Nata con il cappio al collo

Sometimes I feel that I should go and play with the thunder
Somehow I just don’t want to stay and wait for a wonder

The Rasmus

Sono nata con il cappio al collo.

Io non posso ricordarlo, ma mia madre lo racconta spesso: «Avevi due giri di cordone ombelicale e la pelle scura. Ti mancava l’aria, non riuscivi a respirare». E allora penso che il mio rapporto con la vita avesse già preso una piega sbagliata, solo che ancora non potevo rendermene conto, come non sapevo che sarebbe stato più semplice restare a nuotare da sola, in quell’oceano sconfinato che per un feto è il liquido amniotico.

Allora mia madre cerca di sdrammatizzare: «Ti hanno messa dentro l’incubatrice e tu ci hai fatto subito la cacca». Forse quando ero una bambina ridevo, arrivata a questo punto della storia, adesso non so se considerare tale aneddoto un presagio per il mio futuro o il primo vero atto di ribellione di una me che voleva ritagliarsi il suo piccolo spazio nel mondo: un po’ come i cani quando sentono il bisogno di marcare il territorio.

La verità è che, crescendo, l’incubatrice non mi era bastata più: non volevo un cantuccio sicuro, io desideravo esplorare i cieli, conquistare i mari e girare il mondo. Se solo non avessi sofferto di vertigini e non avessi avuto una paura atroce dell’acqua.

Credevo di cadere, bambola di cristallo, e di farmi male: le salite e le discese mi erano nemiche. Pensavo di scivolare e di non poter più tornare in piedi, come se l’asfalto avesse potuto cambiare forma e consistenza, rifiutandosi di accogliere ancora una volta i miei passi, bambola di schegge di vetro. 

E temevo che il mare mi risucchiasse, che le piscine si prosciugassero e che io potessi ritrovarmi da sola nella loro profondità buia e labirintica. Cos’ero senza una ciambella che mi avrebbe permesso di galleggiare?

 

Mentre lottavo, attaccata alle gambe di mia madre pur di non entrare dentro la scuola materna, anche i miei denti canini misero la freccia e, in tutta spontaneità, presero una direzione che non avrebbero dovuto neanche considerare, regalandomi l’ennesimo scherzo del destino: un sorriso sghembo che mi lasciava somigliare a un demonietto timido e impacciato con i denti brutti e storti. E se anche i miei compagni di scuola ridevano di me, cos’ero io senza un amico che mi difendesse dalle storture delle malelingue infantili?

 

Dentro un paesino che mi aveva relegata in un angolo senza luce, io cominciai a sbattere forte le mani, forse volevo volare e raggiungere una terra lontana: un Peter Pan che ha dimenticato la sua polvere magica o un paio di ali da fata. Le sbattevo così forte che la mia fantasia quasi mi prestava ascolto, intenerita da quella manciata di sogni che solo una bambina con la testa tra le nuvole poteva custodire. Cos’ero io dentro una realtà dalla quale volevo solo fuggire?


Una ballerina. Volevo essere una ballerina ed ero pronta a iscrivermi a un corso di danza, finché il cuore mi si spaccò in due metà esatte e non tentai neanche di ricucirle assieme. La verità è che non l’ho mai confessato a nessuno, ma ho sentito mia madre parlare al telefono con l’insegnante di danza, diceva: «Sicura che mia figlia si possa iscrivere al corso? Deve sapere che è molto scoordinata e goffa nei movimenti». L’insegnante rispose che sì, certo, potevo iscrivermi, ma io non l’ho più fatto. Ho pianto, ho pianto troppo: mi sono sentita diversa.

Cos’ero se non una persona goffa, sopra le righe, abitante di un mondo che si muoveva a un ritmo diverso dal mio camminare lentamente per paura di cadere, dal mio sbattere forte le mani, dal mio sognare a trecento chilometri orari?

Non mi sono iscritta al corso di danza, ho pianto, ho pianto troppo, poi mi sono fatta accompagnare in uno dei parchi divertimenti più grandi d’Italia e sono montata sulle montagne russe. Mentre tremavo e l’ansia mi tagliava il respiro, ho salutato le mie vertigini a testa in giù: un addio meraviglioso, che si è concluso solo quando il panorama è tornato dritto e anche io, con lui, mi sono sentita a posto. L’anno dopo ho fatto il mio primo tuffo di testa sorridendo alla superficie cristallina di una piscina olimpionica. Solo quando ho sentito il fischietto dell’arbitro fare rumore ho capito di aver percorso tutta la vasca a rana: avevo appena vinto la mia prima medaglia d’argento.

 

Mentre scrivo o fotografo, immersa nella natura, non mi importa se i miei movimenti siano coordinati o meno, se il mio sorriso non sarà mai comprensibile da tutti coloro che lo guarderanno di sbieco. Tiro fuori dalla tasca dei pantaloni una fototessera sbiadita che ritrae una bambina con la frangetta e due codini. La verità è che adesso lo so, so cos’ero senza una ciambella che mi permetteva di galleggiare, so cos’ero senza un amico che mi difendesse dalle storture delle malelingue infantili, so cos’ero dentro una realtà dalla quale volevo solo fuggire. Non ero una persona goffa, sopra le righe, abitante di un mondo che si muoveva a un ritmo diverso dal mio camminare lentamente per paura di cadere, dal mio sbattere forte le mani, dal mio sognare a trecento chilometri orari.

In realtà ero una bambina bellissima, solo che ancora non lo sapevo e se sono nata con il cappio al collo, adesso ho imparato a sciogliere il mio nodo.

Immagine generata con DALL-E
“focus on a silver medal around the neck of a female swimmer, oil painting”