Il pettirosso

Avevo sette anni quando mia mamma mi raccontò la storia del pettirosso. La chiesa sapeva di incenso e muffa.  Cristo pendeva dal crocifisso di legno con il suo volto afflitto, le spine nere stillavano gocce immobili dalla pelle laccata. 

«Ti ricordi del pettirosso che abbiamo visto? Un tempo si è avvicinato a Gesù e ha provato a strappargli via  una spina. Il sangue lo ha sporcato sul petto bianco e allora il Signore lo ha ringraziato. Quel segno rosso è  un onore per i pettirossi, un privilegio» 

Ero rimasto in silenzio. La gola secca.  

La chiesa era piena di gente, il vociare convulso della celebrazione domenicale appena terminata. Avevo guardato i piedi di Cristo, incrociati l’uno sull’altro, ancorati al legno, il chiodo che li teneva bloccati.  Lo scultore aveva tracciato alla perfezione i margini tra la pelle e il metallo. La carne sbrindellata, esposta  come un cratere. Il nero su bianco, il rosso in mezzo. 

«Poi arrivarono tutti insieme, riuscirono a staccare le spine e lo liberarono dalla corona» mi teneva sempre la  mano, come se avesse paura che potessi scappare da un momento all’altro. Io la stringevo più forte perché  sentivo le gambe cedere. 

Cristo ci guardava dall’alto, tra le palpebre le pupille si intravedevano a stento, il suo dolore esposto. Un  dolore brutale, sanguinoso, uno spettacolo violento.  

«I pettirossi sono fortunati. Porteranno per sempre il premio della sua riconoscenza.» Io non sarei mai stato un pettirosso, perché Gesù mi aveva sempre fatto paura, e nel bere il suo sangue, o nel cibarmi del suo corpo, io non avrei mai provato nessuna salvezza.

Quando esco dalla chiesa mi trascino addosso lo stesso odore di incenso e muffa. Ventisei anni  dopo mi capitava di sedermi tra le panche vuote delle ultime file per osservare il silenzio stagnante che sopravvive solo in quei luoghi sacri. Ho smesso di credere in Dio e nella sua discendenza molto presto, ma la religione mi è stata imposta come un marchio per tutta la vita e ogni tanto prude tra le pieghe dell’inconscio con richieste indecifrabili. Per alleviare il prurito avevo deciso di perdere un po’ di tempo guardando l’altare pieno di gigli della chiesa del quartiere, subito dopo il lavoro. E per dimostrare a me stesso che quelle credenze non avevano nessun potere su di me, chiamo zia Rita, più comunemente conosciuta come la Spiritata, non appena metto fuori il naso dalla casa del Signore.  

«Pronto?» risponde subito, il telefono degli anni Ottanta sempre a portata di mano.  «Zia Rì» 

«Ninù che è successo a zia?» ha la voce scavata dal fumo delle sigarette. 

«Ma allora vieni al matrimonio?» 

«Ma allora over’ si scem’, Ninù. Tu non trovi pace! Ma tu te lo ricordi quanti anni tengo io?  Quest’anno sono novantasei, fumo un pacchetto di Merit al giorno. Se la giornata è storta pure due.  E poi so’ cecata, se devo scendere da casa, lo sai, posso fare poca strada. Fino a Torino come ci  arrivo, va a fernì che facimm’ nu matrimonio e nu funerale.» 

Zia Rita è la sorella di mio nonno, cieca da almeno vent’anni per un rendiconto del destino, a suo  dire. Non metteva un piede in chiesa da quando per la prima volta era andata a letto con un uomo  sposato, secondo mia nonna, intorno ai dodici anni.  

«Ho capito, ma a giocare a carte ci vai tutti i giorni dalle amiche tue.»

«Ninuccio bello se io non ci vado Ada e Lina schiattano domani mattina. Al pomeriggio ci facciamo una chiacchierata, facciamo qualche partita, loro mi dicono che sono troppo brava perché con le dita riconosco le carte e poi ci facciamo un caffè. Così è sempre stato e così deve essere.» 

«E io lo voglio pure capire che per le amiche tue lo fai il sacrificio, ma al matrimonio mio non puoi  mancare. Se non vieni mi offendo io e si offende pure Eva.» 

«Lucià sient’ a zia, tu devi capire una cosa, io con quella gente là, quella massa di lava coscienza a  pagamento non ci posso avere niente a che fare. Tengo un’anima così sporca che se entro io dentro  alla chiesa o’ diavulo se mette a ballà intorno a voi e al sacerdote. Poi tua nonna scende dal  paradiso come San Michele, con una spada di fuoco e mi fa piezz’ piezz’» 

Scoppio a ridere, la calma angosciosa che mi era scivolata sottopelle nella chiesa evapora. «L’invito è sempre aperto, poi io mica ci credo a tutte ‘ste stronzate. Alla fine ci sposiamo solo  perché lo vogliono le famiglie, fai pure tu così, tanto mica ci credi veramente?» Avverto il grattare metallico dell’accendino, poi un tiro. Si prende il tempo di espirare con calma,  l’immagine della sigaretta tra le dita smaltate color corallo si dipinge netta sullo sfondo della mia  retina. 

«Non è vero, ma ci credo Ninù.» 

Quando metto giù con Zia Rita si è fatto buio.  

La statua del genio alato in Piazza Statuto mi osserva dall’alto. Cerco di non sollevare lo sguardo,  ma come ogni volta è impossibile. L’angelo non tocca la terra, le mani sono piegate in una posa  femminea, le dita finissime. La pioggia gli scivola addosso senza intaccarlo. Sulla fronte ha una  stella a cinque punte, ma al contrario.  

Alle medie dicevano sempre che se disegnavi una stella a cinque punte con le corna all’insù  invocavi il diavolo. Ho sempre pensato che il genio fosse Lucifero, l’angelo più luminoso prima  della rivolta, poi ho scoperto che più o meno era così. 

Cammino rapido dando la colpa alla pioggia, sento quello sguardo eterno fisso sulle mie spalle.

Non bastano le mura dei palazzi, non bastano gli infissi, le cancellate. Dietro la prigione di bronzo dei suoi occhi, Lucifero vede tutto.

Quando entro in casa le scarpe sono così bagnate che rilasciano acqua sul parquet.  

«Un ombrello mai, eh?» Eva mi guarda gocciolare da ogni indumento con occhi pieni di  rimprovero.  

«Vatti a lavare che altrimenti iniziamo con la febbre di ottobre.» 

Corro verso il bagno lasciando tutti i vestiti all’ingresso. Mi guardo allo specchio. La pioggia si è  attaccata addosso e la pelle è fredda e viscida.

Chissà se Satana ci vede nudi, con la carne flaccida e i cazzi mosci.

L’acqua calda lava via tutto, il viscidume, la pioggia, la puzza di incenso e muffa. Mi metto il pigiama di tre taglie più grandi per non sentirlo addosso. Eva ha preparato già la cena, nell’aria c’è profumo di non-avevo-voglia-di-cucinare, nel piatto un rosti di patate surgelato e rucola prelavata con qualche pomodorino che saprà solo di acqua. 

«Che mogliettina che mi sono scelto.» 

Mi guarda mentre beve un sorso di vino rosso di scarsissima qualità. Ha i capelli sporchi, il  pigiama addosso da stamattina. La giornata non deve essere stata delle migliori.

«Ho finito di lavorare al pc alle sette, poi ho chiamato quelli delle bomboniere, ma ovviamente  erano chiusi. Allora ho chiamato il fioraio perché mamma mi ha detto che le peonie fioriscono solo da metà aprile alla fine di luglio… Non l’avessi mai fatto» 

«Perché?» 

Mi guarda negli occhi serissima, il pigiama con i cuoricini blu non la sminuisce nemmeno di una  virgola. 

«Tu lo sai quanto cazzo di tempo può tenerti un fioraio a parlare dei fiori per il tuo matrimonio?  Perché è impossibile che in quanto donna non me ne freghi un beneamato cazzo dei fiori che  decoreranno lo stracazzo di altare il giorno del mio matrimonio. Mi ha detto che dovrei decidere in  base ai miei colori, al vestito, ai colori dello sposo» ingoia un pezzo di rosti senza nemmeno  masticarlo. 

«Dice che l’armocromia si applica anche in questo campo, quindi avrebbe preferito vedermi di  persona. Quando gli ho detto che non avevo tempo e che pioveva, mi ha chiesto di mandargli una  foto.» 

Non riesco a non ridere pensando a Eva in pigiama che parla di armocromia con un fioraio. Il suo  sforzo più grande per abbinare colore a colore è quello di usare la Coloreria quando un nero  diventa più stinto degli altri.  

«E tu gliel’hai mandata?» 

«Oh, certo che gliel’ho mandata. Ho mandato la stracazzo di foto che voleva in cui ci siamo  entrambi alla festa di Halloween dell’anno scorso, quando abbiamo fatto Mercoledì e Pugsley» «Speriamo nei crisantemi allora» 

«Beh belli, tua zia Rita approverebbe.» 

Zia Rita approverebbe solo se quei crisantemi fossero abbastanza secchi da poter appiccare un  incendio alla chiesa con l’ultimo tiro della sua trentesima sigaretta giornaliera, ma Eva crede  ancora che cederà. 

«Non cederà» non lo farà, ne sono convinto. 

«L’hai richiamata?» 

«Certo, mi ha detto che se viene al matrimonio poi dobbiamo fare pure il suo funerale» «Vedi allora? I crisantemi sono perfetti.» 

Il divano post cena è prassi consolidata. Ci costringiamo a non scrollare il telefono per metterci a  leggere, ma poi scrolliamo il telefono di nascosto e alla fine guardiamo un telefilm per  disperazione. Fuori piove così tanto che i vetri delle finestre vibrano e lo spazio muto tra un canale televisivo e l’altro si riempie dello scroscio della pioggia.  

Intravedo un cielo amaranto e ripenso all’acqua che cola sul profilo del genio alato. Allontano il  pensiero cliccando compulsivamente la freccetta sul telecomando. Fare zapping non dà più nessun  sollievo, mi indispettisce più di un reel sbagliato in una compilation di gattini o di culi sodi.  «Trovato!» 

Ringrazio la pazienza di Eva che fa partire il telefilm dal cellulare. È la terza serie che iniziamo  nell’ultima settimana, solo che dopo i primi due o tre episodi (in cui puntualmente ci  addormentiamo tra il minuto venti e il minuto trentadue) la cambiamo. 

Prendo il plaid, mi schiaccio su Eva e poggio la testa sull’Oni, il demone giapponese che ha tatuato  sul braccio. Abbiamo deciso di sposarci a novembre anche per non avere problemi a nascondere i  tatuaggi. 

«Ma il vestito quindi ti copre tutte le braccia?» 

È da tempo che non mi soffermo sullo sguardo privo di pupilla della maschera rossa. Ha da così  tanti anni quel tatuaggio che la sua rilevanza, la scelta precisa di imprimerlo sulla pelle, è sfumata  come i bordi del disegno stesso. 

«Non si può dire, però sarebbe un gran bello spettacolo lasciarle scoperte. Così una rivincita su ‘sto  matrimonio del cazzo ce la prendiamo pure noi.» 

Bacio il demone sulle labbra piene di denti affilati e dalla schiena mi parte un brivido che mi  increspa la pelle.  

Mia nonna aveva un angolo sacro in casa, alle pareti un quadro di Gesù Cristo in preghiera, di fronte la  Madonna col bambino. C’era anche una piccola acquasantiera in ceramica con un’immagine di Padre Pio con  le mani fasciate.  

Inchiodati al muro tre rosari: uno di plastica verde, uno in legno rosso, quasi vellutato, e uno fosforescente.  Nonna Maria ne usava uno diverso per ogni rosario recitato al giorno.  

Verde al mattino, rosso al pomeriggio, fosforescente alla sera.  

Al tramonto gli ultimi raggi del sole filtravano dalle tende caricando il rosario della sera, che iniziava a  brillare di un verde intenso. Nonna Maria si sedeva sulla poltrona al buio, tra le dita i grani luminosi. Io accanto a lei.  

Recitava il rituale sacro in latino, non un fiato in eccesso, la cantilena si fermava solo di tanto in tanto per  prendere un respiro leggero. Poi di colpo l’incantesimo si spezzava, la voce si induriva.  

«Tu rinunci a Satana, origine e causa di ogni peccato?» 

«Rinuncio» mi aveva insegnato cosa avrei dovuto dire per evitare che il diavolo avesse libero accesso al mio  corpo, soprattutto quando il sonno mi rendeva incosciente. 

Il rituale per chiudere la porta. 

«E a tutte le sue opere?» 

«Rinuncio» 

«E a tutte le sue seduzioni?» 

«Rinuncio» 

«Credi in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. In Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro  Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre?» 

«Sì, io credo» lo dicevo a voce altissima, scandendo bene le parole, per suggellare quel patto. «E nello spirito santo?» 

«Sì, credo» 

«Allora mo vattenne a durmì a’nonna, che sei protetto» apponeva un bacio leggero sulla fronte e io scappavo  a letto. Quella protezione però durava pochissimo, non appena le luci si spegnevano e il buio riempiva la casa sentivo il diavolo aleggiare intorno. Tiravo le lenzuola sopra la testa, perché da qualche parte, nell’oscurità, immaginavo due occhi di fuoco, la pupilla rettangolare delle capre: era arrabbiato perché lo avevo chiuso  fuori.  

Forse non avevo pronunciato abbastanza chiaramente le risposte, forse nella notte il sigillo apposto da nonna  Maria si sarebbe eroso e io sarei scomparso da me stesso, il mio corpo come un suo burattino. Tornavo da lei, mamma e papà non potevano fare niente, nel buio solo il rosario illuminava l’angolo sacro. Lo recuperavo, mi infilavo tra le lenzuola della nonna e mi addormentavo sotto la sua santa protezione di odore  di borotalco e di rantoli sonori. 

Quel bacio con il demone giapponese di Eva ha infranto le protezioni, lo rifaccio per esserne sicuro  e per liberarmi di quel peso che ancora mi affligge.  

«Lu? Tutto bene?» 

«Sì, stavo pensando a nonna Maria e a quanto era stronza» 

«Bella stronza, cazzo.» 

Socchiudo gli occhi, la stanchezza che lentamente rilassa i muscoli. Sicuramente lo faceva per  proteggermi, a modo suo. Il telefilm continua e le palpebre si fanno sempre più pesanti.  Involontariamente recito a memoria tutte le domande della nonna ma, apposta, sbaglio tutte le  risposte. Il sonno arriva subito questa volta. 

«…Pronto» 

«Pronto buonasera, scusate per l’ora, scusatemi veramente, sono Eva» 

«Eva, e che è successo? Dimmi tutto. Mica è successo qualcosa?» 

«No, no è che Luciano si è addormentato adesso. Mi dice che state sveglia sempre fino a tardi  allora ho colto l’occasione per chiamarvi» 

«Io mi addormento solo dopo le tre di notte, perciò a’ cainata mia me chiamava a’ Spiritata» «Ah sì? E che c’entra con le tre di notte?» 

«Eh… alle tre di notte è l’ora del diavolo! Era molto cattolica chella pazza» «Mmh… sì, lo so.» 

Accendino, la ruota che fa cilecca un paio di volte, poi espira fumo dai polmoni per un tempo  infinito. 

«Perché mi stai chiamando piccerè?» 

La ragazza si tormenta il pollice con l’indice della mano libera, si incaglia in una pellicina con  l’unghia e scava più a fondo. 

«È una brutta cosa, forse ho cambiato idea» 

Zia Rita fa ancora un tiro lungo. Inspira e poi espira profondamente. 

«Mi vuoi chiedere del matrimonio? Lo so che Luciano ci tiene assai…» 

«Avevo-pensato-che-potevate-farci-da-testimone» 

Il ritmo si spezza, la brace consuma la sigaretta tra le dita della vecchia lasciando solo cenere. Nessuno parla e il silenzio si riempie del boato di un tuono. 

«Pur tu, eh, c’sai fa’. E se così dev’essere, così sia piccerè.» 

Dovrei stupirmi, eppure in fondo, lo sapevo.  

Quando entra in chiesa, il giorno del matrimonio, ha il vestito grigio che si è comprata per il  funerale, me lo aveva confessato qualche tempo prima. Era andata con Ada e Lina perché  potessero controllare che fosse adeguato, lei aveva solo chiesto che fosse grigio. Bianco non se lo  poteva permettere, nero le sembrava triste. 

È appollaiata sulla sedia a rotelle e intorno alle spalle ha una stola rosso arancio.  Mia madre la accompagna all’altare lentamente, Zia Rita mantiene lo sguardo vuoto fisso su di me. Una corazza opalescente le ha coperto le pupille e i suoi occhi si abbinano perfettamente alla  collana di perle che le pende dal collo.  

Quando si avvicinano, mamma mi bacia rapidamente una guancia e mi sussurra all’orecchio:  «Ti ricordi del pettirosso?» con lo sguardo indica sua zia.

Zia Rita ha perso la vista, ma ha un udito invidiabile: «stai dicenn’ sul strunzat’ a stammatina Luise’.» 

Mamma ride, gli invitati sono pochi e tutti conoscono la zia almeno per la fama, solo per questo non si imbarazza. Mi inginocchio per salutarla, ha i capelli radi legati in una crocchia. Puzzano di  Merit e del suo solito profumo pungente. 

«E che ci fai tu qua?» 

«Te la sei scelta brava Lucia’, quella è più stronza di me» non ride, è agitata. «Mi ha chiesto di fare la testimone, a me, che nessuno mi ha mai chiesto di essere testimone di niente»
«Ah, è per questo ti sei decisa?» 

«Essì, mica venivo se no, almeno se devo schiattare, schiatto in una posizione d’onore. In mezzo a  una chiesa, davanti a tutti quanti.» 

Le do un bacio su una guancia, lei mi cerca il volto con le dita.  

«Grazie» glielo sussurro all’orecchio. Lei sorride appena. 

«Te la vuoi fumare una bella Merit mentre aspettiamo?» 

«Ma mo dovrebbe arrivare Eva.» 

«E che ce vo’, ‘o tiemp’ e ‘na sigarett’.» 

Nessuno ha il potere di fare niente. Ne prende due, se le infila in bocca, fa girare la pietra  nell’accendino. Poi una me la porge accesa, le dita si protendono nel vuoto. Se ne accorge per  prima mamma che si batte la fronte con una mano e scappa a rassicurare il chierichetto, poi il  chiacchiericcio di sottofondo degli invitati si spegne fila dopo fila. Gli occhi tutti puntati su di noi. Io l’accetto, non potrei mai rifiutarla. Il fumo mi pervade prima la bocca, poi scende nei polmoni. Inspiriamo ed espiriamo.  

Si rilassa lentamente, come se stesse respirando solo adesso. 

«Lucia’, la storia del pettirosso gliel’ho raccontata io a tua mamma. Ma non l’ha mai capita. Tu lo sai perché il pettirosso si è sporcato del sangue di Gesù Cristo?» 

«No, dimmelo tu.» 

Prende un lungo tiro, con l’unghia smaltata del pollice cicca sul pavimento di marmo.
«Perché il pettirosso si è andato a mangiare una bacca che stava proprio su quella corona di spine. Si è poggiato sulla testa del Signore e si è fatto i cazzi suoi. Perché al pettirosso di quell’uomo appeso alla croce da altri uomini non gliene fotteva proprio niente. Solo che tutto quel sangue l’ha sporcato, allora l’hanno punito. L’hanno marchiato per sempre per l’ingordigia.» Facciamo un altro tiro insieme. 

«Il pettirosso è sbagliato, pensa solo a se stesso. Ma è il Signore che lo ha fatto così no? Perché pure il diavolo lo ha fatto il Signore, se ci ha fatti sbagliati allora, meglio che ci mette le corna e ci sporca il petto. Tanto è colpa sua.»

Le tremano le dita, più del solito. 

«Quindi mo ci mettiamo qua, io e te e quella stronza fina fina ‘e mugliereta, al cospetto del Signore, sbagliati e con le macchie di sangue rosso in petto. Vi sposate, così sono tutti contenti. Poi si ‘o Signore tene o curagg’ me fa murì mo mo, e quant’è vero Dio faccio ‘na rivoluzione che chella do diavolo a paragone è niente. Tanto l’ultima Merit me la so’ fumata» 

Sorrido, lei ha la faccia sicura, l’espressione dura di chi non è mai scesa a patti con niente.
«Ma tu ci credi veramente a queste stronzate?»

Per un secondo mi sembra che il suo sguardo appannato si incroci con il mio, non le ho mai chiesto se ancora vede qualcosa, ma so per certo che mi sta guardando. La convinzione di un istante prima si scioglie, le rimane una faccia da bambina vecchia che accenna un sorriso. «Ninù, se credevo a tutt’ ‘sti strunzat’ mica stavo qua.»

Immagine generata con DALL-E
“a robin has a thorn with a red berry in its beak, realistic oil painting”