Noodles, datteri dolci e apnea
La cassa numero tre è la più affollata. Una lunga fila di persone regge la spesa in un abbraccio chiuso, alcuni usano dei cestini gialli. Mi avvicino e gioco a indovinare qualcosa di loro. La signora con i capelli raccolti e il cappotto tartan posa sul rullo una rete di arance, un pompelmo, mele e sedani: centrifugato di vitamine. Imbusta, paga e se ne va con le borse di cotone. La pistola a infrarossi spara su una pila di pizze surgelate, birre, patatine alla paprica nel formato maxi: stasera partita di fine campionato per i ragazzi. Dietro di loro omogeneizzati di pollo, vitello, coniglio, verdure miste, pera e mela, mela e biscotto. La mamma è impacciata, molto di fretta, molto distratta e dimentica di prendere lo scontrino. Forse ha il bambino in macchina. La fila si raccorcia. Un uomo incravattato appoggia sul banco del vino bianco, gamberetti sgusciati, pepe, qualche limone: cena romantica. Ah, una cena romantica.
E poi tocca a me. Ma il cestino non è il mio. C’è della salsa di soia, delle barrette ai cereali, dei mandarini -non comprerei mai dei mandarini, odio i mandarini- e mancano i ceci, i surgelati, la marmellata.
Mi scusi, torno subito. La cassiera annuisce, si lucida sulla casacca le unghie laccate e torna a impallinare di bip bip bip le confezioni di Tampax della ragazza dietro di me. Vago fiutando il percorso a ritroso per trovare il mio cesto: potrei sentire il tuo odore se imboccassi il reparto dei deodoranti, quello al pino silvestre.
Appena conosciuti andavamo a fare la spesa insieme. Te lo ricordi? Ci perdevamo tra le corsie e quando ci ritrovavamo a metà del reparto mi stampavi un bacio in fronte. Te lo ricordi? Mi prendevi la bocca in una mano e mi dicevi: «Con lo schiocco lo voglio, adesso.» Allora io te lo restituivo a beccate quel bacio, e volevo che facesse il botto dello spumante, la tua saliva dolce di bollicine. Avevi le mani grandi, grandi e forti capaci di aprire i barattoli con i coperchi duri che fanno clak. Mani ruvide che tenevano strette le mie, e intrecciate si facevano dondolare avanti e indietro, avanti e indietro. Nella corsia dei frigoriferi mi tiravi via, «Ti prendi un accidenti. Faccio io» dicevi, e io col dito puntato a indicarti «Più su, a destra» lo yogurt ai mirtilli. Mi chiamavi Rondinella. Io sedici anni, tu non lo so. Vivevamo da te, in due stanze con la moquette scolorita che sapeva di terra e calzini bagnati.
Dio, se ti amavo quando mi facevi la cena con i noodles, la nostra cena a gambe incrociate sul letto. Era finito il gas, allora tu avevi preso l’acqua calda dal rubinetto e avevi riempito la scatola con gli spaghetti che si erano gonfiati nel brodo di pollo liofilizzato. Lombrichi albini.
Li pescavi con le bacchette e li aspiravi con la bocca spruzzando schizzi di zuppa sulle lenzuola. Io e te sdraiati, le ore rotolavano via. Le tue sigarette allegre: la prima volta che ne ho provata una avevo tossito forte. «Una cavalla raffreddata» mi avevi detto. Poi era salita la fame e di nuovo giù, tornavamo al supermercato a comprare pacchi di biscotti al burro e Coca Cola. Al market degli indiani dove per pochi spiccioli avevamo trovato il patè di fegato che sapeva di cibo per cani, e infatti lo era. Riempivamo le buste di cioccolato, ciambelle zuccherate, wurstel, tortillas. Ridevamo sgranocchiando patatine, seminando briciole dappertutto. Vicini, impacchettati in una stanza con la carta da parati sgualcita, sotto il muro scrostato. A volte avrei voluto tornare a casa, ma tu mi dicevi che oramai me ne ero andata: non si torna indietro. Non si torna mai indietro. Mi rassicuravi con la tua trapunta di carezze, e la nostalgia passava. Vivevamo il nostro sogno, la nostra- fuga-solo-mia, ché te eri grande e nessuno ti dava per sparito. Di sera la televisione ci illividava gli zigomi con una maschera di luce bluastra; ti assopivi con la bocca aperta e io andavo a lavarmi. Piano, senza fare rumore. Intorno alla doccia mancava la tenda, cercavo di fare in fretta per non mostrarmi nuda se mai fossi entrato; odore di limo, di rane, di muffa, di lattuga appassita, io stretta stretta contro le piastrelle del muro.
Quando uscivo dal bagno eri sveglio sul ballatoio a fumare. Quanto eri alto!
La tua ombra sarebbe arrivata fin su, all’ultimo ripiano dei sottaceti del supermercato. I tuoi occhi liquidi parevano olive in salamoia e si lucidavano di una voglia appiccicosa, sciroppo d’acero: la tua bocca voleva succhiarmi come una fragola matura.
Dapprima le tue dita nei miei buchi, il tuo muso schiacciato nei seni, mi bevevi, masticavi, digerivi. Poi le tue carezze che mi calmavano nell’istante in cui dicevi «Girati, facciamolo. Facciamolo senza».
Senza cosa? pensavo. Senza amore? Ed eri un orso, sembrava ti dimenticassi che pochi giorni prima ero ancora vergine. Tra le spinte, le tue parole sboccate un po’ mi ferivano, mi chiudevano il respiro, mi chiudevi il respiro con le mani al collo. La tua perversione folle. Un boccone di mollica andato di traverso. Facevi durare l’apnea ogni volta di più. Quel giorno in cui le mie unghie nella schiena non ti hanno fatto abbastanza male e io ti ho sputato in mezzo agli occhi e tu mi hai detto «Amore, stavo solo giocando», ecco, quel giorno mi hai lasciata. O almeno, avresti voluto farlo. Non mi compravi più il latte condensato, i datteri dolci, le girelle alla cannella, i grissini con i semi. Ti eri fatto freddo e acre come il gelato alla liquirizia, te lo ricordi quello col coperchio rosso quanto era amaro?
Mi mandavi sola a fare la spesa con la lista smilza, i soldi contati e Vedi di tornare in fretta. Riempivo le borse di cibo già pronto, solo da scaldare: carne in gelatina, cotolette precotte, tonno, scatolame di verdure lesse, purè liofilizzato. Non va bene, non vai bene, una donna deve saper cucinare anche se non lo ha mai fatto. Quindi tornavo indietro e compravo pacchi di farina e allenavo le mani a impastarla con i tuorli; pasta appiccicosa, pasta strappata, stracciata, pasta seccata, pasta indurita. Allacciavo stretto il grembiule: un corsetto col doppio giro annodato sul davanti. I cappi annodati sul grembo che negli anni si gonfiava e sgonfiava di feti abortiti. Nascosti a te, come caramelle nelle tasche. Ti amavo per intero, in tutte le tue contraddizioni, nelle scappatelle in cui sparivi per giorni. Era forse un sollievo non farmi soffocare o una pena per il non sentirti accanto? Chiudevo gli occhi e parlavo al soffitto, farcivo il cuscino di lacrime pregando che tu tornassi. Che tornassi e rimanessi. Nonostante i tuoi malumori, l’apatia, le bugie, le tue mani pesanti. Erano pestello, martello, batticarne. Forse sono così piene d’amore che vanno scaricate in qualche modo, pensavo. Buste stracolme della spesa.
Cancellavo i segni dei baci che macchiavano le tue magliette: il detersivo di Marsiglia profumava il cotone che le altre ti stroppicciavano. Ne compravo sempre un fustino in più, ma non bastava mai a sbiancare i colletti scarlatti di rossetto.
Una tinta rossa per le labbra. Viva e accesa, avevo detto alla profumiera. Della marca Rouge Cannelle, avevo chiesto.
Lo abbiamo finito, signora. Me ne ero tornata a casa con l’impossibile brama di farti innamorare di un colore carminio, confettura alla ciliegia.
Un colore diverso dal mio, di zucchero, panna, latte, riso, bianco candeggina.
Nella tua lista della spesa ero la sottomarca a buon mercato, tenuta in dispensa per quando mancava la primizia.
Ti guardavo ingurgitare la pasta con i fagioli, Buono, amore?
Avevi leccato i bordi del piatto macchiati di sughetto e sbocconcellato tocchetti di pane chiedendone ancora.
«Dove sei stato stanotte?»
«Che ti importa? Mettimi ancora pasta!»
Io avevo obbedito colmando il piatto che alla veloce si era svuotato. Ho sciacquato le stoviglie, rassettato la cucina e ti ho salutato abbrancando la valigia.
«Dove vai?» mi hai chiesto.
«Che ti importa?» ho ribattuto.
Giù per le scale ti ignoravo urlare le peggiori minacce sicché lungo la via ti ho immaginato fatto di alluminio: una lattina accartocciata; con la pancia rinzeppata di veleno per topi e legumi scaduti, contorcerti sul pavimento. Imburrato nel tuo stesso vomito, i visceri annodarsi a patire l’abbandono.
Strizzavo gli occhi per vederti crepare e puzzare di carne andata a male che nemmeno i ratti si sarebbero avvicinati, Vai al diavolo! Nella palazzina avrebbero detto Che razza di sozzone in quell’appartamento! Saresti marcito nell’odore acido di pesce avariato, latte cagliato, uova guastate.
Per qualche minuto avevo camminato spedita. Lo sferragliare del tram faceva il sussulto dei carrelli della spesa quando scorrono sulle giunture del pavimento. A ogni passo perdevo un po’ di lucidità: qualcosa mi sfuggiva. Mi ero fermata a riordinare le idee nell’androne di una palazzina, la valigia leggera. Anzi vuota del tutto. Mi lambiccavo di quanto era appena accaduto e continuavo a domandarmi se nell’acqua della pasta ci avessi messo il sale.
Immagine generata con DALL-E
“a can of food crumpled on the ground, next to a shopping list, oil painting”