Le ottomila battute

23:00

Digitai il tasto Canc e feci sparire dallo schermo del computer le tre righe che, per una quindicina di secondi, avevano costituito l’incipit del mio racconto di Halloween. Lo feci senza rammarico: ero cosciente che anche uno studente del primo anno della più scadente delle scuole di scrittura creativa avrebbe fatto di meglio. 

Alzai gli occhi sull’orologio che zia Emma ci aveva regalato per Natale (a suo dire quel modello vintage era perfetto per la nostra nuova casa, una villa di inizio Novecento che io e Anna avevamo ristrutturato e arredato con uno stile a metà tra il classico e l’industrial) e mi resi conto che ero rimasto seduto davanti al computer per quasi dodici ore (pasti esclusi). Dodici ore in cui ero riuscito a produrre solo una cosa: il nulla cosmico. 

Non che fosse una novità, sia chiaro: erano mesi ormai che non riuscivo a scrivere nemmeno una riga.

“Niente di cui preoccuparsi” aveva cercato di tranquillizzarmi Franco, il mio agente.

Dietro il suo sorriso rassicurante avevo percepito la paura di perdere la gallina dalle uova d’oro: ero pur sempre un autore da milioni di copie a romanzo, e qualche critico si era spinto a definirmi “lo Stephen King italiano”.

“Prova a metterti in gioco con qualcosa di diverso” aveva aggiunto Franco. Lo avevo preso in parola. E così quando, girovagando per la rete, mi ero imbattuto in quel contest di Halloween per scrittori esordienti, avevo pensato che fosse proprio l’occasione che stavo cercando. Avrei gareggiato in incognito insieme a decine di ragazzi alle prime armi, e questo mi avrebbe divincolato dalle aspettative che mi opprimevano. Forse sarei anche riuscito a superare il blocco dello scrittore. Le regole erano poche e semplici: il racconto, a tema horror, doveva rispettare il limite delle ottomila battute, essere pronto per la mezzanotte del primo novembre, e doveva essere ispirato da un’immagine, un fotogramma di un horror di serie b, raffigurante una sorta di suora-zombie.

Un gioco da ragazzi, avevo pensato.

E invece mi sbagliavo. Ero rimasto a osservare quella suora a lungo e non ero riuscito a cavarci fuori niente. La stavo guardando anche adesso. Avevo stampato l’immagine che gli organizzatori del contest mi avevano mandato via e-mail e l’avevo posizionata accanto alla tastiera del computer: la pelle, del classico colore bianco cadaverico di chi è appena risorto dalla tomba (quante volte io stesso ero ricorso a personaggi del genere, nei miei libri!), era martoriata da scuri bubboni e da putride escrescenze violacee; la faccia dava l’impressione di essere sbagliata, che ci fosse qualcosa fuori posto, probabilmente perchè, a giudicare dalle cicatrici e dai punti di sutura che la costellavano, era stata fatta a pezzi, e poi ricucita alla meglio; gli occhi erano due orbite vuote, e la bocca, semiaperta, era piegata in un lieve sorriso, quasi irrisorio.

23.10

Cinquanta minuti scarsi alla scadenza del contest. 

Fottuto orologio: si trattava di un modello di quelli vecchi (anzi, vintage, come diceva zia Emma), e il ticchettio delle lancette che scandivano i secondi riecheggiava all’interno dello studio amplificando il vuoto di idee in cui ero immerso. Bestemmiando sottovoce (non volevo svegliare Anna, che dormiva di sopra) tornai a puntare lo sguardo sulla suora. 

Qualcosa era cambiato nei suoi occhi: ora non erano più delle orbite vuote che fissavano il nulla; ora al loro interno c’erano due pupille, ed erano puntate su di me. 

D’istinto, mi spostai di lato di qualche centimetro con tutta la sedia, in modo da togliermi dalla visuale della suora.

Non appena mi resi conto del mio gesto, scoppiai in una risata. Che cazzata, pensai, mentre il suono della mia voce riecheggiava lungo i corridoi vuoti e tra le stanze della villa. Ma cosa mi prende? Si tratta solo di una suggestione, è tutta colpa dello stress; quelle pupille me le sono soltanto immaginate. Stropicciai gli occhi e tornai a osservare la suora: le pupille erano ancora lì. 

Guardando meglio però, notai che era cambiato anche qualcos’altro.

Era la bocca: ora la suora non sorrideva, ora stava ridendo.

Mi alzai di scatto dalla sedia, e mi voltai dall’altra parte. Rimasi in piedi, immobile, in attesa; forse, eliminando il contatto visivo con la fotografia, quella cosa sarebbe tornata una innocua suora-zombie di un film di serie b. Sì, sarebbe certamente andata così: mi sarei voltato e tutto si sarebbe rimesso a posto. 

Stavo per girarmi, quando l’occhio mi cadde sul tagliacarte che tenevo sulla mensola accanto alla scrivania. Lo afferrai e lo strinsi forte in una mano. Non si sa mai, pensai. 

Poi, finalmente, mi voltai. 

Con orrore, vidi che la bocca della suora si stava aprendo. Da quella voragine nera, circondata da due file di denti marci, presero a uscire sciami di vermi, scarafaggi e insetti di ogni genere. Le cicatrici che le tenevano insieme il viso si stavano sfilacciando, e i brandelli di carne avevano preso a staccarsi da quella faccia mostruosa. I bubboni del viso scoppiavano, rilasciando rivoli di pus e sangue, che colavano lungo il collo raggrinzito. Un odore di carne andata a male mi assalì.. Rispedii giù un conato di vomito. 

No, non poteva essere. Una cosa del genere poteva accadere nei miei libri, non nella realtà. Perché quello era il mondo reale, no?

Fu in quel momento che la sentii: una risata, prima lontana, poi sempre più vicina; una risata beffarda, che si prendeva gioco di me. Avrei voluto urlare, ma la voce mi si strozzava in gola; avrei voluto fuggire via dallo studio, dalla villa, ma i miei muscoli erano paralizzati. 

«Amore che succede?»

Mi voltai verso la porta. Sulla soglia dello studio c’era la suora, in carne ed ossa. 

O meglio, quello che ne restava: davanti a me infatti c’era una massa informe, il cui unico tratto umano, se tale si poteva definire, erano gli occhi, implacabilmente puntati su di me. Il resto del corpo era ricoperto da una moltitudine di creature immonde: esseri dai corpi deformi, scherzi della natura dotati di crani enormi e centinaia di braccia, animali che urlavano e piangevano con voce di neonati, uccelli che nel becco lunghissimo stritolavano feti umani. 

Quella che un tempo era stata la suora, quella cosa, avanzò verso di me: non lentamente, come mi sarei aspettato che succedesse in qualsiasi horror che si rispetti, ma con uno scatto improvviso. In un attimo mi fu addosso e, ancora una volta, in mezzo al gracchiare assordante delle creature che ormai formavano una cosa sola con il suo ed ora anche il mio corpo, udii quella risatina beffarda che irrideva me, le pagine bianche del mio racconto, la mia incapacità di scrivere un dialogo che avesse un senso. 

Urlai; non so cosa, ma urlai; quindi mi lanciai su di lei brandendo il tagliacarte. 

Colpii la cosa più e più volte: al petto, alla gola, sul viso. Andai avanti finché non rimasi senza forze.

Quando mi fermai, presi fiato e mi guardai intorno. 

La suora era a terra, immersa in un lago di sangue. Gli insetti brulicanti stavano rientrando negli squarci del suo corpo provocati dal tagliacarte. La risata beffarda si era persa nella notte. L’unico suono nel raggio di chilometri sembrava essere il ticchettio dell’orologio di zia Emma.

Stringevo ancora il fermacarte insanguinato tra le mani. Qualcosa in me era cambiato: mi sentivo più leggero, più libero.

23.20

Tornai a sedermi alla scrivania. L’immagine sul tavolo mi restituì quella della suora dalle orbite vuote, la bocca semiaperta e le mani prive di artigli. Le sorrisi, soddisfatto che fosse tornata al suo posto; a guardarla bene, più che una suora uscita fuori da un horror di serie b, sembrava un’innocua vecchietta.

Mentre Anna moriva dissanguata a meno di un metro da me, cominciai a battere le dita sulla tastiera del computer. 

23.50 Mentre il suono delle sirene delle volanti della polizia si faceva sempre più vicino, terminai il mio racconto. Ci ero stato dentro alla grande: era lungo poco meno di ottomila battute.

Immagine generata con DALL-E
“old photo of a zombie nun”