tra lo stupore e il sarcasmo. «Non mi dirà che si sta preoccupando per questa cosa? È un semplicissimo problema tecnico.» 

Ettore deglutisce senza rispondere. Il pensiero ricorsivo disegna spirali nella sua testa, un pentagramma elicoidale di note distoniche, che offuscano di rumore i suoi pensieri impauriti. L’intelligenza artificiale non sbaglia. Ne sa più di noi. Siamo noi che non capiamo il criterio con cui sceglie le sue rappresentazioni. È del tutto capace di produrre metafore. 

Che cosa sta cercando di dirmi? 

Ettore, pallido come la nebbia, si congeda dal medico e il saluto è madido di imbarazzo. Si immagina già, a casa, a cercare su Google “acromia cardiaca” in modo compulsivo, per inquadrare se stesso in una qualche plausibile casistica. 

Per dare un nome clinico e oggettivo al proprio disagio. 

Perché, se si vuole guarire davvero, la prima delle condizioni necessarie è quella di stare male. 

TRE – FOLLOW UP 

«Mi prendi per il culo?» 

La domanda, retorica, di Francesco Spero all’amico è così carica di rabbia da creare il classico momento di silenzio collettivo, in cui tutti i frequentatori del bar Berto, accomodati nei tavolini all’aperto accanto al loro, si girano di scatto. 

L’eco della voce di Francesco drammatizza ancor più la situazione, rimbalzando sui palazzi di Piazza delle Erbe: un piccolo colosseo rettangolare, in cui Genova si svela tra volti di persone, bicchieri di birra e amari Camatti. 

Ettore lo guarda spalancando gli occhi, nel pieno del disagio. Quegli occhi ormai tendono ad aprirsi sempre, sull’abisso di emozioni incontrollabili e, incastrati in un volto magro e contornati da due occhiaie croniche, sembrano quasi voler schizzare via. Sembrano spingere per allontanarsi il più possibile dalla mente di quest’uomo, la cui influenza allucinatoria li forza a vedere cose che non esistono. 

«E non gridare, per Dio» 

«No, Ettore…» l’amico torna a un tono più riservato e conciliante, protendendo il capo oltre il boccale di birra rossa, consumato a metà «…io non voglio credere che tu stia dicendo sul serio» 

«Ti dico che tutto torna.» 

Il dibattito è in salita per Ettore: convincere un uomo di scienza che un incantesimo surreale abbia la dignità di una diagnosi non è cosa facile, ma lui mette tutto se stesso, novella Cassandra in un mondo che ignora il suo male fisico, tacciandolo di fragilità interiore. Inizia a sproloquiare, parlando in velocità.
Spiega come da un po’ di tempo si senta distaccato dalla vita, poco coinvolto nei progetti e

nelle emozioni in generale. Un corpo inerte, straniero al mondo, che reagisce solo a piccole epifanie quotidiane, come le chiama lui. Ma reagisce male. 

Un vecchietto che mangia una caramella, come momento di ristoro su una panchina. Un padre che fa volteggiare il proprio bambino, facendolo sorridere. 

Un maltese con occhi grandi come bottoni neri, che lo guarda scodinzolando. Tutte cose che dovrebbero suscitare un sorriso o, al più, una commozione benefica, spalancano di fronte a Ettore l’abisso di pensieri disperati. 

Non suscitano in lui empatia, ma paura. Paura che qualcosa di terribile sia destinato ad accadere, strappandoli alla felicità con violenza. Ma anche paura nel riconoscersi così diverso da loro, vivendo come un’isola arida in cui Ettore Omeri è l’unico essere umano ad aver fallito nella costruzione di sé. 

Un “uomo assurdo”, lo definirebbe un certo filosofo, ma senza gli strumenti per dare un senso questa assurda presenza nell’universo. 

«Ettore, cazzo, non giriamoci intorno. La tua è una forma di depr…» 

«Fammi finire!» lo interrompe con violenza. Sì perché quella parola è bandita. È Lord Voldemort, il male impronunciabile, che lo spaventa e lo spinge alla negazione. «Tutte queste manifestazioni di tristezza sono sempre legate a una specie di accelerazione irregolare del battito…» continua Ettore, guardandosi e battendosi il petto, e bisbigliando in una cornice di gestualità isteriche «…e ora l’intelligenza artificiale ha visto quello che la scienza non è mai riuscita a cogliere! Il mio cuore funzionerà anche bene come pompa, ma non ha più colore! Non sa più… iniettare gioia e…» 

Sbam

Pugno di Francesco, moderatamente forte, sul tavolo e, di nuovo, sguardi imbarazzati del pubblico in una nuova ondata di silenzio forzato. 

«Devi smetterla!» lo appella l’amico, sempre più perentorio. «È nella tua testa questo corto circuito che stai vivendo. Non nel tuo cuore. E te lo dice un medico, non un poeta» Ettore, deformato in contrazioni facciali che lo invecchiano di dieci anni, osserva e ascolta l’altro restando in silenzio. Ma sudando freddo. 

«Il tuo cuore non può essersi… scolorito!» incalza Francesco. «Il cuore ha una funzione meccanica e tutti i tuoi parametri sono re-go-la-ri.» 

Ettore apre lievemente la bocca, come ad accennare una risposta, ma non gli viene dato il tempo. 

«No! Non ha senso. Nessun medico accetterebbe mai di fare quello che stai chiedendo. È una cosa semplicemente folle.» 

Il malato, che si aggrappa a un’illusoria fisicità del proprio male, volta lo sguardo di lato, sbuffando dal naso, come fanno i cani quando accettano un rimprovero con disappunto. Dopo alcuni secondi di sospensione, Ettore ci riprova, ma ancora una volta non riesce a interrompere la requisitoria del suo amico. 

«L’ho detto e lo ripeto. Non ti farai aprire in sala operatoria, alla ricerca… non si sa di cosa. O per vedere se il tuo cazzo di cuore ha cambiato colore» 

Francesco dice questa frase abbassando la voce. Poi chiosa secco, bisbigliando e avvicinandosi ancora di più a lui. 

«E non dirai a nessuno di aver pensato davvero a questa stronzata. Perché è da TSO.»

QUATTRO – SALA OPERATORIA 

«Bisturi!» mugugna il Prof. Italo Balla da dietro una mascherina, assecondando il più classico stereotipo da fiction ospedaliera. 

Tutto, nella sala operatoria di Villa Santa Teresa, somiglia al set della più nazionalpopolare serie televisiva. 

Villa liberty adagiata sui colli della riviera di Levante, in cui tutto è pulito e in ordine. Una dimensione parallela in cui il paziente diventa cliente e in cui basta una manleva per sconfessare Ippocrate. Manleva in cui Ettore Omeri ha firmato la totale declinazione di responsabilità dello staff medico, ma ha preteso una contropartita: una volta aperto, un membro del team avrebbe girato un video del suo cuore, allo scopo di verificarne il colore senza il filtro dell’intelligenza artificiale. 

Solo a fronte di quella prova incontrovertibile il povero Ettore si sarebbe rassegnato a sdoganare la parola “depressione” e a seguire i consigli del suo amico Francesco. Il quale, per la cronaca, non gli ha più rivolto la parola dopo il violento dialogo al bar Berto. Ma oggi è lì, senza neanche averlo avvisato, seduto in un’elegante sala d’attesa dai soffitti affrescati, a fissare il vuoto, impotente. 

In sala operatoria è tutto pronto: il professor Balla, capo dei chirurghi, redarguisce il suo giovane delfino: «Che cosa fa, Dottor Sileri?» 

Quasi balbettando, quello risponde: «Beh, professore… pensavo di fare un’incisione meno… invasiva, che consentisse di scorgere il cuore senza…» 

Il “no” cinico del professore lo ammutolisce. 

«Le clausole del contratto sono chiare. Il cliente…» sì, l’ha definito proprio così «…vuole che apriamo la cassa toracica come se dovessimo trapiantare. Poi giriamo un video accurato in cui sia visibile all’occhio di chiunque che l’intelligenza artific…» e qui, timida nei toni ma risoluta nell’intenzione, una giovane dottoressa interrompe il primario. 

«Ma, professore…» 

Balla volta lo sguardo con lentezza teatrale, nascondendo dietro la mascherina il risentimento per essere stato interrotto da una matricola. 

«Secondo lei non avremmo dovuto…» incalza impaurita, ma coerente con se stessa «…cercare di dissuaderlo in tutti i modi? Voglio dire, una persona del genere andrebbe indirizzata a uno psichiatra, è una questione…» 

Il chirurgo la osserva con aria di sfida. 

Lei si blocca. 

Lui la osserva in silenzio per qualche secondo, poi torna all’altro, in uno sprezzante gesto di implicita vittoria. 

«Dobbiamo quindi praticare l’incisione orizzontale, assecondando la muscolatura pettorale a partire dall’ascella, poi scoprire la cassa toracica e dilatarla…» 

«Prof!» 

Rieccola, impetuosa, incapace di inibire i propri ricettori morali. 

«Non potremmo almeno evitare di deformare lo scheletro? Voglio dire, possiamo benissimo fare il video attraverso le costole e…» 

«Grazie, Dottoressa!» la interrompe lui, con calma artefatta. «Può andare. Da qui in poi non è necessario essere così tanti.» 

Un silenzio annichilito raggela tutti e cinque i membri dell’equipe. 

Il professore sente i primi vagiti di un ammutinamento, così gonfia il petto e riprende il controllo.

«Signori, per quanto possano risultare incomprensibili, le richieste del paziente…» ora non è più un cliente «…sono chiare. E noi abbiamo il dovere di rispettarle. C’è un patto di fiducia. E questo signore si è rivolto a noi perché siamo i migliori. Si sente tutelato nel mettersi nelle nostre mani, e queste vostre titubanze lo farebbero seriamente dubitare della propria scelta.» 

Italo Balla impone tutto il suo metro e novanta di minacciosa presenza, indurito dalla voce baritonale e roca, e dalle sopracciglia ispide che affilano la forma degli occhi giudicanti. L’anonima ma virtuosa dottoressa si volta di scatto e abbandona la stanza, lasciando presagire che da quella porta non rientrerà più. 

Il resto dello staff si limita ad abbassare lo sguardo. 

Passa qualche ora e, quando le interiora del povero Ettore sono ormai a cielo aperto, l’obbediente Dottor Sileri avvia la registrazione dal proprio smartphone. Inizialmente timido, quasi riluttante, riprende la scena a distanza di sicurezza, poi, prendendoci gusto in modo inconfessabile, avvicina la camera ai ventricoli, a beneficio della veridicità della scena. A ogni passaggio della mano tutto il team, incluso forse il burbero professor Balla, trattiene il fiato per l’eccitazione, mentre la radio continua con il suo repertorio, conferendo alla scena un gusto macabro e frivolo allo stesso tempo. Soprattutto quando il cameraman inizia a sincronizzare, in modo inconscio, le proprie movenze con il ritmo della musica. 

Se Ettore non fosse privo di sensi, che cosa penserebbe adesso, guardandosi intorno? Dall’altra parte della grande porta tagliafuoco, si allontana indignata la dottoressa, che in verità anonima non è proprio per niente: si chiama Silvia Sarti e, finalmente, ne è del tutto consapevole. Accelera il passo con fierezza e prende le distanze da tutto, fiera di abbandonare tutta quella decadenza. Ma rallenta la propria marcia quando, percorrendo il corridoio, capita davanti alla sala d’aspetto e il suo sguardo si posa sulla figura appassita di Francesco Spero. 

Si spettina, lui, affondando le dita tra i capelli per sopportare una violenta emicrania, mentre Silvia, ancora vestita del grembiule chirurgico, cade in quell’immagine come in una rivelazione: è un istante che si dilata, in cui anche Francesco si volta e i loro occhi si incrociano, congelando i rispettivi dolori e mettendoli in sintonia, come se un diapason desse loro istruzioni. 

Lei, di colpo, sente come un sapore amaro, che la disgusta e la spinge a una reazione: è il sapore della solitudine. 

La propria solitudine: di donna in un mondo di maschi, di medico in un mondo di affaristi. La solitudine di quell’uomo in sala d’attesa, completamente in balia degli eventi. E, dentro la sala operatoria, l’ultima e più spietata di quelle solitudini: quella di Ettore Omeri, disceso negli inferi della paranoia, alla ricerca della sua anima perduta. Silvia Sarti stringe i pugni e, spinta da un moto di ribellione razionale, inverte la marcia e torna alla sala dell’operazione con piglio rivoluzionario. 

Giunta alla porta tagliafuoco la apre di scatto, ma il clang della grossa maniglia fa girare tutti di soprassalto, ottenendo un effetto indesiderato. 

Tutti si spaventano, chiudendosi nelle spalle. Anche il dottor Sileri, che in questo preciso istante è nel pieno del suo zelo creativo: trasalisce e, in un gesto convulso, lancia il telefono in aria e questo, roteando come una sega circolare, compie una parabola millimetrica per poi rovinare sull’aorta di Ettore, davanti agli sguardi agghiacciati di tutti i presenti. Dopo, solo uno zampillo rosso e un bip che, da intermittente, diventa tragicamente continuo.

Solo il “no!” disperato di Silvia rompe quel silenzio surreale, riecheggiando fino a richiamare l’attenzione dell’impietrito Francesco Spero, che di slancio abbandona la sala d’attesa e, terrorizzato, raggiunge questo tragico teatro dell’assurdo.

Ecco, ora ci sono proprio tutti, davanti al corpo dilaniato del nostro Ettore, che a questo punto non è più neanche un uomo, ma una scultura postmoderna. Che, peraltro, rappresenta intimamente ognuno di loro.

Ciascuno dei presenti lo osserva con incredulità e, nel farlo, cerca di non affrontare quella vista, aggrappandosi a pensieri divergenti che potrebbero sembrare irriguardosi, se non fossero un disperato tentativo di fuga dalla realtà. 

Ad esempio, la dottoressa Sarti pensa di ricominciare da capo e scandaglia mentalmente nuove città in cui vivere e nuove università a cui iscriversi. Il dottor Sileri conta i secondi, in attesa che non sia più increscioso recuperare il telefono dal cadavere e, addirittura, prova curiosità per la riuscita del video. Il professor Balla si sforza di ricordare il nome dell’avvocato mentre gli altri membri del team, innominati, prevedono di chiedere un permesso per riprendersi dal trauma. 

La più ragionevole delle digressioni è quella di Francesco Spero che, contraddicendo la propria razionalità, si chiede se il cuore del proprio amico sia mai stato davvero in bianco e nero.

Ma soprattutto, e potremmo dire finalmente, si chiede di che colore sia il suo.

Immagine generata con DALL-E
“a real heart in black and white with red veins, in the style of andy warhol”